IL CAPITALISMO NON È UN’IDEA, È UNA MALATTIA CHE CI È PASSATA NELLE CELLULE di Marco Pacini da L’Espresso+ del 4 gennaio 2020
04 gennaio 2020
Boris Pahor, 105 anni autore di “Necropoli”, lancia il suo manifesto contro la dittatura del denaro. E aggiunge: «Per essere di sinistra non serve fare la rivoluzione, basta ascoltare il popolo. È ora di ribellarsi»
«Quello
che mi preoccupa di più è che non vedo una rivolta contro il capitalismo. Dove
ci sta portando il capitalismo? Non posso lasciare fuori questa domanda. La
crisi, le crisi che stiamo vivendo non sono nate dalla gente semplice, ma dalla
vittoria del denaro su tutto e tutti. Stéphane Hessel, che è stato in campo di
concentramento con me, scrisse “Indignatevi!”. Ma io non vedo più nemmeno
questo: vedo piccoli fuochi, proteste, frustrazione... ma non la rivolta morale
contro il capitalismo. Viviamo in una società egoista, che fa schifo; il
capitalismo non è un’idea, è una malattia che ci è passata nelle cellule,
glielo dice un anticomunista».
È come un grido questo congedo di Boris Pahor, dopo oltre un’ora di
colloquio. Nonostante il sillabare lento, il tono basso della voce, come può
esserlo quello di un uomo che il prossimo agosto compirà 106 anni. Che ha
attraversato il buio del Novecento raccontandolo in migliaia di pagine.
Soprattutto in “Necropoli”, il capolavoro che ha preso forma nel campo di
concentramento nazista di Natzweiler-Struthof e che l’Italia ha scoperto nel
2008, con quasi 40 anni di ritardo da quando fu pubblicato per la prima volta,
in sloveno.
«Necropoli riesce a fondere l’assoluto dell’orrore con la complessità della
storia», scrisse Claudio Magris nell’introduzione alla prima edizione italiana
(fatta eccezione per un una piccola traduzione apparsa nel ’97 con diffusione
locale) dell’opera. E con la complessità della storia, con il dovere della
memoria, Boris Pahor continua il suo corpo a corpo quotidiano. Lavora ancora lo
scrittore della minoranza slovena di Trieste, più volte candidato al Nobel.
Qualche pagina al giorno.
Nel tinello, su un piccolo tavolo c’è una vecchia macchina da scrivere, una
Remington Deluxe, con un foglio infilato che attende l’inchiostro. «L’ho
acquistata a Lubiana tanto tempo fa. L’ho fatta pulire bene, vede? Batte
forte... La uso da 40 anni».
In veranda ci sono dei panni appena stesi dalla badante con cui Boris Pahor
parla solo in sloveno. Tra i panni si intravede l’azzurro. Chiediamo di uscire.
Là sotto c’è il golfo di Trieste: la vista spazia da Pirano, gioiello veneziano
incastonato nella piccola fetta di Istria slovena, al castello di Miramare. La
Storia in uno sguardo, da questa villetta sul Carso: la Serenissima, gli
Asburgo, la Resistenza, la pulizia etnica e linguistica dei fascisti in
quest’altopiano slavofono di pietre e boscaglia, le leggi razziali annunciate
laggiù a sinistra, tra quei palazzi imperiali un po’ sfuocati da qui, in piazza
Unità. L’Italia in attesa fino al 1954, quando finisce l’amministrazione
alleata, la cortina di ferro, il confine del “nostro mondo” che passava qui,
qualche centinaio di metri più su.
Al numero di cellulare aveva risposto lui, che a 105 anni fa ancora il
segretario di se stesso. «Chi? Ah, l’Espresso? Venga, venga a trovarmi, ma io i
105 anni li ho compiuti ad agosto... di cosa vuole parlare?».
Della storia professore, di quella che stiamo vivendo, e di quella che si
annuncia. Del passato, del Novecento, lei forse ha già detto e scritto
tutto.....
