I SOCIALISTI NELLA SECONDA REPUBBLICA di Alberto Benzoni del 11 dicembre 2019
11 dicembre 2019
Lo tsunami di Mani pulite e
le vicende che ne seguirono non travolsero solo noi. Portarono alla scomparsa
di liberali, repubblicani, socialdemocratici. Alla reinvenzione della
democrazia cristiana con diversi gruppi dirigenti, mutevoli ragioni sociali e
diverse destinazioni, fino a realizzare il sogno di Moro: abbracciare i
comunisti sino a soffocarli, più o meno amorevolmente. Al radicale mutamento
della ragione sociale e del nome del fu Pci; così come della Lega. Per tacere
del fiorire di nuovi partiti; e della loro scomparsa.
Noi siamo invece rimasti, a prima vista, quelli di prima. C’è il nome; anzi
questo nome si ripropone in circa quaranta versioni diverse. C’è il giornale
con il suo vecchio nome; anzi se ne annuncia una seconda versione. C’è l’antica
prestigiosa rivista. Ci sono molti vecchi leader, molti dei quali intervistati
dai giornali per capire il perché e il percome di ciò che sta accadendo. Ci
sono i vecchi simboli. C’è il nostro passato; grandi morti compresi; e uno al
di sopra di tutti, a simboleggiare la nostra tragedia e ad ispirare e guidare
il nostro inesausto desiderio di vendetta o, se preferite, di riparazione per i
torti subiti.
Personalmente, poi, siamo presenti dappertutto: dal Berlusconi dei suoi bei
giorni, fino alla sinistra pura e dura e nella sua versione più radicale.
Tutto questo, però, non è stato per noi ragione di forza ma di debolezza, anzi
di sterilità. Nulla di quanto abbiamo detto e fatto è arrivato all’esterno. E
non certo per il muro di silenzio e di disprezzo che ci ha circondato;
piuttosto perché nulla di quanto abbiamo detto o fatto ha avuto la forza per
romperlo. Nessuno di noi, dovunque si trovi (e parlo, tanto per essere chiari,
anche di me stesso e della mia attuale casa) ha il diritto di alzarsi, di indicare
una via d’uscita e di dire “seguitemi”. In una situazione in cui condividiamo
con i verdi il fat(t)o di essere, come loro, sopravvissuti alla morìa (o al
mutamento della ragione sociale) dei partiti della prima repubblica; ma al
prezzo della più totale irrilevanza.
Di chi la colpa? Di tutti (e quindi certamente anche mia) e di nessuno. Quali
rimedi? Forse ce ne sono; ma nessuno è in grado di indicarli; e men che meno di
avviarli concretamente. Quello che possiamo anzi dobbiamo fare è allora
interrogarci sulle ragioni del disastro o meglio della paralisi progressiva che
ci ha colpiti. Simboleggiata da un consenso elettorale che - drasticamente
ridotto sin dall’inizio - è andato costantemente calando fino ai livelli del
prefisso telefonico della Lombardia.
Io un’ipotesi ce l’ho. E vorrei sottoporvela. Anche perché ha il merito di non
far fare al sottoscritto una bella figura.
Tutto si svolge nel 1993. Anno che comincia con l’abbandono forzato (pardon con
il “passo indietro” richiestogli dal partito) di Craxi accompagnato da quello
del suo avversario, Martelli, travolto anche lui da Mani pulite. Da allora in
poi, un partito allo sbando, senza un gruppo dirigente alternativo e oggetto di
attacchi feroci che lo colpivano nel suo insieme; anche se, come dire, in modo
alquanto selettivo.
E’ in questo quadro di smarrimento e di abbandono che fui chiamato a fare il
commissario della federazione romana. Un’esperienza che non augurerei al mio
peggior nemico; il che mi esime dall’obbligo di raccontarla. Un passaggio però
va ricordato perché politicamente decisivo.
Eravamo partiti in modo baldanzoso: un rinnovato partito socialista, presente
con il suo simbolo e con il suo candidato sindaco alle elezioni comunali
previste per dicembre, salvo l’impegno a confluire, al secondo turno, su
Rutelli (una scelta che, a testimonianza della confusione generale, non fu
condivisa da tutti: alcuni si schierarono “uti singuli”, con il candidato Dc;
altri formarono una lista fin dall’inizio a sostegno di Rutelli, in aperta
polemica con il partito).
