GEORGE ORWELL : UN SOCIALISTA CONTRO I TOTALITARISMI di Alberto Angeli del 1 maggio 2022
01 maggio 2022
George Orwell non
riusciva a nascondere la sua passione per la politica, “ una malattia”, la
definiva, con la quale sapeva convivere diversamente da quella vera, una
polmonite, che lo portò alla morte nel gennaio 1950. Non militava in nessun
partito e non si sentiva coinvolto in quella che oggi chiamiamo, con consumato
scherno, il politico politicante, mentre si sentiva attivamente coinvolto nella
spumeggiante attività civile quale punto di riferimento o luogo di incontro tra
responsabilità e convinzioni
personali con la congiuntura storica che
attraversa le nostra epoca. Si trattava
di un’affezione preesistente alla sua nuova identità, quella di Orwell, quando
per farsi conoscere e identificarsi si firmava Eric Arthur Blair. E’ circa
all’età dei 25 anni che avviene il
cambiamento o la svolta , che oggi definiremmo di ceto medio benestante, alla
sua condotta di vita, che sembrava
indirizzarlo a seguire la carriera del padre, funzionario dell’impero, dopo gli
studi a l’Università di Eton. La
decisione di cambiare matura durante la sua esperienza di lavoro svolto in
Birmania con la qualifica di supervisore giuridico e amministrativo, che assolve per alcuni anni fino a
quando l’avatar Orwell si libera di
Blair e della dipendenza / ubbidienza alla istituzione imperiale sotto la quale
svolgeva la sua funzione di rappresentate, per tornare in Inghilterra e
impegnarsi politicamente. E’ lui stesso a dare una spiegazione di questa
svolta, alla quale era stato spinto da un senso di colpa dovuto dal suo ruolo
di rappresentate dell’imperialismo, da cui voleva espiare impegnandosi contro:”
ogni forma del dominio dell'uomo sull'uomo. Volevo sommergermi, scendere in
mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i
loro tiranni».
Questa espressione
ci consegna un impegno che nel corso degli anni lo avrebbe indotto a compiere
scelte di vita radicali, completamente distanti, lontane dalla formazione culturale alla quale era stato preparato per poi mettersi al servizio dell’impero. Ed è proprio da queste scelte che prende
corpo la sua scrittura civile, maturata dalle esperienze direttamente vissute:
barbone e lavapiatti, esperimenti di vita che gli servono per raccontare la vita quotidiana dei
diseredati di Francia e Inghilterra ( vivendo per lunghi periodi e senza un soldo a Parigi e a Londra). Poi
altre sfide come testimone tra i lavoratori delle miniere inglesi in crisi ( La
strada di Wigan Pier); e, infine, combattente antifascista in omaggio alla
Catalogna e militante antistalinista, come ben descrive nel libro la Fattoria
degli animali, fino al ruolo di grande architetto antitotalitario di 1984.
Immaginiamo come un uomo di questa tempra, incline all’indignazione, causa una
improbabile tempesta spazio/temporale si ritrovasse nell’Italia di questo XXI
secolo, sicuramente si ritroverebbe in quella parte di popolo che si sente
tradita dal fallimento della sinistra, che da tempo si è allontanata dal mondo
del lavoro, degli esclusi, da quella parte di società identificabile con il
nuovo proletariato urbano. Sicuramente si schiererebbe contro un socialismo
elitario, rielaborato da una classe di intellettuali portatori di una idea di
un socialismo liberale in cui la filosofia del merito, il libero mercato, il consumismo mercificato e la
carità sono la caratteristica dominante. Orwell andrebbe oltre a questi dogmi
in cui ha prevalenza la proprietà privata, il libero scambio, per sostenere un
nuovo socialismo in cui sia presente un impegno a dare più potere ai lavoratori
nelle imprese, una più radicale e diffusa lotta alle disuguaglianze, una
giustizia distributiva della ricchezza intervenendo con più decisione sulla
formazione delle ricchezze e più severità sulle successioni dei patrimoni.
