FUORI DAL TUNNEL, NEL DESERTO, di Pierre Carniti, da Mondoperaio n° 6 - prima parte
16 novembre 2009
Se si dà retta ai più ottimisti, tra i quali un posto di rilievo se lo sono accaparrati i governanti italiani, il peggio della crisi economica sarebbe ormai passato. Secondo costoro non saremmo ancora arrivati alla fine del tunnel, tuttavia già si incomincia ad intravedere la luce. A conferma viene invocato il fatto che il commercio mondiale incomincerebbe a manifestare qualche segnale di recupero. Che un buon numero di imprenditori e di consumatori si dichiarano meno pessimisti rispetto al futuro.
Che l’economia cinese manifesterebbe indizi di accelerazione. Da questi ed altri segnali una parte dell’establishment politico ed economico deduce che la ripresa si starebbe avvicinando e con essa il ritorno alla “normalità”. Potremmo essere tutti contenti se non ci fosse rimasto in testa l’ammonimento di Raymond Aron: “ciò che passa per ottimismo spesso è l’effetto di un errore intellettuale”. Ed è difficile sfuggire all’impressione che l’ottimismo di maniera, per giustificare atteggiamenti di sostanziale impotenza e di attesa che “passi la nottata”, costituisca una conferma.
In effetti, con tutta la buona volontà, appare arduo che si riesca a venire a capo dei guai con i quali siamo alle prese se chi ha la responsabilità di decidere si limita a curare la febbre invece che la malattia, o si riduce a mansioni di custodia ed attesa, ad aspettare che “torni il sereno”, in definitiva a coltivare la speranza di un possibile rapido ritorno alla “normalità”. Insomma ciò che sembra prevalere, soprattutto in Italia, è l’illusione che, malgrado tutto, non sia molto lontano il ripristino della situazione precrisi.
Quasi che la crisi esplosa nel 2008 possa essere considerata un semplice fatto congiunturale e quindi uno spiacevole incidente di percorso dell’economia mondiale. Quando tutto spinge invece a ritenere che si sia seriamente guastato, sia andato in panne, quello che per oltre un quarto di secolo era stato considerato come il suo “normale” funzionamento. Fino al punto di considerare “normale” il fatto che il sistema bancario e finanziario mettesse in circolazione 700 trilioni di dollari di “derivati” al di fuori delle borse. In modo da non “disturbare” le autorità di sorveglianza. Le quali, a loro volta, hanno trovato “normale” fingere di non vederli. Cosa non così sorprendente visto il diffuso convincimento, tra gli intellettuali ed i decisori politici, che la cosa migliore per governare l’economia consistesse, appunto, nel non fare assolutamente nulla, in ossequioso omaggio al principio (cardine dell’ideologia liberista) che i mercati si autoregolano, facendo affluire capitali dove sono meglio utilizzati per produrre occupazione e ricchezza.
E così sulla base di questo singolare armamentario teorico-politico già nel 1999 negli Stati Uniti era stato abolito, senza nessun rimpianto, il divieto introdotto da Roosevelt di fusione tra banche commerciali e banche d’investimento. Nel 2000 era stato fatto un ulteriore “passo in avanti” proibendo la supervisione sui derivati finanziari. Per chiudere il cerchio, nel 2004, la Sec (la Consob americana) ha permesso di elevare a dismisura i livelli di indebitamento delle banche, fino ad allora ancorato ad un rapporto tra debito e patrimonio non superiore a 12. Con queste nuove “libertà” molte banche hanno raggiunto un livello di debito 40-50 volte il loro patrimonio, rendendole perciò del tutto vulnerabili nel momento in cui l’insolvenza dei mutui si fosse materializzata. Cosa che si è puntualmente verificata all’inizio del 2008, quando la bolla immobiliare americana è esplosa.
