IL CASO DEL SINDACO DI RIACE: VI PUO’ ESSERE UN’ALTERNATIVA IN POLITICA E DIRITTO? (IL CHE NON HA NULLA A CHE VEDERE CON L’USO ALTERNATIVO DEL DIRITTO) di Francesco Bochicchio
02 novembre 2018
Il caso del Sindaco di Riace è emblematico del degrado
istituzionale italiano. Un sindaco di sinistra alternativo che aiutava i
migranti andando anche al di là della legge in modo controllato e non
esasperato, al fine esclusivo di riconoscere i diritti quando le procedure
erano palesemente inadeguate, è sotto processo (“rectius”, al momento si tratta
solo indagini giudiziarie).
Prima ha subito l’umiliazione degli arresti disciplinari,
poi annullati, con liberazione quindi dagli stessi arresti domiciliari,
accompagnata però dall’obbligo di andare fuori zona, questa misura sapiente di
tutela delle libertà fondamentali ma a prezzo della morte civile
dell’interessato.
La sinistra radicale è insorta rivendicando il diritto di
resistenza che si concretizza nel diritto fondamentale di violare la legge è
ingiusta.
Il diritto di resistenza è una misura fondamentale a
disposizione del popolo per ribellarsi di fronte ad un potere oppressivo e più
radicalmente di fronte ad un diritto ingiusto statuito dal potere oppressivo.
Vi è uno splendido filone in tal senso da Antigone a Rosa
Luxemburg.
E’ un filone culturale che appartiene da sempre, salvo
piccole eccezioni circoscritte -e nemmeno pertinenti in quanto concretizzantesi
nel tentare di giustificare la rivolta nei confronti del potere centrale da
parte di nicchie di privilegiati-, alle correnti politiche radicali ed antagoniste,
pertanto negli ultimi due secoli a quelle appartenenti alla sinistra radicale. Per
inciso, ciò è anche paradossale in quanto il punto di avvio è nell’Antigone di
Sofocle, tragedia tradizionalista e religiosa, in cui il diritto più alto di
fronte a cui deve cedere quello ingiusto positivo è di natura per l’appunto
religiosa: la grandezza delle idee va oltre i loro autori. Chiuso l’inciso, non
appartiene alla destra radicale, in quanto la ribellione di questa prescinde
totalmente da ogni considerazione giuridica, discendendo “in toto” da
valutazioni politiche, non mediate da un punto di vista giuridico.
Nel secondo dopoguerra, vi è stato un intervento in tal
senso da parte di settori di destra, relative a piccole imprese ed a lavoratori
autonomi, di ribellione contro un eccesso di imposizione fiscale: ciò in modo
espresso in America, ma oramai anche in Italia si giustifica così l’evasione
fiscale. E’ una situazione particolare, degna di attenzione, ma anche qui non
riconducibile al diritto di resistenza, in quanto la ragione politica non ha
alcuna mediazione giuridica, intendendo al contrario respingere le istanze di
giustizia e di socialità, e quindi sia la destinazione della spesa pubblica a
scopi sociali sia la progressività fiscale.
La teoria del diritto di resistenza presenta due profili particolarmente
delicati: da un lato, occorre distinguere tra lo stesso ed il diritto
naturale. Contro il diritto positivo si
è sempre fatto riferimento ad un diritto più alto. Di fatto, è la svalutazione
del diritto positivo, che nei sistemi democratici, porta a incidere sulle
scelte delle assemblee elettive. Da un punto di vista squisitamente teorico, il
conflitto tra giustizia e norma appartiene alla filosofia pura e non alla
teoria generale del diritto, che al massimo può incentrarsi sul rapporto tra
clausole generali e norme specifiche, senza però arrivare a risultati drastici
quale la possibilità di abrogare la norma specifica come all’esatto contrario
la mancata possibilità di attutire la portata della norma. Non si può risolvere
in via giuridica il conflitto tra giustizia e norma.
Discorso diverso è se i valori, tra cui una giustizia
sostanziale effettiva, vengano recepiti nella Costituzione. Così il rapporto
diventa tra due norme, di cui una di valore superiore all’altra, come del resto
tra norme primarie (leggi) e norme secondarie (regolamenti): in via politica,
le scelte delle assemblee elettive non vengono inibite, semplicemente si
distingue tra un indirizzo politico costituzionale, relativo ai massimi
principi e valori, ed indirizzo politico ordinario, in grado di assumere le
scelte ordinarie nell’ambito proprio dei massimi valori e principi.