«Molto, forse. O forse non abbastanza, visto che voi giornalisti in Italia non
vi siete mai occupati veramente della comunità slovena di Trieste... Noi
eravamo la pietra dello scandalo, sa. L’Italia voleva Trieste ma noi triestini
sloveni eravamo qui da secoli... Eravamo una comunità culturale forte. Poi è
arrivato il fascismo e ci hanno caricati sui treni. In Francia conoscono la
nostra storia, nelle scuole italiane non se ne è mai parlato».
E sarebbe più che mai necessario, al risorgere dei nazionalismi, di
nostalgie di regime...
«La memoria non è necessaria, è indispensabile. Ma quando si parla di
nazionalismo io distinguo. Finché c’era l’Unione sovietica anche l’Europa aveva
costretto i popoli alla sottomissione. Appena è crollata l’Urss i popoli hanno
cominciato a respirare, a sentirsi liberi».
Ci sono nazionalismi buoni e cattivi? È questo che sta dicendo, professore?
«Senta, le faccio un esempio: i poeti e gli scrittori classici sloveni sono
fioriti sotto l’impero austro-ungarico. Li lasciavano fare, non erano oppressi,
era un nazionalismo onesto... Poi arrivano il fascismo e il nazismo, e oggi
spuntano funghi velenosi qua e là. Ma io sono un disgraziato, ho visto i campi
di concentramento e dopo questo non vedo nulla di simile all’orizzonte».
Insomma i “funghi velenosi” non prenderanno il sopravvento?
«Questo dipenderà... Se rinascerà una sinistra più persuasiva resteranno
fenomeni isolati e probabilmente non duraturi. Per il momento la sinistra è
andata a ramengo, ovunque. Per essere di sinistra non serve essere
rivoluzionari: sarebbe stato sufficiente ascoltare il popolo. Invece non sono
riusciti a proporre nulla, a costruire uno scenario di sinistra senza comunismo
che potesse convincere il popolo. Dire questo non è populismo. Bastava essere
di sinistra “a metà” invece di inseguire la destra. E se insegui la destra, se
costruisci un modello sociale fatto solo di arrivismo, se non riesci a trovare
punti di mediazione e vivi di contrasti interni... beh, allora vince la destra,
è ovvio».
Le cronache, e non da oggi, raccontano di un razzismo che rialza la testa,
in molti luoghi d’Europa. E in Italia.
«Io sono al limite delle mie forze... questo forse mi induce a non voler
vedere? Non credo sia così. Nella società europea in generale non vedo ancora
spinte così forti verso il razzismo. Certo i bulbi per una a rinascita di
questo fenomeno ci sono ma sono minoranze e io ho visto altro... e come le
dicevo sono al limite delle mie forze».
Lei è stato definito nazionalista da una parte della sinistra della
Slovenia, poi c’è stato l’episodio di quel sindaco di colore nella cittadina
slovena di Pirano e qualcuno le ha dato anche del razzista, quando lei fece
intendere di non aver gradito quell’elezione. O almeno così fu interpretato...
«È stato un gigantesco malinteso. Io mi sono incontrato con quel sindaco e mi
ha detto: “Forse sono l’unico che ha capito quello che lei voleva dire”».
E che cosa aveva capito?
«Che la memoria, la storia di un luogo, contano. Il che non vuol dire che in
loro nome non si debba accogliere. Lui mi disse “vengo dall’Africa e ci sono
legato, quello resta il mio essere. Ora sono qui e provo a fare del mio
meglio”. Io avevo solo detto che non poteva conoscere, sentire profondamente la
storia di Pirano, non che non potesse essere un buon sindaco. Ecco, era tutto
qui».
La memoria, la storia...
«Purtroppo siamo senza memoria, senza storia. E quando accade questo tutto
viene rimesso in discussione, libertà compresa. Anche gli sloveni hanno
interpretato la libertà in modo sbagliato e hanno cominciato presto e rubare».
Ha votato alle ultime elezioni politiche?
«No, non ho seguito le elezioni italiane. Noi della minoranza slovena votavamo
sempre con la sinistra, ma vista la malaparata della sinistra italiana mi sono
disinteressato. Del resto nemmeno in Slovenia avrei votato la sinistra. Quale
sinistra?».
Provi a immaginarne una.
