IL DIVORZIO TRA LAVORO E RIPRESA, di Dario Di Vico
25 maggio 2010
Gli americani la chiamano job recovery, la ripresa senza lavoro. In linea di principio l’espressione dovrebbe equivalere a un ossimoro, a una contraddizione in termini. La tradizione ci insegna infatti che quando c’è sviluppo c’è anche un aumento degli occupati, più o meno significativo a seconda della tipologia e della qualità della ripresa. Ma stavolta no, la Grande Crisi porterà con sé questa discontinuità. Almeno è quanto sostengono molti economisti, che disegnano un futuro prossimo nel quale ci sarà ripresa statistica ma non riavremo il numero di occupati del 2008. dirlo è relativamente facile, analizzarne le conseguenze spaventa. Significa non solo che una fetta dei lavoratori che oggi sono in cassa integrazione non rientrerà, ma anche che i giovani continueranno a trovare porte sbarrate tra sé e il primo impiego.
Perché questa ripresa sarà jobless? innanzitutto perché porterà con sé una drastica rivisitazione della divisione internazionale del lavoro. Una quantità decisiva dello sviluppo che stiamo conteggiando è merito dei Paesi emergenti (Cina, Indi e Brasile). Il manifatturiero sta delineando le sue nuove roccaforti e, comunque, vada, l’Italia subirà un dimagrimento della sua forza produttiva. Non una deindustrializzazione, speriamo, ma un rattrapimento sì. Tutto ciò sarà ancora più vero per le grandi imprese: il caso Fiat, con le difficili scelte che il gruppo dovrà adottare per gli stabilimenti della penisola, lo dimostra a sufficienza.
Ma non è tutto. Il made in Italy, per resistere alla concorrenza low-cost dei Paesi asiatici, è costretto a salire di gamma, a sfornare prodotti più sofisticati, difficili da clonare: in qualche maniera si terziarizzerà come già sta avvenendo nelle star up dei parchi scientifici. Offrirà alla clientela un qualcosa che in parte è manifattura e in parte servizio. Speriamo che ciò avvenga e che il nuovo prodotto italiano incontri il favore delle nascenti middle class del Terzo Mondo; dobbiamo sapere però che un manifatturiero più evoluto ha bisogno di una forza lavoro più rarefatta. Camici bianchi in amuleto, tute blu in diminuzione e n in certo con un rapporto di uno a uno.
E allora, come faremo a dare risposte quantitativamente significative alla domanda di occupazione? La tesi che si sta affermando tra gli esperti punta sulla rivalutazione del lavoro manuale non manifatturiero, quello rappresentato in alto dai mestieri d’arte e in basso da infermieri e badanti. Bisognerà convincere i nostri giovani che si tratta di occupazioni con una loro dignità, dotate di bagaglio professionale e ben remunerate.
Da Treviso arriva un segnale che fa capire come diverse cose stiano cambiando, a causa della recessione. Per la prima volta, ai corsi di formazione per badanti e infermiere gestiti dalla Provincia si è iscritta una discreta quota di italiani, laddove fino a ieri gli stranieri facevano il pieno. Per carità: non è così che si risolverà il rebus della jobless recovery. Ma va sottolineato perché accanto alle politiche governative per il lavoro e alle buone idee sfornate da economisti e sociologi, ci sarà bisogno di una duttilità culturale da parte della società. Disposta a seppellire qualche tabù.