I PRONIPOTI DI TURATI E DON STURZO UNITI (E DIVISI) SOTTO LO STESSO TETTO di Paolo Franchi dal Corriere della Sera del 18 luglio 2012
05 settembre 2012
In una bellissima intervista al Popolo, sul finire del 1924, Filippo Turati argomenta come e perché l'intesa tra i socialisti riformisti e i popolari (oggi diremmo: il centro-sinistra) sia, sotto il profilo democratico, una scelta non solo opportuna, ma persino obbligata. Nell'immediato sbaglia; sul lungo periodo, probabilmente, molto meno. Ma è per un altro motivo che quel testo conserva ancora oggi una sua particolarissima attualità.
Alla domanda finale su come potrebbero mai fare socialisti e cattolici a trovare un accordo su temi come il divorzio o le scuole religiose, Turati prima risponde ridimensionando la portata del conflitto. Poi taglia corto: dovremo pur lasciare ai nostri nipoti qualcosa su cui litigare. In effetti, sui temi che oggi pudicamente definiamo «eticamente sensibili», i nipoti e i pronipoti di Turati (e di Sturzo) litigano da un pezzo: gli esempi più classici sono il divorzio e la legalizzazione dell’aborto. C’è molta gente, in giro, convinta che siano stati introdotti dai referendum. Non è così, ovviamente. È vero che quei referendum (soprattutto il primo) hanno cambiato la faccia politica e civile del Paese. Ma si trattava di referendum abrogativi (segnati in entrambi i casi da clamorose sconfitte di chi li aveva promossi) di leggi varate dal Parlamento, e approvate da maggioranze diverse da quelle che sostenevano il governo senza che ciò comportasse la crisi del governo medesimo, a guida, inutile dirlo, democristiana: per il banalissimo motivo che non facevano parte del suo programma. Forse sarebbe bene ricordarlo anche a chi sostiene che la prudenza, chiamiamola così, del Pd in materia di diritti sia soprattutto un prezzo da pagare per raggiungere l’accordo con Casini e l’Udc. Nella riunione di sabato scorso del parlamentino del Partito democratico, dove la presidenza ha rifiutato di mettere ai voti un documento di minoranza sui diritti civili e il riconoscimento delle coppie gay, è successo invece qualcosa di nuovo e di inquietante. Qualcosa di più preoccupante ancora, forse, di quell’«allergia al dissenso» che, come ha scritto giustamente Pierluigi Battista (Corriere, 16 luglio), affligge, seppure in forme diverse, un po’ tutti i (cosiddetti) partiti della (cosiddetta) Seconda Repubblica. Qualcosa che riguarda da vicino la natura stessa del Partito democratico. Sotto il cui tetto, ecco la novità, i succitati nipoti e pronipoti di Turati (e di Sturzo) non possono litigare. Attenzione alla questione cattolica (ma Antonio Gramsci preferiva parlare di «quistione vaticana») ce n’era anche, Dio sa quanta, nel vecchio Pci dell’articolo 7 e del compromesso storico e, seppure in misura assai minore, nel vecchio Psi, il cui ultimo leader, Bettino Craxi, detestò il gesuitismo ma firmò pure il nuovo Concordato. In nessuno dei due principali partiti della sinistra, però, i cattolici, che pure vi erano largamente presenti, rappresentavano una componente costitutiva e organizzata, implicitamente deputata a montare la guardia a principi e valori considerati non negoziabili. Nel Pd, fin dal suo atto di nascita, le cose stanno invece proprio così. E non è solo per via di una (ipotetica) prepotenza di Rosy Bindi che questo stato di fatto non può essere messo in discussione. Persino mettendo ai voti un documento integrativo sui principi, moderato nei toni e ragionevole nei contenuti, si rischia di innescare tensioni e scontri potenzialmente ingovernabili. Il confronto, nel caso lo scontro, e infine la conta sui valori fondamentali (e la concezione che un partito esprime della laicità e dei diritti sicuramente è tale) diventano un lusso stravagante che, soprattutto in tempi di magra, non è lecito concedersi. Perché, per dirla con Pier Luigi Bersani, «le nostre beghe» debbono passare in secondo piano.
Meglio non chiedersi, e non chiedere, come mai nessun partito socialista o socialdemocratico europeo versi nella stessa condizione: magari si verrebbe accusati di tardo zapaterismo. Ma chiedersi, e chiedere, quale futuro possano avere i nostri partiti, se il più grande tra loro sui valori e sui principi è quasi per definizione obbligato a muoversi sottotraccia, questa sì ci pare una domanda che meriterebbe risposte convincenti. Nell’interesse della democrazia italiana. E anche nell’interesse del Pd.