«E come? Come si fa a creare un governo sociale se si è completamente immersi
nel credo capitalista? È la grande domanda. Sicuramente avrà sentito anche lei
la favola dei cospirazionisti che racconta dei grandi capitalisti del mondo
riuniti attorno a un tavolo per mettere i popoli l’uno contro l’altro con lo
scopo di dominarli meglio... È una favola, naturalmente. Ma non la vediamo
questa tendenza al dominio inarrestabile del capitale, del denaro?».
Professore, qualcuno potrebbe leggere queste sue parole come un’evocazione
dei “poteri forti”, categoria che va per la maggiore tra i leader di questo
governo.
«Questo governo? Lasciamo stare. Sto cercando di capire come pensano di
rovinare ancora l’Italia. Non riesco a capire che qualità abbiano per fare
questa rivolta di cui io parlo, quella necessaria. Facendo debiti invece di
pagarli? Non si può governare con le illusioni. Mai».
Tornando al dominio del denaro, “inarrestabile” suona come una sentenza
definitiva. Se la politica nulla può, cos’altro? Una fede? Un miracolo?
«I miracoli non esistono o può farli l’uomo... Io sono un panteista. E mi
riconosco nelle parole di Einstein: “sono religioso ma non credente”. Mi
inchino davanti alla natura, lo faccio ogni giorno da quando sono uscito dal
campo di concentramento. Possono distruggere loro stessi gli uomini e con sé
stessi questa palla che chiamiamo mondo, il nostro mondo. Uno mi può dire: ma
cosa te ne importa che tu fra poco sarai sottoterra? Dico che me ne importa
perché c’è gente che vive, gente che nasce. Pensare a questo è un vivere
onesto. La natura è senza coscienza, ma noi ce l’abbiamo, o dovremmo averla».
Che cosa significa “i miracoli può farli l’uomo”?
«Io ricordo noi dei “triangoli rossi”... gli internati politici nei campi di
lavoro nazisti. Un pezzo di pane, una minestra di rape, nient’altro. Ho preso
la tisi, dovevamo morire come tutti gli altri: gli ebrei gli zingari... Sono
qui».
In questo mondo che non le piace.
«Ma potrebbe. Una sola cosa ci vuole: non il tavolo dei capitalisti che tengono
in pugno il mondo come nella favola (ma neanche tanto) dei cospirazionisti. Ci
vuole un altro tavolo, un incontro universale per l’uomo e la sua sopravvivenza.
Durerà un giorno? Un anno? Dieci anni? Non importa. Dobbiamo cercare uno scopo
per l’uomo finalmente, interrompere una storia che da Alessandro Magno a Hitler
ha significato sterminio. Un incontro universale tra medici, poeti, ingeneri,
religiosi... Mi si dice che è un’utopia? Se un uomo è capace di fare “miracoli”
come quelli che ogni giorno ci fanno vedere le tecnologie, perché non è in
grado di fare questo? Una ricerca per l’uomo, per vivere con senso una vita
diversa da quella dell’avere, del conquistare. Nessuno che si chiami uomo resti
senza pane. Si può. Solo così l’umanità della grande innovazione avrà creato
qualcosa di Nuovo».
Lei è uno scrittore. Che contributo può dare la letteratura, se può darlo, a
questa “innovazione”?
«La letteratura vale dove c’è già disposizione di spirito. Vale quando c’è chi
accetta, è all’altezza, per ricevere questa ricchezza. Ma che con la
letteratura si possa innescare questa rivoluzione morale, intellettuale,
psicologica... non ci credo. Altrimenti ci sarebbe riuscito il cristianesimo».
Come trascorre le sue giornate?
«Ho molti incontri, vengono a trovarmi. Ho una biblioteca a Prosecco dove ho
messo quasi tutti i libri. Porto lì chi viene a trovarmi, e parliamo. Poi
scrivo ancora qualche paginetta. Leggo, possibilmente in lingua originale... Mi
sono appena riletto “Vita di Gesù” di Renan».
C’è ancora il tempo per un caffè, che si raffredda nella tazza mentre Boris
Pahor ha un’ultima parola da aggiungere: rivolta.