Il fondamentalismo liberista Su questo furore deregolatorio ha certamente pesato la vigorosa azione di proselitismo condotta dai devoti del “fondamentalismo liberista”. Tuttavia per convincere i decisori politici c’è stato anche altro. I dati sui finanziamenti politici (in America resi noti a termine di legge) avvalorano il sospetto. Essi ci dicono infatti che nel decennio 1998-2008 le sole società di revisione Usa hanno speso 81 milioni di dollari in finanziamenti elettorali e 122 in attività di lobbying legislativa. A loro volta le banche d’investimento hanno speso 513milioni in sostegni elettorali e 600 milioni in attività di lobbying. Se quindi la fame scriteriata di profitti facili ha accecato banchieri e risparmiatori, semplici azionisti, squali della finanza, è evidente che la politica ha fatto del suo meglio per assecondarli. Appare quindi indiscutibile che alla base del disastro finanziario attuale ci siano anche pesantissime responsabilità pubbliche americane a cui si dovrà cercare di rimediare con nuove e più stringenti regole. E considerato che il virus incubato negli Usa ha finito per contagiare tutti sarebbe ragionevole decidere che le regole (i protocolli) per una efficace profilassi vengano stabilite ed imposte su scala internazionale.
Poiché nel dibattito cultural politico ha avuto una certa fortuna la formula “nulla sarà più come prima” ci si dovrebbe aspettare che le nuove regole siano pacificamente varate da una nuova leadership internazionale, quindi non solo dagli Stati Uniti, come è avvenuto fin’ora. Ma nemmeno soltanto dal G8. Perché se si vuole una regolazione veramente efficace a livello mondiale, dalle decisioni relative non si può certo escludere, ad esempio, la Cina, l’India, il Brasile. Non è possibile però farsi soverchie illusioni, per il semplice fatto che i banchieri americani restano assai contrari a nuove regole stabilite a livello internazionale, e la loro capacità di interdizione, malgrado il disastro di cui si sono resi largamente responsabili, resta elevata. Del resto se ne è avuta conferma al G20 (Londra maggio 2009) la cui conclusione non è andata al di là di una generica dichiarazione di buone intenzioni. Risultato: dopo il G20 ciascun paese ha continuato ad andare per la propria strada. Così Obama ha autonomamente deciso regole più stringenti per la finanza americana.
A sua volta, l’Europa ha preannunciato una analoga intenzione.
Il costo dell’interventismo
Nel frattempo i mezzi pubblici dispiegati per evitare il peggio sono stati colossali. Si è infatti trattato di un ordine di grandezza che ha superato ogni possibile immaginazione.
Sommando gli aiuti di Stato per il salvataggio degli istituti di credito e le operazioni di emergenza effettuate dalle banche centrali, a marzo 2009, si è arrivati ad un totale di 5500 miliardi di dollari. Somma che, oltre tutto, non include le manovre di spesa pubblica per il “rilancio della crescita”.
Cioè per il sostegno della domanda. E nemmeno quanto stanziato nel solo mese di maggio dal governo degli Stati Uniti per il salvataggio di G.M e Chrysler. Per avere una idea della consistenza delle somme in ballo teniamo presente che se queste cifre vengono aggiustate per tenere conto dell’inflazione, soltanto l’onere di salvataggi bancari risulta pari a sette volte il costo della guerra in Vietnam; 47 volte il Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale; 11 volte lo stanziamento annuo che basterebbe per dimezzare la quota di coloro che sopravvivono con un dollaro al giorno (1,4 miliardi, secondo le ultime stime della Banca mondiale) o non dispongono di servizi igienici (2,6 miliardi), o soffrono la fame (1 miliardo, ma in aumento), o il numero dei bambini che muoiono prima dei cinque anni a causa di un banale raffreddore, o un mal di pancia (10 milioni l’anno, oltre 25 mila al giorno).
