Heri dicebamus di Giovanni Scirocco per la nuova Critica Sociale del 28 settembre 2022

28 settembre 2022

Heri dicebamus di Giovanni Scirocco per la nuova Critica Sociale del 28 settembre 2022

Il 15 gennaio 1891 usciva il primo numero di “Critica sociale”. Filippo Turati vi pubblicava un articolo, I partiti politici e il socialismo, in cui si descrivevano le reazioni più comuni, anche tra le masse, rispetto al sorgere del movimento socialista, «tuttora essenzialmente una perfetta incognita, e nel quale ciascuno colloca, senza avvedersene, e quindi finisce per ritrovarvi, per il gioco di una autoproiezione singolarissima, o le proprie paure o le proprie speranze, in ogni caso le proprie ignoranze, idee torte, pregiudizi», senza sforzarsi di vedervi quello che esso in realtà è, «un punto di veduta storico e scientifico, una dottrina positiva suggerita dalla evoluzione incessante e fatale dei grandi fatti economici e morali che solcano la storia».

Nel prosieguo dell’articolo, si dedicava poi a una specie di rassegna antropologica, ironica, ma anche amara, di quelli che definiva gli “pseudosocialisti”, elencandone i vari tipi: “i socialisti a lunga scadenza” (quelli che dicono: “Idee stupendissime, ma… fra dieci secoli”); “i socialisti sentimentali”, («che inneggiano al socialismo per l’amore o per la pace universale, o per la filantropia, o per quella qualunque altra cosa che non è il socialismo»); “i socialisti profondi e riservati” («che meditano la questione sociale per tutta la vita senza mai pronunciarsi»); “i socialisti allegri” («quelli che dopo una cena succulenta vi battono sull’omero, vi stringono la mano e vi sussurrano all’orecchio: “Eh, sono socialista anch’io!”. “Socialista più di voi”, soggiungono talvolta i più codini: ma guai se li tirate al concreto, vi sguisciano di mano e se hanno un opificio, per coerenza ai princìpi non ammettono i “loro” operai alla partecipazione negli utili- questa illusioncella borghese!»); “i socialisti ammazzasette e rivoluzionari”, «quasi sempre, a loro dispetto, ottimi figliuoli, amici non di rado dell’accidia e delle grandi parole»; “i socialisti baldi e rumorosi”, «che rimproverano ai compagni l’insanabile inerzia e l’apatia, non constando che loro, dal vociare in fuori, abbiano fatto mai qualcosa in più degli altri»; e infine “i socialisti timidi” e “i socialisti inconsci”, «i più fidi (…), la materia stessa, per quanto ancora grezza, del socialismo in azione; sono la rivoluzione che si fa, il socialismo che diventa».

Ecco, in questi ultimi trent’anni (a dir la verità, anche prima…), abbiamo assistito, nel variegato mondo del socialismo italiano, al comparire sulla scena, e all’altrettanto rapido scomparire, di vari personaggi del genere, impegnati soprattutto a guardare con rancore e senza un minimo, se non di autocritica, almeno di consapevolezza, a ciò che era accaduto, e più o meno incapaci, di fronte “ai grandi fatti economici e morali” che anche in questi decenni hanno segnato il mondo (a dispetto degli improvvidi teorici della “fine della storia”), di elaborare un’interpretazione di ciò che avveniva, una proposta, anche modesta, ma degna della storia dello stesso movimento socialista. Se ci pensiamo bene, gli ultimi programmi socialisti sono stati il Progetto socialista, presentato al congresso di Torino (1978) e, se vogliamo, la conferenza programmatica di Rimini (1982), quella dei “meriti e bisogni”. Progetti entrambi destinati a restare sulla carta, discutibili e, per molti aspetti, anche velleitari, ma che, vivaddio, avevano dietro di sé un’elaborazione teorica, una visione del mondo, un’interpretazione della società.

“Critica Sociale” rinasce, grazie anche a coloro che vi hanno aderito, proprio con questo scopo (o ambizione): chiudere definitivamente l’era del piangersi addosso e dei rancori, tentare di riavviare un dibattito costruttivo, cercare di suscitare nuove energie, sollecitare una o più proposte socialiste (nell’economia, nel lavoro, nella cultura…), trovando anche chi sia in grado di intestarsele e di portarle avanti, nella società e nelle istituzioni, sapendo che, come scriveva la Kuliscioff a Turati il 28 febbraio 1908, «il momento di certe battaglie non lo scegliamo noi, s’impone quando è anche prematuro, e bisogna prendere il proprio posto secondo la propria coscienza, senza calcolare tanto se è più o meno opportuno». E Carlo Rosselli avrebbe precisato, in Socialismo liberale: «Il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura».

Non siamo però agnostici (o “timidi”, avrebbe detto Turati) e quindi riteniamo che, alla domanda Chi siamo? Dove stiamo?, si debba rispondere con la maggiore chiarezza possibile. La storia del socialismo è stata, per certi versi, più la storia degli aggettivi che hanno tentato di definirlo (riformista, rivoluzionario, massimalista, reale, democratico, liberale, ecc.) che del sostantivo. Quella che appare come una debolezza del concetto, lo è anche della sua pratica (come testimoniato dai dibattiti degli anni ‘70 sulla mancanza di una concezione marxista dello Stato). Nel corso del ‘900, quasi tutte queste endiadi sono venute meno, alcune per fallimento (il “socialismo reale”), altre per una accettazione talmente universale da diventare scontata e quasi stucchevole, come quella dedicata al riformismo come pratica politica e di governo, tanto da non capire neppure più a cosa ci si riferisca con esattezza, come nella notte hegeliana (e spesso senza neppure il volo ispiratore della nottola di Minerva…).