Da un punto di vista squisitamente teorico, i massimi
principi e valori non sono affatto privi di valenza positiva e non esercitano una
“tirannia”, come pretendeva Carl Schmitt, “tirannia” (che sarebbe) consistente nella
pretesa di vincolare la maggioranza con precetti astratti e generici e privi di
qualsivoglia razionalità, ma sono vere e proprie norme dalla generalità maggiore
rispetto a quelle ordinarie. Poiché la generalità e l’astrattezza sono
requisiti essenziali delle norme, una generalità ancora maggiore conferma la
loro natura normativa.
Se con i principi e con i valori si rende il diritto frutto non
più di un mero comando, ma della razionalità pratica, allora la strada per una
reazione, contro specifiche norme ingiuste, conformi all’ordine costituzionale
può essere elaborata.
Dall’altro lato, si pone il problema del rapporto tra
diritto di resistenza e rivoluzione: la resistenza al diritto ingiusto realizzerebbe
un prodromo alla rivoluzione; si confermerebbe così la natura politica e non
giuridica dello stesso. Piero Calamandrei, uno dei più grandi costituzionalisti
italiani, si espresse in termini di scetticismo sulla sua rilevanza a livello
costituzionale proprio per questo, ritenendo impossibile che una Costituzione
ammettesse la possibilità della propria abrogazione (cosa ben diversa da
modifiche circoscritte). Nella stessa ottica, si considera superato il diritto
di resistenza nei sistemi democratici e costituzionali, dove non vi è un potere
oppressivo, con norme ingiuste, verso cui ribellarsi.
Al di là delle suggestioni, il diritto di resistenza non ha
nulla a che vedere con la rivoluzione: è un diritto di natura esclusivamente negativa,
di ribellione al diritto ingiusto, ma non prefigura una nuova società: la resistenza
nei confronti dell’uso arbitrario dell’ordine pubblico -moti di Genova e Reggio
Emilia contro l’apertura ai fascisti del Governo Tambroni, forme di resistenze
anche armate nei confronti dei tentativi di “Golpe”- in nessun modo poteva
definirsi precursore del tentativo sciagurato di realizzare la rivoluzione a
mezzo della lotta armata negli anni ’70. Rosa Luxemburg fu nitida e limpida sul
punto quando negò espressamente, con una delle sue pagine più memorabili, la
possibilità di una rivoluzione realizzata in modo oppressivo. Il diritto di
resistenza nei confronti della reazione oppressiva e violenta può preparare il
terreno alla rivoluzione, purché democratica e rispettosa dei diritti di
libertà. I sistemi democratici e costituzionali non escludono, d’altro canto,
reazione violenta ed oppressiva, come del resto teorizzato da Carl Schmitt, con
la sovranità intesa quale forma di decisione assoluta in stato di eccezione.
L’incapacità perenne di controllo nei confronti dei servizi segreti conferma
tale punto.
In definitiva, il diritto di resistenza non solo è
ammissibile ma è soprattutto una forma essenziale di realizzazione dell’ordine
costituzionale quando questi esce soccombente in via di stretto diritto.
Ciò chiarito in via generale, non è così agevole incanalare
il caso del Sindaco di Riace nel diritto di resistenza, in quanto questi è un
diritto nei confronti del potere oppressivo, non a favore dell’esercente il
potere.
Chi ha il potere deve cambiare il diritto e non violarlo.
Il sindaco è una persona mirabile, e quella nei suoi
confronti è una persecuzione non ammissibile, ma la commistione di ruoli non
costituisce un modello di azione.
Quello di Riace è l’ennesimo caso di prova che la sinistra è
priva di una politica istituzionale: stando all’opposizione si può eccepire il
diritto di resistenza, ma non stando al Governo.
Discorso diverso è se al Governo si pongono le basi per un
dialogo con l’antagonismo, ma fermo restando che proprio il Governo sia sempre
il tutore della legalità. Un Governo che dialoghi con l’antagonismo deve
perseguire una legalità sostanziale, che peraltro si deve affiancare, e non
sostituirsi, ad una legalità formale, senza la quale quella sostanziale è
illusoria. L’errore degli anni ’70 fu quello di concepire un uso alternativo
del diritto, senza rendersi conto che del diritto non può ammettersi una
visione strumentale, dovendo invece riconoscere allo stesso una valenza
intrinseca, non appiattita sulle singole leggi ma in grado di realizzare valori
e principi di un nuovo ordine costituzionale.
La sinistra, anche giuridicamente e da un punto di vista istituzionale,
sembra incapace di superare la scissione tra Governo fine a sé stesso da un
lato e dall’altro mero ribellismo.