Per di più queste enormi somme (rimanendo sempre alla metafora medica utilizzata all’inizio) hanno la funzione degli antipiretici. Sono cioè utili per abbassare la febbre, ma non curano la malattia. Senza contare che un sovra-dosaggio potrebbe non essere affatto privo di “effetti collaterali”. Per fare solo qualche esempio: chi pagherà questi debiti? Perché tutti i debiti prima o dopo qualcuno li deve pagare. Verranno pagati con una impennata dell’inflazione? Che è sempre la tassa più perversa sui poveri. Oppure verranno ripagati con tagli alle prestazioni sociali, che sono sempre una priorità dei governi di centro-destra? La svalutazione del dollaro da dolce diventerà più rapida? In questo caso quali potrebbero essere le conseguenze per il commercio e quindi sui futuri ritmi di crescita dell’economia mondiale? Sono tutti quesiti che, almeno per ora, rimangono senza una risposta.
Ma se questo è il quadro, cosa intendono allora quanti auspicano un rapido “ritorno alla normalità”? Si è già accennato al fatto che quello che è successo è anche il risultato dell’immenso potere politico del settore finanziario. Una piovra cresciuta a dismisura nei paesi occidentali. Che è riuscita (e, malgrado tutto, continua) ad esercitare un formidabile potere di veto contro chi sostiene che siano necessarie regole chiare e severe ed anche una maggiore trasparenza. Per avere una idea del suo enorme potere bastano poche cifre.
Come sempre in queste faccende, gli Stati Uniti sono il caso più emblematico. Ebbene, tra il 1973 ed il 1985, sul totale dei profitti delle imprese americane la finanza (banche più assicurazioni) ne incassava il 16 per cento. Negli anni novanta la sua quota è salita fino a raggiungere il 30 per cento.
Dal 2000 in poi la finanza è balzata al 41 per cento del totale dei profitti. Vale la pena di ricordare che mentre si è continuato a puntare il dito contro il costo del lavoro (decrescente) la massima parte di questi profitti sono stati prelevati sotto forma di interessi o commissioni (crescenti) dagli altri settori dell’economia. Cioè quelli che producono “beni” reali. Si capisce quindi perché in America il Moloch di Wall Street abbia finito per svettare su tutto il capitalismo.
Il prestigio dei suoi manager, nel giro di pochi anni è infatti salito alle stelle. I loro stipendi sono diventati stratosferici. Le lobby finanziarie sono state in grado di staccare gli assegni più ricchi per finanziare le campagne elettorali. I banchieri di investimento sono diventati ministri del Tesoro, per poi ridiventare banchieri di investimento.
Le regole dell’oligarchia
Questa oligarchia ha deciso le regole che dovevano essere applicate a se stessa. Il liberismo si è trasformato in una fede e la deregolazione è diventata una pratica parareligiosa. E’ evidente che se non si tagliano le unghie a questo enorme ed incontrollato potere sarà alquanto difficile riuscire a dare una effettiva soluzione alla crisi. Tanto più che la crisi finanziaria è rapidamente dilagata travolgendo anche l’economia reale e determinando un crollo della produzione e dell’occupazione.
Al problema del dissesto finanziario si somma inoltre quello delle abnormi disuguaglianze. Anche per questo aspetto il caso americano è da manuale.
Per anni, negli Usa, ci si era illusi di poter neutralizzare gli effetti della crescita esponenziale delle disuguaglianze gonfiando con gli anabolizzanti l’economia del debito. Fino al punto che alcuni immaginifici “consiglieri del principe” non avevano esitato a spiegare che la bolla finanziaria poteva essere utilizzata come un enorme cuscinetto capace di attutire l’impoverimento di intere fasce della popolazione. E così, invece di intervenire a favore dei lavoratori, che vedevano diminuire il loro reddito reale, con una tassazione più progressiva sui ricchi, o con il potenziamento del Welfare State (a cominciare dall’assistenza sanitaria per tutti) gli si è fatto credito. Il mutuo subprime è diventata la bandiera del “socialismo debitorio”. Grazie alla magia dell’intermediazione finanziaria si è stabilita la possibilità per tutti di acquistare case. E non solo case. La finanza facile ha infatti finito per incoraggiare gli americani a vivere al di sopra dei loro mezzi. Ad indebitarsi con le carte di credito per acquistare automobili, elettrodomestici, vacanze, ecc. Molti desideri hanno potuto essere soddisfatti grazie agli “anticipi” offerti dal sistema bancario. Appunto attraverso le carte di credito. Persino i più poveri hanno potuto vivere al di sopra delle loro possibilità. Su di loro naturalmente i creditori si premuravano di prelevare una percentuale di interesse maggiore. Per i clienti meno solidi i tassi di massimo scoperto sulle carte di credito arrivavano infatti fino al 30 per cento. Si è anche diffuso “l’anticipo sulla busta paga”. Un credito a breve termine dispensato ai lavoratori, a tassi di usura, da istituzioni finanziarie senza scrupoli.
