IL DISASTRO DELL’ILVA FRUTTO (ANCHE) DELLA GIUSTIZIA MALATA. di Enrico Cisnetto da Pensalibero.it dell’ 11 novembre 2019

11 novembre 2019

IL DISASTRO DELL’ILVA FRUTTO (ANCHE) DELLA GIUSTIZIA MALATA. di Enrico Cisnetto da Pensalibero.it dell’ 11 novembre 2019

La crisi infinita di Alitalia, la fuga della Fiat: ecco le prove che la politica non c’è più.

Tre indizi fanno una prova. Per la verità di indizi ne potremmo elencare molti altri, ma i tre più importanti si chiamano Ilva, Alitalia e Fiat. E provano che a furia di ignorare, o peggio, demonizzare, la politica industriale, il risultato è che accadono disastri irreparabili al nostro sistema economico, costringendoci ad una decrescita infelice quando non ad una recessione impoverente. Cosa che rischia di renderci un paese in via di sottosviluppo. Già, perché c’è un maledetto filo rosso che lega vicende apparentemente estranee l’una all’altra come il blocco della più importante acciaieria d’Europa, il folle protrarsi della gestione commissariale di una compagnia aerea che un tempo primeggiava nei cieli del Vecchio Continente e la firma di un accordo internazionale nell’auto, quello con Peugeot, che potrebbe rendere ancor più marginale la presenza del gruppo Fca in Italia dopo che già testa e fabbriche erano volate negli Stati Uniti (e in altre parti del mondo) con Chrysler. Quel filo si chiama assenza della politica. Fase terminale di una malattia, la corrosione delle istituzioni democratiche, che prima si era manifestata sotto forma di “cattiva politica” e ora, da qualche tempo, si è aggravata per effetto della progressiva scomparsa, per ininfluenza, della medesima.

Partiamo dal caso Fca-Peugeot, cioè quello del quale poco o nulla ci si è lamentati. “È un’operazione di mercato tra imprese private”, ha commentato laconicamente il governo, quasi a voler dire “che c’entriamo noi?”. Eppure l’aggregazione tra la già ex italiana Fca, che appunto non è più Fiat, e la francese Peugeot è solo l’ultima di una lunga serie di cessioni esplicite o mascherate da accordi paritari che, con la riduzione o addirittura l’azzeramento dei capitali italiani e la delocalizzazione degli impianti produttivi e degli headquarters, segnano la progressiva desertificazione industriale. Situazioni di fronte alle quali si misura tutta l’impotenza e l’ignavia di un sistema politico che passa da un estremo – confondere la politica industriale con il dirigismo e quindi astenersi di fronte a qualsiasi scelta imprenditoriale – ad un altro, cioè quello di ritenere la nazionalizzazione come l’unico rimedio per salvare una stalla da cui sono già scappati i buoi. Così è successo che mentre in Francia della scelta dei vertici di Peugeot era perfettamente a conoscenza Macron e il governo, da cui è arrivato l’assenso (seppure non formale) all’operazione con Fca, da questa parte del tavolo di trattativa tra le imprese a nessuno è venuto in mente di premurarsi di sapere l’opinione di Conte o di qualche ministro. Vuoto pneumatico. Ma non poteva che essere così, di fronte ad una politica che non ha né la sensibilità né le competenze per misurarsi con la necessità di rendere il sistema industriale del paese organico e non semplicemente la somma delle individualità. Il risultato è che il capitalismo italico si è via via impoverito, di imprenditori – basta vedere come è ridotta Confindustria – e di imprese. C’è un caso sconosciuto ai più che la dice lunga su questo. Ci è capitato di vedere la classifica delle maggiori società che in Italia gestiscono i parcheggi cittadini: ai primi tre posti ci sono operatori stranieri, uno spagnolo, uno austriaco e uno belga, che complessivamente hanno oltre 43 mila posti auto. Contro i 7 mila dell’italiana Arpinge, che meritevolmente ma solitaria combatte a suon di acquisizioni la battaglia per la supremazia in un campo dove sarebbe logico che fossero italiani i gestori degli spazi nei silos delle nostre città, delle nostre aree commerciali e dei nostri aeroporti.

