I SOCIALISTI E LO STATO. RICCARDO LOMBARDI. di Alberto Benzoni
24 febbraio 2018
I socialisti, e con loro i comunisti, arrivano al governo- a differenza degli altri partiti fratelli d’Europa occidentale- solo nel secondo dopoguerra; e con un retaggio, fatto di cultura politica e di memorie storiche, che, ancora a differenza di degli altri, li porta ad una visione schematica e riduttiva dello stato.
Presente, e in modo determinante, l’idea originale dello stato come strumento di Lorsignori e perciò strutturalmente ostile. A confermarla, il quarantennio successivo all’unificazione; e poi la guerra e il fascismo. Un arco di novant’anni in cui l’apertura giolittiana al socialismo riformista- già considerata all’epoca sotto il segno della compromissione se non del tradimento e non solo dai massimalisti e dai sindacalisti rivoluzionari ma anche dai Salvemini- era stata troppo breve e troppo contrastata per rimanere nella memoria storica del movimento.
Né valevano, a correggere questa visione, l’immagine dello stato come elemento costitutivo e costruttivo della collettività nazionale. Sia perché quasi novant’anni di storia non avevano cancellato, anzi, antiche divisioni; sia perché la narrativa sullo stato etico apparteneva, tutta intera alla destra e allo stesso fascismo. Mentre, dato ancora più importante, l’idea dello stato come promotore dello sviluppo economico e sociale e di conseguenza della democrazia che si andava inverando clamorosamente in quasi tutti i paesi d’Europa occidentale, e con il contributo essenziale della socialdemocrazia (ci torneremo tra poco) trovava nella nostra cultura resistenze pregiudiziali.
A ciò si aggiungeva, soprattutto da parte dei comunisti, un ulteriore fuoco di sbarramento. Dovuto, in una prima fase, ad una specie di blocco ideologico secondo il quale le vere riforme sarebbero state possibili solo dopo la conquista del potere politico. di riforme si potesse parlare solo all’indomani della presa del potere. E, nei decenni successivi, alla convinzione, espressa a più riprese, secondo la quale il valore di uno strumento dipendesse da coloro che lo gestivano (con conseguente ostilità nei confronti della Cassa del Mezzogiorno e, in misura variabile, dell’Iri e, invece, aspettative insane nei confronti delle regioni). Mentre permaneva all’interno del partito, una sensibilità più o meno marcata nei confronti delle critiche liberiste nei confronti del protezionismo e dell’industrialismo forzato, confermate dall’affermazione di questa linea sino agli eccessi del ventennio fascista.
Il primo, e negativo, effetto di questi giudizi/pregiudizi è quello di rendere la sinistra italiana cieca e sorda rispetto a quello che sta avvenendo in quasi tutti gli altri paesi d’Europa occidentale. Paesi segnati dal nuovo ruolo dello stato come promotore dello sviluppo e della redistribuzione del reddito (e anche del potere) a vantaggio del mondo del lavoro. Così in Francia con le nazionalizzazioni e l’affermazione della funzione dirigistica del potere centrale; così in Gran Bretagna con la costruzione di un sistema di welfare generalizzato, simboleggiato dal National Health Service e, ancora, con le nazionalizzazioni; così, infine, in Germania (come nei paesi scandinavi ), con l’attribuzione ai sindacati di un ruolo di indirizzo e di controllo in un quadro di collaborazione con il mondo imprenditoriale.
Cieca e sorda perché indifferente; o viceversa. E per una serie di ragioni cui abbiamo fatto cenno in precedenza e che non è il caso di approfondire ulteriormente. Quello che conta, nell’ambito di questa nostra breve riflessione è che il nostro paese non vivrà mai una stagione di riforme fondanti e sostanzialmente condivise, ma piuttosto una serie di cambiamenti scadenzati nell’arco di circa trent’anni (di cui il più significativo, l’istituzione del servizio sanitario nazionale, sarà realizzato verso la fine degli anni settanta, alla vigilia del riflusso…). Cambiamenti promossi nell’incontro- scontro tra Dc e Pci secondo ritmi e modalità legati al clima del momento e all’evoluzione dei rapporti di forza tra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa Dc; e in una logica di tipo redistributivo.
L’edificio così costruito sarebbe stato ambizioso ma disarmonico e internamente fragile. E, per altro verso, così mutevole nei suoi contorni da non suscitare adesioni e fedeltà durature in coloro cui era destinato. Il National Health Service è diventato un elemento cardine nell’immaginario collettivo inglese così da far parte della “presentazione”del paese nella cerimonia introduttiva delle Olimpiadi del 2012. La sanità pubblica italiana, pur essendo tra le migliori del mondo, è oggetto di attacco quotidiano sui media e nei vari bar Sport del nostro paese.
Per dirla in sintesi, all’origine degli squilibri c’era un clima politico in base al quale il ruolo dello “stato redistributore” faceva costantemente premio su quelle del parallelo rafforzamento delle sue strutture e delle sue capacità di comando e di indirizzo dell’economia. Mentre invece, il rafforzamento del secondo era la condizione indispensabile per il successo del primo.