Ci si è così illusi che il problema economico (tenere elevata la domanda) e la soluzione del problema sociale (mantenere accettabili condizioni di consumo) potessero essere risolti dai “trappolari” di Wall Street. I quali ovviamente sono stati ben felici di prendersi generose commissioni per assolvere questo ruolo di “interesse pubblico”. L’ovvio effetto di queste pratiche è stato un forte aumento dell’indebitamento delle famiglie, passato da una media di 40 mila dollari del 1980 a 130 mila del 2007. Non sorprende quindi che ogni giorno cresca il numero di coloro che non sono più in grado di fare fronte ai debiti contratti. Che si ritrovano senza casa, senza tetto, senza tutto. Che sono finiti a dormire in macchina e, quando non possedevano più nemmeno questa, perché gli era stata sequestrata, a ripararsi con una piccola tenda, o anche semplicemente con dei cartoni ai margini delle città.
La crescita della disuguaglianza
Non è quindi arbitrario ritenere che la continua crescita delle disuguaglianze abbia costituito un decisivo detonatore della crisi. A questo riguardo è bene tenere presente che esse non costituiscono un requisito esclusivo della società americana, perché, sebbene la dottrina che le ha incoraggiate abbia avuto i suoi profeti soprattutto negli Stati Uniti, essa ha rapidamente contagiato anche l’altra sponda dell’Atlantico. Fortunatamente in Europa, grazie ad un migliore sistema di Welfare, con conseguenze sociali meno drammatiche. In ogni caso già nel 2005, negli Stati Uniti l’1 per cento più ricco della popolazione si accaparrava il 21,2 del reddito totale, mentre il 50 per cento della popolazione si doveva accontentare del 12,8. I redditi da lavoro che nel 1992 rappresentavano il 68 per cento del Pil nel 2005 erano scesi al 62 per cento. Un andamento non molto dissimile si è verificato nell’Unione Europea. Tra il 1992 ed il 2005 la quota sul Pil dei redditi da lavoro è passata infatti dal 70 al 62 per cento. In Italia le cose sono andate addirittura peggio. Tant’è vero che, mentre all’inizio degli anni settanta i redditi da lavoro italiani rappresentavano il 70 per cento del Pil, nel 2002 erano scesi al 59 per cento, per ridursi a meno del 50 per cento nel 2007. Inoltre, l’aspetto da sottolineare è che la diminuzione delle quota di reddito complessivo destinata al lavoro è stata accompagnata da un parallelo aumento dell’occupazione. Così che, paradossalmente, quanto più aumentava il numero dei lavoratori occupati, tanto più diminuiva la quota di ricchezza totale da loro percepita.
Per alcuni “analisti economici” della scuola rispettabile e conformista questa deriva regressiva non dovrebbe sorprendere.
Essa corrisponderebbe infatti alla necessità di ridurre il costo del lavoro. Necessità imposta dalla globalizzazione.
Spiegazione però assai poco convincente alla luce dei dati.
