IL COMPAGNO BETTINO CRAXI, di FR, da Il Riformista del 13 dcembre 2009
27 gennaio 2010
Ho incontrato Bettino Craxi una volta sola, nell’ottobre 1999, nella sua casa di Hammamet. Non lo avevo mai conosciuto prima. Mi sarebbe piaciuto fare un libro insieme a lui, un libro di idee e non di recriminazioni che restituisse finalmente il compagno Craxi (e non soltanto la sua politica, che tutti oramai mostrano, col senno di poi, di apprezzare e commemorare) alla sinistra italiana. L’idea che un ‘comunista’ si interessasse a lui lo incuriosiva, e se non si fosse gravemente ammalato forse il libro lo avremmo fatto davvero. Questo è il racconto di quell’incontro così come lo scrissi per La Stampa in occasione del suo primo ricovero in ospedale:
Abbiamo chiacchierato per una buona mezza giornata, prima seduti nel patio al lungo tavolo ingombro di carte, libri, fotocopie, giornali; poi nel bel giardino interno circondato dalle palme. Sebbene sia molto diverso dall’immagine che ciascuno di noi ha nella memoria, Craxi mi è sembrato in buona forma. Non gli piace far la parte del malato. Ma la sua malattia conosce rapidi mutamenti, crisi improvvise. Gli ho chiesto del passaporto diplomatico promessogli da Arafat. “Non è un problema, il passaporto. Potrei averlo anche dalla Tunisia, se lo chiedessi. Ma per andare dove?” In Italia, gli ho detto. “Macché. Non posso mica tornare in Italia così”.
Non abbiamo parlato né dei suoi processi e delle sue condanne, né dei modi per consentirgli di tornare in patria. Però è chiaro che è l’Italia la sua ossessione. A torto o a ragione, Craxi è convinto di subire una grande ingiustizia: non perché non si consideri responsabile, ma perché avverte una sproporzione intollerabile fra le imputazioni e le condanne che ha ricevuto, e quelle che sono toccate agli altri.
Tuttavia, non mi è parso preda del rancore o del risentimento. Ha detto: “Sapessi quante cose potrei raccontare su questo o su quello… Li ho conosciuti tutti, io. Però non mi va di fare questa parte. Almeno finché sono vivi”. Mi ha chiesto notizie di Occhetto, che ricorda con affetto. “Ci siamo conosciuti a Milano, eravamo studenti e facevamo già politica. Abbiamo sempre avuto buoni rapporti”. Gli ho chiesto perché mai, ai tempi della “svolta” che porterà allo scioglimento del Pci, nel 1989, lui e Occhetto non si siano intesi. La storia d’Italia forse sarebbe cambiata, se la sinistra avesse smesso di farsi la guerra.
“Quando cadde il Muro di Berlino, feci un rapido calcolo – ha risposto Craxi –. Se scateno una campagna anticomunista, mi dissi, fra cinque anni avrò conquistato un milione di voti. Non ne vale la pena. Per questo lanciai invece l’unità socialista. Riservatamente, proposi al Pci un patto federativo. Occhetto non era contrario, anzi. Ma un giorno mi disse che la maggioranza del suo partito non l’avrebbe mai seguito, perché voleva l’accordo con la Dc. Capii che era così quando un giorno vidi Gava uscirsene con la proposta di un governo col Pci. Poi venne Mani pulite…”.<>C’è una vena di rimpianto, nel tono con cui Craxi pronuncia queste parole: perché è evidente anche a lui che non fu soltanto colpa di Achille Occhetto se la sinistra si dilaniò anziché allearsi, ed è probabile che Craxi già allora capisse quanto ormai logora e frusta fosse l’alleanza di pentapartito.
Dei “comunisti” di oggi abbiamo invece parlato poco. “Non li conosco, non conosco D’Alema [allora a palazzo Chigi, Ndr]. Però lui mi sembra troppo solo e la sua maggioranza troppo litigiosa. Anch’io ero solo, ma finché ho vinto avevo il partito in pugno. Invece mi sembra che D’Alema non abbia il partito con sé, anzi”. Gli ho detto che i partiti non sono più quelli di una volta. Craxi è scoppiato a ridere e ha fatto una faccia contrita: “Mi stai dicendo che… non c’è neanche più il Pci? Allora siete messi davvero male, in Italia”. Poi mi ha parlato della sua amicizia con Pajetta, con Cossutta, con Chiaromonte: e mi è sembrato improvvisamente lontano, come sopravvissuto ad un naufragio, persino sperduto. Mi è sembrato anche, nettamente, un uomo di sinistra – un figlio della sinistra italiana, orgoglioso di esserlo.
Tra i vezzi di Craxi c’è quello di fingere di non conoscere nulla dell’Italia (“Che cosa vuoi che sappia, io me ne sto qui, lontano…”). Al contrario, è molto informato, e non soltanto dalia lettura dei giornali: conosce i retroscena, coglie i dettagli, sa interpretare gli avvenimenti, ne intuisce l’evoluzione. Mi è sembrato davvero un politico puro, come ce ne sono pochi ormai: la politica è la sua passione, il suo demone, il suo destino.
Gli ho chiesto allora del suo giardino, delle palme, dei datteri: chissà perché, mi è venuto in mente Berlusconi che a Porta a porta ha mostrato alle telecamere il suo parco con la competenza di un giardiniere diplomato. Craxi invece ha subito tralasciato le piante, di cui evidentemente gli importa assai meno che della politica, e mi ha indicato un portico sul fondo: “Vedi quel tavolo laggiù? Tanti anni fa, quando viveva a Tunisi, cenammo con Arafat”. Ridacchia, come per confessare una marachella: “Tempo dopo, riguardando le foto di quella cena, mi accorsi che c’era anche Abu Abbas a tavola con noi… e io non sapevo neanche chi fosse”.
Prima di salutarmi, Bettino Craxi mi ha regalato un libriccino stampato a proprie spese. S’intitola Garibaldi e l’indipendenza della Tunisia e si conclude così: “La voce di Garibaldi suona ancora oggi nella storia dell’indipendenza dei popoli come un grande esempio di coerenza, di generosità e di umanità”. Nel salone di casa, poggiato ad una parete già ingombra di quadri, c’è un grande diploma che conferisce a Craxi il titolo di “generale garibaldino ad honorem”. L’ho rimproverato per la trascuratezza. “Hai ragione – ha detto Craxi – debbo proprio appenderlo uno di questi giorni”. Chissà, forse quel diploma sta lì da anni: tutto, ad Hammamet, ha un sapore provvisorio. Come se Craxi volesse convincersi di essere appena arrivato, di essere sul punto di ripartire.