A metà percorso, però, intervenne Rutelli. Il Nostro, non contento di avere
insultato volgarmente Craxi, così da arrivare subito primo nello sport, tutto
italiano, di sputare in faccia all’avversario inerme, scrisse una bella lettera
alla direzione del partito il cui succo era questo. “I socialisti sono
autorizzati a votarmi al secondo turno; me senza accordi formali, senza il nome
sulla lista e senza candidati membri di passate amministrazioni”. La direzione
ottemperò (a opporsi, solo Dell’Unto). Io ottemperai previa protesta illustrata
al segretario del Pds romano, che se ne lavò le mani. E presentammo una lista,
con i repubblicani, insapore e inodore, a partire dal nome “laico riformista”:
un seggio che andò al capolista, Vittorio Ripa di Meana, e 19 consiglieri
circoscrizionali che si persero pressoché tutti per strada negli anni
successivi.
Era il segnale del futuro che ci attendeva. Non solo a Roma ma in tutta Italia.
Rimanevamo, collettivamente marchiati da una sorte di peccato originale; e,
allora, potevamo essere riammessi in società, leggi nelle istituzioni, ma
gradualmente e solo se accompagnati da qualcun altro e con il consenso dei
comunisti, trasformati da persecutori in protettori. Incapaci, diciamo così,
per impotenza procurata, ad affermarci da soli; e, nel contempo, dipendenti,
per la nostra sopravvivenza collettiva ma via via sempre più individuale, da
coloro che ritenevano principali, se non unici, responsabili della nostra
distruzione.
Identitari, ma senza identità. Aspiranti clienti di un padrone che odiavamo in
segreto. Una contraddizione alla lunga insostenibile.
In quello stesso anno si tenne un importante comitato centrale. L’ultimo, che
io sappia, in cui erano presenti tutti coloro che, di lì a poco, avrebbero
preso le più diverse direzioni. In quella circostanza il nostro Claudio
Signorile (il Santo patrono delle mediazioni) propose al partito di presentarsi
alle elezioni del 1994 solo nel proporzionale. La proposta fu respinta a larga
maggioranza; né fu mai presa in considerazione negli anni successivi perché
implicava una più o meno lunga traversata nel deserto che dirigenti, quadri e
peones non erano in grado di fare o di prendere in considerazione. Io stesso
votai contro in omaggio allo schema sinistra-destra che mi era connaturale.
Pure, con il senno di poi, la proposta di Claudio era giusta. Perché
collocarsi, in linea di principio, al di fuori dei due blocchi contrapposti
avrebbe costretto i socialisti a difendere, con se stessi, le conquiste della
prima repubblica, contrastando perciò radicalmente la cultura politica e le
scelte della seconda: dal giustizialismo alla liquidazione dell’Iri,
dall’antipolitica alla demolizione violenta dello stato e del pubblico. Un
compito che, in loro assenza, non ha svolto nessuno. E che solo loro erano in
grado di compiere, anche in conformità degli istinti profondi di Craxi.
Avere scelto l’altra ci ha reso invece spettatori passivi di un disastro
infinito. E in un ambiente ostile in cui era garantita la nostra sopravvivenza
ma al prezzo della nostra inesistenza politica. Siamo sopravvissuti. Ma pagando
un prezzo politico altissimo e per confluire, almeno per quanto riguarda la
maggior parte di noi, sul binario sbagliato.
Oggi è finalmente possibile stare in maggioranza assieme agli ex comunisti e,
nel contempo, operare pubblicamente per la loro distruzione. Perché a fare le
nostre veci sono in tanti: da Renzi, a Calenda, a Più Europa. C’è, però, una
piccola ma dirimente controindicazione: il fatto che, negli ambienti che
frequenteremo il socialismo - che si tratti delle persone, della Parola o della
Cosa - “non è bene accetto”.
Molti di noi, me compreso, hanno scelto una strada diversa, anzi opposta. Ma
nessuno di noi è in grado di lanciare la prima pietra. Perché l’obbligo di
fermarsi e riflettere sul passato e, quindi, sul futuro riguarda anche chi,
come noi, come me, è rimasto a custodire l’Ostia e a invocare il Nome; ma in
luoghi rigorosi chiusi e asettici e senza alcun contatto con il mondo esterno,
le persone e le cose.
Ci siamo salvati l’anima. Ma il compito dei socialisti è quello di aiutare la
crescita delle persone. Oggi milioni di italiani hanno bisogno di socialismo:
rinascita delle solidarietà collettive, progetti nazonali, ruolo dello stato,
pace. Manca l’offerta. E se manca l’offerta le nostre angosce collettive
troveranno, come già stanno facendo altre spiegazione e altri sbocchi.
Il futuro del socialismo non ci appartiene. Siamo noi che apparteniamo a lui.
Non siamo in grado di governarne il percorso. Ragione di più per intraprenderlo.