Considerato che, ad esempio, dal 2004 al 2007 3-4 punti percentuale del Pil aggregato sono semplicemente passati dai salari ai profitti negli Stati Uniti, in Giappone, in Eurolandia, nel Regno Unito, in Canadà. Se ne deduce che nell’insieme dei paesi ricchi è stata operata una redistribuzione della ricchezza a danno dei salari ed favore dei profitti. Se si prendono in considerazione i bilanci delle imprese il fenomeno risulta ancora più evidente. Infatti nell’ultimo decennio (dal 1998 al 2007) nell’universo delle multinazionali manifatturiere il costo del lavoro aumenta assai meno del valore aggiunto: del 12,5 per cento contro il 30 per cento in Germania; del 18 per cento contro il 36 per cento in Europa; del 28 per cento contro il 46 per cento negli Usa (Fulvio Coltorti, 2009). In Italia lo scarto a favore dei profitti risulta il più elevato in assoluto. Tant’è vero che, nel periodo considerato, il costo del lavoro cresce del 21 per cento ed il valore aggiunto del 47 per cento. Se poi si aggiunge che nel 2007 in Italia l’imposta sul reddito personale ha gravato per oltre il 70 per cento sul lavoro dipendente, si arriva alla conclusione che negli ultimi dieci anni i lavoratori italiani hanno perso non dieci punti sull’intero reddito spendibile, ma praticamente venti. Il che conferma i risultati della indagine sui redditi delle famiglie (effettuata ogni due anni dalla Banca d’Italia) da cui risulta una sistematica redistribuzione a vantaggio dei dirigenti, dei professionisti, dei lavoratori autonomi ed a danno dei lavoratori dipendenti.
La normalità immaginaria
Stando così le cose è difficile prefigurare una effettiva fuoriuscita dalla crisi immaginando un ritorno alla “normalità” antecrisi.
Che di “normale” non aveva assolutamente nulla, sia con riferimento ad una finanza tanto creativa quanto truffaldina, sia per lo scriteriato dilagare delle disuguaglianze. Le cui conseguenze ora siamo chiamati a pagare duramente. E, poiché i profitti sono sempre privati mentre di solito le perdite vengono socializzate, a pagare rischiano di essere soprattutto gli incolpevoli.
Conseguenza, secondo alcuni, spiacevole quanto inevitabile, considerato che ci sono limiti all’aumento dell’indebitamento pubblico e che si può allegramente pensare di riuscire puramente e semplicemente a scaricarlo sulle spalle delle generazioni future. Cioè dei posteri. Anche se Woody Allen ha risolto il problema con la nota battuta: “Che c’è di male? Dopo tutto cosa hanno fatto i posteri per noi?”. Purtroppo però l’ironia non è sufficiente per risolvere le faccende economico-sociali. Comunque, quando le crisi esplodono, è soprattutto tra i contemporanei che esse fanno morti e feriti. E, come succede nelle guerre, le vittime non sono quasi mai i generali, ma i soldati semplici. Nel nostro caso a pagare le conseguenze di problemi che altri hanno creato sono i lavoratori che perdono il lavoro, sono i risparmiatori frodati, sono i contribuenti che subiscono il prelievo alla fonte.
Poiché questa, per quanto sgradevole, è la realtà delle cose, il primo passo da compiere è quello di fare in modo che coloro che hanno responsabilità politiche e sociali incomincino finalmente a prendere coscienza che la finanza può essere utile, ma non crea ricchezza. Perché la trasferisce semplicemente da una parte all’altra. Ed inoltre che l’abnorme aumento delle disuguaglianze determina sempre guai piuttosto seri. Vanno perciò adottate le misure necessarie per indurre una correzione profonda circa idee e comportamenti che nell’ultimo quarto di secolo hanno dominato il campo. Non soltanto per ragioni etiche e di coesione sociale, che pure non andrebbero sottovalutate, ma per ragioni economiche. Del resto, non è un caso che nei primi trent’anni del dopoguerra, quando gli sforzi sono stati concentrati sull’economia reale e si è contenuta la polarizzazione dei redditi, i ritmi di crescita dell’economia sono stati nettamente maggiori rispetto a quelli del trentennio successivo.