Ma non sono sicuro
che Orwell si troverebbe a suo agio in quest’Italia, specie oggi in cui il
mondo vive uno stato di allerta per la guerra scatenata dalla Russia contro
l’Ucraina, e ancora deve fare fronte a una epidemia virale. Una combinazione
disastrosa per l’economia mondiale, che determina conseguenze pesanti sugli
approvvigionamenti di materie prima, energetiche, alimentari e con riflessi
sulla stabilità sociale, economica a causa del diffondersi dell’inflazione.
Sicuramente proverebbe disprezzo per quella parte di intellettuali e politici
che impegnano le loro risorse culturali in una sistematica azione di
disorientamento dell’opinione pubblica riguardo all’invasine dell’Ucraina, al
sostegno della resistenza di quel popolo, alla strada da seguire per ottenere
una tregua e avviare un percorso di pace tra Ucraina e Russia. Orwell sarebbe
dalla parte dei più deboli, decisamente. Ma solleciterebbe l’Europa a prendere
una sua posizione, anche diversa da quella dell’America, per avviare una
trattativa che porti alla ricerca della pace. L’occidente non comincia o
finisce con gli USA e l’Europa deve avere sue idee e piani per riaprire un
dialogo con quella parte del mondo che dopo la guerra si sarà ridefinita in una
nuova dimensione geopolitica, con la quale l’Europa dovrà confrontarsi e
condividere la gestione del mondo. Per questo, Orwell investirebbe soprattutto
sulla Cina, coinvolgendola, poiché diffiderebbe della Russia di Putin. Contro
questi personaggi egli dette vita ad una libro interessante. La fattoria degli animali, in cui i maiali sono
naturalmente i capi stalinisti del comunismo sovietico. Ma prima ancora sono
"lavoratori della mente", come spiega magistralmente il maiale
Piffero: «Noi maiali lavoriamo con il cervello, tutta la conduzione e
l'organizzazione di questa fattoria dipendono da noi. Giorno e notte noi vegliamo
sul vostro benessere». Veri protagonisti della svolta autoritaria della
rivoluzione animalista, gli intellettuali di Orwell sono anche coloro che «si
sono opposti a Hitler solo al prezzo di accettare Stalin», come avrebbe scritto
nel 1943, perché «la maggior parte di loro è perfettamente pronta per metodi
dittatoriali, polizia segreta, falsificazione sistematica della storia,
eccetera. Purché sentano che è dalla "nostra" parte». Ma sono anche i
teorici dell’equidistanza, che esprimono fino alla poesia e che «amano comprare
le proprie stoviglie a Parigi e le proprie opinioni a Mosca», al pari degli «
opportunisti attirati in massa dall'odore del progresso come mosche da un gatto
morto».. E quindi a coloro che hanno indossato abiti sacerdotali per gridare al
"regime" – Conte, Salvini, Santoro, Cacciari e tanti altri - senza
mai riuscire con tutto il peso della propria indignazione a offrire una
proposta ragionevole e praticabile e soprattutto senza mettere in discussione
una sola misura del proprio privilegio. A costoro probabilmente Orwell
apparirebbe vestito da guerrigliero antifranchista, con i tratti vagamente
ridicoli con i quali apparve all'amico Philip Mairet prima di partire per la
Barcellona repubblicana: «Vado in Spagna. Perché questo fascismo qualcuno dovrà
pur fermarlo!». Ma non è l'Orwell con zaino e bandoliera che vogliamo ricordare, quanto piuttosto lo
scrittore civile che agli intellettuali indignati e impotenti del suo tempo ( e del nostro ) contrappone il naturale senso
della giustizia che riconosceva nella gente normale, che lo spingeva a
chiarire; «la mia principale speranza per il futuro è il fatto che la gente
comune non si è mai separata dal suo codice morale».