I DIRITTI DEL CLANDESTINO di Stefano Rodotà da Repubblica 11 Agosto 2004.
31 agosto 2004
Come si diventa oggi “cittadini del mondo”? Questa espressione era usata un tempo per designare gruppi ristretti di persone che s’erano liberate da grettezze nazionalistiche e angustie culturali e che, per ciò, disconoscevano le frontiere e si muovevano nel mondo come se davvero fosse uno solo. Poi è stata adoperata per dare una sorta di valore aggiunto al turismo di massa, coprendone anche le ambiguità, offrendo all’americano la certezza di avere ovunque lo stesso tipo di stanza d’albergo o all’italiano la promessa di trovare ovunque il suo cibo abituale, e rafforzando così proprio gli stereotipi e le chiusure identitarie che l’andare in giro per il mondo dovrebbe cancellare. Probabilmente i veri protagonisti di questa nuova e informale cittadinanza planetaria sono soprattutto i giovani che vanno a studiare in un paese diverso dal proprio, che viaggiano con gli occhi aperti o attraversano le frontiere alla ricerca dei luoghi dove realizzare quello che percepiscono come un loro diritto (venendo anche in Italia, come hanno fatto quei ragazzi francesi che, nei prati al di qua delle Alpi, hanno organizzato uno di quei rave party proibiti in casa loro). Nel Mondo, intanto, si muovono masse immense di “senza diritti”, che fuggono dai paesi dove i diritti elementari (la vita, il cibo, il lavoro, sono loro negati e vanno speranzosi verso paesi dove vorrebbero ritrovarli. Sono i nuovi “dannati della terra”. Lo so, troppi respingono ormai con fastidio questa espressione. La trovano terribilmente datata (sono le parole con cui si apre il canto dell’Internazionale), insopportabilmente terzomondista (sono le parole di Franz Fanon per il titolo del suo libro di denuncia), soltanto retorica (ma gli abissi della condizione umana possono essere descritti senza parole forti?). E tuttavia è proprio il senso di una “dannazione” che ci restituiscono le immagini quotidiane dei disperati alla deriva su carrette del mare, le notizie sulle pulizie etniche e politiche, le descrizioni degli abusi dei nuovi mercanti di uomini. Può il mondo ricco, avanzato, civilizzato ignorare che la sua propria storia lo obbliga ad affrontare questa situazione partendo da una delle sue grandi invenzioni, l’universalismo dei diritti fondamentali? Arriviamo così a un punto chiave di una delle più impegnative discussioni di questi anni, irta di difficoltà teoriche e piena di conseguenze pratiche, nel corso della quale ci si è domandati se davvero sia lecito presentare taluni diritti come “universali” o se, invece, questi diritti non siano il frutto di una particolare stagione del pensiero occidentale che, poi, l’Occidente ha cercato e cerca di imporre a tutti con una sorta di imperialismo culturale. Realtà come quella delle immense e disperate ondate migratorie ci mostrano i limiti di questa discussione e ci dicono che non si può fare a meno di riferimenti “universali”, a partire da quello dell’eguaglianza e del riconoscimento a ciascuno di un nucleo duro di diritti che gli appartengono come persona e che, quindi, devono essergli riconosciuti indipendentemente dalla nascita in questo o in quello stato. Da qui è nata una nuova nozione di cittadinanza, che la svincola dall’appartenenza territoriale e si fonda sul rispetto integrale della persona. Se la discussione sulle “radici” dell’Unione europea non fosse stata immiserita dalla pretesa di impiantare qualche bandierina nel preambolo della Costituzione, sarebbe stato possibile e proficuo riflettere sul fatto che la carta dei diritti fondamentali si apre con le parole “la dignità umana è inviolabile”, dando così straordinaria evidenza ad un concetto, appunto quello di dignità, che è il frutto di tradizioni culturali diverse e che attribuisce un significato più forte alla stessa inviolabilità della persona, non più vista solo nella materialità del corpo, ma nell’insieme delle sue prerogative. Questo è l’ambiente culturale, istituzionale, politico in cui si colloca la sentenza recente della Corte costituzionale sui diritti degli immigrati, che davvero bisogna considerare per il suo forte significato di principio, come momento espressivo di una consapevolezza profonda della necessità di mantenere fermo per tutti il quadro dei diritti fondamentali. La corte aveva parlato chiaro fin dal 2001. Vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutti gli individui, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. La condizione di immigrato clandestino, dunque, non può mai trasformare una donna o un uomo in una “non persona” non può mortificare la sua umanità. Proprio questo ha detto la Corte costituzionale, ora che ha dichiarato illegittime alcune norme della legge sull’immigrazione, perché violavano il principio di eguaglianza, negavano il diritto di difesa, sottoponevano la libertà personale ad una limitazione “manifestatamene irragionevole”. Si ristabilisce la gerarchia tra i valori costituzionali, che non possono impunemente essere abbandonati invocando esigenze di sicurezza. Si va alle radici della civiltà giuridica, che nessuno Stato può negare senza mettere in discussione la sua stessa legittimità democratica. L’universalismo dei diritti si spoglia così d’ogni connotato sospetto per congiungersi alle qualità stesse della persona. Questo orientamento dei giudici costituzionali assume rilevanza ancora maggiore se viene considerato nella dimensione europea. Nel Preambolo della carta dei diritti fondamentali dell’Ue, infatti, si dice che “essa pone la persona al centro della sua azione”. E, per dare concretezza a questa impegnativa dichiarazione di principio, la carta riconosce i diritti ad “ogni individuo”, senza subordinarli, tranne casi eccezionali, alla qualità di cittadino d’uno degli Stati membri dell’Unione. La nostra corte costituzionale consolida questo principio nel sistema italiano e, così facendo, offre all’Europa una conferma della giustezza della scelta fatta. Un’Europa “regione dei diritti” e non “fortezza Europa” egoisticamente chiusa verso l’esterno, serve alla causa del vivere civile, al dialogo tra popoli e culture, assai più delle aggressive misure di polizia. Di questa difficile stagione, in cui il comune rispetto della legalità è divenuto un bene prezioso e raro, sono sempre più protagoniste le corti costituzionali. Così è per la Corte italiana, non solo per le decisioni sugli immigrati; per la corte di Israele, con la sua sentenza dell’illegittimità del modo in cui si va costruendo il muro per bloccare i palestinesi; per la Corte Suprema degli Stati Uniti, che afferma i diritti dei prigionieri di Guantanamo e respinge la censura su Internet. Sembra quasi che un filo invisibile unisca queste istituzioni, e ne faccia un sicuro presidio degli equilibri democratici. E chi guarda agli Stati Uniti per la cultura, e non per le cattive politiche , dovrebbe sapere che proprio lì è nato questo strumento, che ci ricorda ogni giorno come “il governo delle leggi” non debba essere sopraffatto dal “governo degli uomini”.
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