Purtroppo però, considerato quel che è avvenuto finora, i motivi di preoccupazione tendono a prevalere su quelli di ottimismo.
Il G20 non è infatti riuscito ad andare oltre generiche dichiarazioni ed inette minacce verbali rivolte ai paradisi fiscali o ai fondi speculativi, che per il momento non sembrano essersi fatti impressionare. Nel comunicato finale della conferenza di Londra è scritto: “Al centro del nostro piano globale per la ripresa sono i bisogni ed i posti di lavoro delle famiglie che faticano” ad affrontare la situazione. “Una crescita condivisa – aggiunge il comunicato - è raggiungibile solo in una economia mondiale aperta, basata sui principi del mercato, su una effettiva regolazione e su forti istituzioni globali”. Rispetto al precedente summit del G20, che si è tenuto a Washington, è sicuramente accentuata l’attenzione al sociale. Ma all’enunciato di principio non è seguita alcuna indicazione di una politica concreta. E non è seguita per la semplice ragione che sulle politiche da intraprendere non c’è accordo. Teniamo presente che per salvare le banche ed alcune grandi imprese, soprattutto in America ed in Gran Bretagna, si è aumentato il debito pubblico finanziandolo con la stampa di nuova moneta. Quando si uscirà dall’emergenza questo debito andrà ridotto. E allora si dovrà decidere come. Verrà svalutato con l’inflazione? Verranno aumentate le imposte mantenendo le aliquote attuali, o aumentando (come sarebbe necessario) la progressività? Verrà tagliato il welfare mentre la situazione dei redditi da lavoro si rivela insufficiente e l’aumento del debito privato (in particolare negli Stati Uniti) ha già manifestato la sua pericolosità? Insomma, chi pagherà il conto per il salvataggio del mercato?
La buona intenzione sociale
Per fare buon peso, non andrebbe dimenticato che, mentre il lavoro è bloccato nei paesi in cui viene prestato e dunque non può sfuggire all’Erario, il capitale può spostarsi alla ricerca di regimi fiscali più blandi. Perciò fino a quando non sarà formulato un programma efficace e convincente, ma anche socialmente condiviso, e non saranno predisposte misure di riforma per affrontare le cause strutturali della crisi, è difficile che si riesca a darle una effettiva soluzione. Insomma, per ora, “l’attenzione al sociale” rimane una semplice buona intenzione, del tutto indipendente dalle dinamiche effettive. Questo vale per la maggioranza dei paesi coinvolti. Ma vale particolarmente per l’Italia. Sorprende quindi che alcuni tra i massimi esponenti del governo insistano nel dire che l’Italia potrà uscire dalla situazione recessiva prima e meglio di altri paesi europei. Difficile capire su cosa si fondi simile convinzione.
Intanto perché l’Italia non ha assolutamente i mezzi per fare, da sola, una politica anticiclica. Ma anche perché le decisioni che è effettivamente in grado di prendere, ammesso che siano utili, sono tutt’altro che risolutive. La conferma viene, tra l’altro, dal decreto anticrisi adottato dal governo nel mese di giugno. In effetti le due misure principali in esso contenute più che rimedi appaiono placebo. La detassazione degli investimenti, se va bene, potrà indurre un certo numero di aziende a dare corso ad investimenti già programmati, ma congelati o rallentati a causa della crisi. Mentre il previsto bonus per le aziende che rinunciano ai licenziamenti ed alla Cassa Integrazione fa sorgere soprattutto dubbi. Perché una cosa è se viene riconosciuto per procedure di licenziamento o di ricorso alla Cassa Integrazione avviate prima del varo del decreto. Altro è se dovesse riguardare anche procedure attivate successivamente. In questo caso infatti sarebbe fin troppo facile prevedere che una misura immaginata per stabilizzare l’occupazione in non pochi casi si trasformerà invece in un incentivo a perpetrare truffe. Che non è certo la cosa di cui l’Italia ha più urgente bisogno.