Ancora diversa la vicenda della ricezione dei temi del socialismo liberale, vittima anche recentemente di una serie di equivoci che affondano nel tempo le proprie radici. Gaetano Arfè amava raccontare che nella notte successiva alla conclusione del congresso socialista di Venezia del 1957 (che vide, dopo il XX congresso e l’invasione sovietica dell’Ungheria, la vittoria della svolta autonomistica, in minoranza però negli organi dirigenti del partito), Nenni, amareggiato e stanco, si lasciò andare all’onda dei ricordi parlandogli a lungo di Rosselli ed esprimendo il rincrescimento, senza sottacere le proprie responsabilità, che i socialisti avessero lasciato cadere l’eredità rosselliana. Osservava inoltre, continuava Arfè, che tra le cause minori ma non trascurabili di questo fatto c’era anche quella che Rosselli, intitolando al socialismo liberale la sua opera più nota, aveva fatto una scelta poco felice, perché per molti socialisti che non avevano letto il libro, ma ne conoscevano il titolo, quella espressione stava a significare un socialismo ibrido, accomodante, annacquato, il “socialismo che si contenta”, come Salvemini definiva il socialismo di Ivanoe Bonomi.

In realtà, quello di Rosselli è tutt’altro che un socialismo accomodante o annacquato. È certamente un socialismo che non è calato dall’alto, ma che punta sull’individuo e sulla autoeducazione, fortemente volontaristico e non deterministico, ma sempre socialismo è, in cui la “libertà di” (fare, intraprendere, agire) è fondamentale, nella coscienza però di quanto sia utopistico «l’andar cianciando di morale, di autonomia spirituale, di doveri, di adesione e rispetto al metodo democratico, a chi versa nella miseria e riesce a malapena, con un lavoro logorante e abbruttente, a soddisfare i bisogni primari della vita»: la libertà dal bisogno è quindi premessa altrettanto fondamentale, una libertà che può essere conquistata anche attraverso esperimenti cooperativi e di autogestione, nell’ottica di un socialismo moderno, cosciente della crisi in cui versa la socialdemocrazia in Europa. Come lo stesso Rosselli chiariva a Claudio Treves sulla “Libertà” del 22 gennaio 1931, la tesi centrale di Socialismo liberale «consiste nella piena conciliazione tra socialismo e libertà e nella confutazione delle pseudoposizioni liberali borghesi: pseudo appunto perché esterne allo sforzo di emancipazione della classe lavoratrice».

Il problema che si poneva a Rosselli (e che si pone tuttora a chiunque abbia a cuore le sorti del socialismo) è dunque quello individuato da Norberto Bobbio nella sua prefazione all’edizione einaudiana di Socialismo liberale: come riaffermare le irrinunciabili esigenze dei principi fondamentali del liberalismo e della democrazia senza rinnegare il socialismo come fine? Bobbio così rispondeva, con la sua tradizionale chiarezza: «Il dibattito di questi anni ha confermato la sostanziale differenza tra l'interpretazione rosselliana del socialismo liberale e quella più corrente nel dibattito teorico-politico. Rosselli non si propone di trovare una conciliazione tra due opposte dottrine o due prassi politiche: per lui il socialismo, una volta liberato dall'involucro dottrinale, il marxismo, che sinora lo aveva irrigidito in un sistema filosofico imposto e accettato dogmaticamente, è la continuazione, il perfezionamento, l'ultima fase, del processo di emancipazione dell'uomo, di cui il primo momento è rappresentato dal pensiero liberale e dalla sua attuazione storica nel riconoscimento pubblico dei diritti della persona avvenuto attraverso le rivoluzioni americane e francesi: il liberalismo, per Rosselli, è quindi un metodo, il socialismo un fine».

Il 29 marzo 1932 moriva a Parigi Filippo Turati. Rosselli ne scrisse un Profilo che resta tuttora, a 80 anni di distanza, uno degli scritti più lucidi sul leader del riformismo italiano, da discepolo fedele che ne riconosceva i meriti storici e però ne coglieva anche le incertezze e i limiti dell’opera, prima tra tutti la sconfitta subìta dal  fascismo anche per l’incapacità di parlare alle nuove generazioni, con credibilità e parole vive. Il suo Profilo è quindi anche una lezione di metodo, nel mostrare come si possa fare i conti con una tradizione politica, senza però rinnegarla. Temo che sia quello che è mancato in questi 30 anni, a tutta la sinistra italiana, socialista e comunista. Come Rosselli scriveva in Socialismo liberale, nella parte dedicata a “I miei conti col marxismo”:

xii. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.

Proprio per questo, però, è necessario tornare alle origini, al Turati che, al congresso di Imola del 1902 (quello del “programma minimo”…) affermava che «il nostro non è riformismo, perché questa parola indica la ricerca filantropica della riforma per la riforma, non la riforma conquistata per via della lotta di classe, che non è fine a se stessa, ma tappa verso la costruzione della società socialista». E dieci anni dopo, l’8 maggio 1912, intervenendo alla Camera nel dibattito sul suffragio universale, metteva in guardia sul fatto che «il progresso democratico non si ottiene soltanto, né sempre, coll’estendere i diritti politici. Vi è anzi nella storia dei vari paesi una specie di naturale antagonismo fra i progressi politici e quelli economici. Le borghesie largheggiano facilmente col concedere libertà e diritto di voto, dove sanno di potere, per altre vie, mantenere integra la loro tirannide economica».

In conclusione, ci rivolgiamo quindi a tutti i socialisti, “consci” e “inconsci”, purché tengano sempre presente che la ragione prima dell’essere socialista è la lotta contro quella che Anna Kuliscioff, scrivendo a Turati il 6 novembre 1917, definiva «la più grande sperequazione fra ciò che va al  lavoro e ciò che impingua il capitalismo».

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