Del declino nazionale, poi, Alitalia è un vero e proprio simbolo. Gestione pubblica e gestione privata hanno ugualmente fallito, vittime di povertà manageriali, di logiche corporative sindacali e di populismo politico, fattori che si sono sommati alla generalizzata crisi internazionale del trasporto aereo, peraltro circoscritta a precisi periodi storici e oggi in buona misura superata da chi ha saputo ristrutturarsi per tempo. Nel corso delle diverse fasi degli ultimi tempi ogni volta avevamo creduto di aver visto il peggio, ma mai nessuno poteva immaginare che il varo di un presunto piano di rilancio – l’ennesimo – potesse trascinarsi per mesi nonostante fosse affidato ad un soggetto pubblico, le Ferrovie, cui certo non manca la predisposizione all’obbedienza al governo (quale che esso sia). Ma è proprio qui il punto: è difficile obbedire a chi non sa dare ordini perché, non sapendo cosa ordinare, si limita enunciare principi (spesso sbagliati) e a pronunciare slogan. Una volta il limite delle società pubbliche era dato dalla loro eccessiva ossequienza verso il potere politico, oggi pur essendo rimasta l’obbedienza, è dato dal vuoto pneumatico in cui questo rapporto si consuma, e che rende miseramente straccioni persino gli interessi non dicibili e non commendevoli che quel rapporto genera. Ergo Alitalia muore nella più assoluta babele di parole inutili che la circonda.

E veniamo al caso più grave, Ilva. Più grave sia per la dimensione occupazionale, sia per la strategicità della produzione di acciaio per un paese manifatturiero come il nostro e che per di più ha bisogno di ricostruire la gran parte delle sue obsolete infrastrutture, ma sia, anche e soprattutto, perché il disastro industriale di Taranto è figlio del peggiore dei problemi strutturali che l’Italia si trascina da oltre un quarto di secolo, la negazione del diritto e il fallimento della giustizia. Cerchiamo di essere chiari. È possibile, anzi probabile, che Arcelor Mittal sia intervenuta in Ilva dopo il disastro dei Riva per evitare che quello stabilimento finisse in mano a concorrenti con cui la cordata franco-indiana si gioca la supremazia mondiale della siderurgia. E dunque è altrettanto probabile che quella logica speculativa la induca ora, di fronte alla guerra planetaria dei dazi e alla frenata nei consumi di acciaio (specie a causa della crisi del settore auto), a costruirsi una way-out di fronte al fatto che perde due milioni al giorno. Nulla di cui stupirsi, fa parte del gioco. Ciò che è invece inammissibile è la stupidità con cui i governi italiani le hanno offerto clamorosi alibi per giustificarla, questa fuga. Dice un uomo intelligente e privo di scorie ideologiche nella testa come Marco Bentivogli: “qualcuno investirebbe 3,6 miliardi in uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?”. Si badi bene, è un sindacalista che parla, non un “padrone”. Che sa perfettamente come la storia giudiziaria italiana sia lastricata di orrori commessi in nome della “continuità del reato”, fattispecie che concorre con molte altre ad averci trasformato da patria del diritto a patria dell’incertezza del diritto. D’altra parte, è difficile accusare Arcelor Mittal di fare dell’allarmismo quando lamenta che la scelta del governo di toglierle lo scudo legale che la proteggeva, la espone alla discrezionalità di una magistratura che è arrivata a sequestrare 1 miliardo e mezzo di prodotti finiti dicendo che erano il corpo del reato. Per questo un altro sindacalista, anche se ex, come Giuliano Cazzola arriva a dire che “l’Ilva di Taranto l’hanno uccisa le Procure”.

Qui dunque si sommano tre debolezze della politica. Una storica, quella che ha generato lo squilibrio del potere giudiziario, cui nessuno è stato capace di porre rimedio, nemmeno coloro, come Berlusconi, che l’hanno denunciato. Una, anch’essa di lungo corso, che ha a che fare con il continuo cambio delle norme, cosa che genera un’incertezza di contesto che per un imprenditore è quanto di peggio possa capitargli. E infine la più recente, quella relativa all’inclinazione del ceto politico al populismo più becero, fatto che impedisce di affrontare i problemi – quello ambientale, in questo caso specifico – senza la demagogia che pretende, per esempio, la salubrità assoluta nelle attività produttive senza concedere la necessaria gradualità nel raggiungimento degli standard stabiliti, anche al prezzo di far saltare migliaia di posti di lavoro, mettere in ginocchio un’intera città e privare il sistema industriale di una infrastruttura produttiva indispensabile. Così, con l’Ilva che è ormai di fronte al bivio tra chiusura e nazionalizzazione, rischiano di andare in fumo 10 mila posti di lavoro, qualcosa come 3,5 miliardi di pil e 1 miliardo di investimenti all’anno, di allungarsi a dismisura i tempi del risanamento ambientale dell’area e della città. Un crimine.

Dunque, è bene ricordarsi che in politica ci sono errori circoscritti che i cittadini pagano subito, ed errori reiterati e di natura strategica le cui conseguenze, devastanti, si vedono a distanza di tempo. La politica economica miope, la politica industriale inesistente e la cattiva giustizia non curata, appartengono a questa seconda categoria. E lasciano sulla pelle del paese e di tutti noi segni indelebili. È quello che noi, voce nel deserto, chiamiamo da oltre due decenni, il declino italiano.

 

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