In ogni caso, muovendosi nell’ottica comparativa (che induce in particolare il premier ed il ministro dell’Economia a ritenere che “l’Italia uscirà dalla crisi prima e meglio di altri paesi”) occorre rilevare che se, ad esempio, la Germania è più esposta dell’Italia ai rischi della crisi finanziaria globale (ma avendo anche maggiori possibilità di farvi fronte considerato che il suo debito pubblico è assai minore), rispetto ai principali paesi europei l’Italia si porta dietro una lunga serie ed irrisolte complicazioni. Si trova quindi in una situazione di maggiore, strutturale, fragilità.
E questo per almeno tre ordini di ragioni. Primo, perché è l’unico tra i grandi paesi europei che non ha un sistema di protezione sociale universalistico ed automatico, ma continua a rattoppare un sistema frammentato, parcellizzato, “balcanizzato” e, dunque, sostanzialmente discrezionale. Secondo, perché da noi la lotta alla povertà si fonda su misure occasionali, frammentate, estemporanee e quindi scarsamente efficaci. Terzo, perché, di fatto, il peso del prelievo fiscale sui redditi viene sostenuto soprattutto da chi sta in basso nella scala sociale ed è invece molto più confortevole per chi sta in alto.
Il caso italiano
Insomma, non solo l’Italia si trova alle prese con le stesse difficoltà che hanno tutti gli altri paesi, ma deve anche pagare il conto di irrisolte questioni specifiche che ora rischiano di andare in cancrena. Questioni che se non affrontate rigorosamente e tempestivamente, finiranno per compromettere seriamente le sue possibilità di crescita presenti e future. Da ultimo, ma non per ultimo, si deve tenere conto della particolare caratteristica del capitalismo italiano, che costituisce una preoccupante anomalia nel panorama internazionale. Quanto meno quello dei paesi sviluppati.
Infatti quello italiano è soprattutto un “capitalismo famigliare”, ma se si volesse essere ancora più precisi dovrebbe essere definito “capitalismo feudale”. Molto diverso quindi da quello anglosassone, sia per cultura che per prassi. Al punto che da noi alcune dinastie industriali (comprese le più note) hanno finito per distruggere valore, invece di accrescerlo. Non solo perché talvolta esse riservano ai propri rampolli incarichi dirigenziali e benefici economici non spiegabili con il loro curriculum e con le loro effettive capacità. Ma in particolare perché generalmente prediligono il mantenimento del controllo famigliare rispetto alle possibilità di crescita dell’azienda. Mantenimento che, in assenza di capitali adeguati, quasi sempre viene perseguito con gli strumenti del “Salotto Buono” (di cui a suo tempo Cuccia è stato il Gran Sacerdote), come ad esempio: le scatole cinesi; gli incroci azionari; i patti di sindacato; l’uso improprio delle azioni di risparmio, al posto di quelle con diritto di voto. La peculiarità del nostro capitalismo è un problema alquanto serio. Di cui purtroppo in Italia si parla poco. O non si parla affatto.
Ma proprio per l’insieme dei problemi strutturali che continuiamo a trascinarci stancamente dietro non è per caso che nell’ultimo decennio l’Italia abbia sempre avuto un ritmo di crescita nettamente inferiore alla media europea e di conseguenza anche uno dei più bassi tassi di attività. Ovviamente nulla esclude che, soprattutto se la congiuntura internazionale incominciasse a dare qualche segno di miglioramento, anche da noi si riesca a frenare la fase recessiva più acuta. In fin dei conti che si riesca ad abbassare la febbre. Non fosse altro perché, come sosteneva la vecchia saggezza contadina, “dopo il brutto viene sempre il bello”. Tant’è vero che persino dopo il “diluvio universale” è tornato il sereno. Ma a quel punto il disastro era già avvenuto e non restava molto altro da fare che prendere atto dei danni.