E’ questo, in sostanza, il segnale della diversità socialista nel periodo che va dalla vittoria (non numerica ma certamente politica) degli autonomisti al congresso di Venezia alla fine degli anni settanta. Segnato, a livello di elaborazione, dalle riflessioni di Riccardo Lombardi e degli intellettuali e politici che a lui facevano riferimento; ma anche, a livello di realizzazione concreta, dalle iniziative dei Codignola, dei Mancini, dei Mariotti e dal contributo della generazione arrivata alla politica nella seconda metà degli anni cinquanta sotto il segno della grande speranza riformista.
Ciò non vale, però, a introdurre il tema della centralità dello stato nella coscienza collettiva della sinistra. Nel momento decisivo mancheranno a Lombardi l’appoggio del Pci e dei sindacati. E a mobilitare le masse sul tema della riforma del regime dei suoli sarà la destra e con effetti devastanti. Mentre lo stesso leader siciliano, negli anni successivi, mollerà la presa per seguire l’onda, affascinante quanto inconsistente, dell’alternativa.
Restava pur sempre, seppur costruito a pezzi e bocconi e senza una adeguata capacità di direzione complessiva uno spazio consistente riservato allo stato e, più in generale, al settore pubblico. E sotto una repubblica dei partiti, in cui l’impulso riformatore era venuto in una prima fase dalle componenti di sinistra della Dc e poi dai socialisti.
Sarà, per converso, la repubblica della cosiddetta “società civile” a distruggere, pezzo dopo pezzo, il ruolo dello stato e del pubblico; e, paradossalmente (ma non troppo) con il concorso determinante degli ex Pci ora alfieri entusiasti dell’ordoliberismo.
Tutto si fa, naturalmente, all’insegna della lotta alla spesa pubblica improduttiva e all’assistenzialismo. Ma, guarda caso, i relativi oneri non diminuiscono; anzi tendono ad aumentare. E non a caso. Perché, da una parte, la distribuzione delle risorse non vincolate ad una specifica destinazione è l’essenza del potere politico-clientelare. E perché, dall’altra, l’obbligo di assistere è ciò che rimane ad uno stato cui è stato cui sono stati sottratte quasi tutte le facoltà attive.
Le scelte fondamentali in questa direzione sono state tutte compiute nell’ultimo decennio del secolo scorso. Liquidazione della politica meridionalista. Liquidazione dell’Iri, frutto di una specie di trattativa privata, tra Andreatta e il commissario europeo Van Miert (“socialista”, naturalmente; ma che vedeva l’Iri e le partecipazioni statali in generale come frutto della naturale tendenza mediterranea all’equivoco e all’inganno). Affidamento ai privati, sotto la veste di “capitani coraggiosi”,del compito di determinare, liberi da lacci e lacciuoli, i futuri sviluppi dell’economia italiana. Nuovi e incestuosi collegamenti tra amministratori pubblici e politici che ponevano i primi a servizio dei secondi. Cessione massiccia di sovranità con gli accordi di Maastricht e poi con la creazione dell’euro. Insomma, di tutto di più: e con la totale responsabilità di “tecnici” e politici della nuova sinistra di governo; alcuni dei quali -come Prodi- riemergono periodicamente per farci la predica.
Per inciso, la fine dello stato promotore dello sviluppo e della redistribuzione del reddito, porta con sé anche l’estinzione, a livello centrale e locale, dello stato progettista a livello centrale e, soprattutto, locale. D’ora in poi, a progettare e a proporre saranno solo in privati, in una situazione in cui chi rappresenta la collettività avrà sempre più difficoltà a separare il grano dal loglio, anche per il venir meno degli strumenti a sua disposizione.
Entriamo così nella seconda fase del nostro processo di distruzione. Quella del mai smentito messaggio berlusconiano: “fate quello che vi pare e tutto andrà per il meglio”. O, detto in modo meno volgare “meno tasse, meno controlli, meno spesa pubblica e tutto andrà per il meglio”. Qui non si impedisce soltanto allo stato di sostituirsi ai privati; non gli si consente di fare il suo normale mestiere. E tutto questo, attenzione, mentre (forse nell’intento inconscio di riempire questo vuoto) legislatori e magistrati intervengono a getto continuo per prescrivere, indicare, vietare, controllare, correggere. Con risultati specifici pari a quelli delle grida manzoniane e delle fatiche di Sisifo. Ma con l’effetto complessivo del caos, della paralisi e, definitiva del più totale discredito.
Lo stato con la maiuscola, quello ereditato (ebbene sì !) dal fascismo si difendeva da solo: se non altro per la dedizione della sua struttura tecnico-amministrativa e in ogni caso per la forza del principio di autorità. Lo stato di oggi è,invece, è arrivato alla terza e ultima fase del suo processo di distruzione: quella del discredito e dell’irrisione alimentati, giorno dopo giorno, dai media per cui vale la massima del “pubblico cattivo/privato buono”. Mentre, in attesa di questo suicidio assistito, si affollano alle porte molti improbabili eredi: dai cantori garruli del “più Europa” ai privati desiderosi di acquisirne pezzi a prezzi di saldo: dai cultori del fai da te anche in termini di difesa personale e ordine pubblico sino agli utopisti della democrazia diretta.
Ci sarà allora un Settimo cavalleggeri che accorra a salvarlo? Basterà, forse, invocarne il soccorso perché questo si materializzi. Quello che è certo è che il socialismo riformista, quello vero, quello teorizzato da Riccardo Lombardi e praticato da tanti e tanti compagni ha tutti i titoli per invocarlo e per partecipare, con le proprie insegne, alla spedizione.
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