La flexi-insecurityTra i ministri del governo in carica Renato Brunetta è uno dei più inclini alla prosa impressionistica e spericolata. In una intervista (Corriere della Sera, marzo 2009) dice tra l’altro: “Il mercato del lavoro italiano, al di là delle sue contraddizioni, è mirabile, funzionale, efficiente, flessibile, reattivo, intelligente, ed a modo suo equo”. E spiega:”Per come è andato costruendosi nel dopoguerra, con un insieme di pesi e contrappesi, sotto l’influenza di forze imprenditoriali e sindacali, istituzioni, territori, culture, è il più efficace d’Europa. Relazioni industriali ed ammortizzatori sociali compresi”. Concetti analoghi ha sviluppato più diffusamente su questa rivista (aprile 2009). E per scongiurare il rischio che il suo pensiero potesse essere frainteso in una lettera al Corriere della Sera (maggio 2009) ha aggiunto: “Chi mitizza la figura del precario, chi spara numeri senza verifiche, chi drammatizza in maniera strumentale il fenomeno, mi fa letteralmente schifo e mi fa venire l’orticaria”. E’ ovviamente spiacevole che un ministro, così attivo presenzialista, rischi di essere fermato da fastidiose reazioni allergiche di tipo urticante.
Ma pur con tutta la comprensione per il suo tormento sembra opportuno cercare di analizzare i termini veri della situazione e le reali conseguenze che essa potrebbe comportare.
In questa ottica può essere innanzitutto utile sbarazzare il campo da un problema, per così dire, di carattere definitorio. Non c’è alcun dubbio che il “lavoro atipico” sia in costante aumento.
Nel giro di pochi anni ha infatti superato i 3 milioni di unità.
Il che vuol dire che più di un occupato ogni otto svolge un lavoro non standard. Cioè non per otto ore al giorno, per cinque giorni la settimana, per 48 settimane all’anno, per tutta la vita lavorativa.
Dunque, la caratteristica principale del “lavoro atipico” è di non essere stabile, ma mutevole, instabile, provvisorio, temporaneo.
E sebbene alcuni preferiscano definirlo “flessibile”, il termine più appropriato è certamente “precario”. Perché è appunto incerto, transitorio, revocabile.
Intendiamoci. Il lavoro atipico è sempre esistito ed esisterà probabilmente sempre. Non solo perché può rispondere a specifiche necessità produttive delle imprese, ma anche perché c’è un significativo numero di persone che vorrebbe lavorare, ma per esigenze personali o familiari può farlo solo a particolari condizioni.
Va anche detto che tra gli anni cinquanta e la prima metà degli anni sessanta il peso del lavoro atipico sull’occupazione complessiva era largamente maggiore di quello attuale. Basti pensare che i braccianti venivano reclutati a “giornata”; il grosso dell’occupazione nell’edilizia era di tipo stagionale; nell’industria le donne erano assunte principalmente con contratti a termine; e così via. Tuttavia, anche se molti ne conservano la memoria, si tratta di un periodo lontano. Un’epoca nella quale i lavoratori venivano trattati, più che come persone con le loro aspirazioni, i loro progetti di vita ed i loro diritti, come una merce.
Per altro piuttosto abbondante sul mercato e quindi impiegabile a condizioni e ad un prezzo relativamente basso.
Fortunatamente, nei decenni successivi, anche grazie ad una sempre più estesa presa di coscienza da parte dei lavoratori, le cose sono significativamente cambiate. E’ cambiato il ruolo del lavoro, sono cambiate le condizioni di lavoro, è cambiata la cultura del lavoro, è cambiato il rapporto tra l’uomo ed il lavoro. In definitiva la società ha fatto importanti passi in avanti. Seppure a fatica, si è fatta perciò strada l’idea che lo sviluppo economico deve poggiare sulla coesione sociale. Questo spiega perché, anche se oggi il fenomeno ha una dimensione quantitativa inferiore a quella che aveva mezzo secolo fa, l’insicurezza che esso determina suscita una forte inquietudine e crescenti motivi di contestazione.
Il pacchetto Treu e la legge BiagiC’è un secondo aspetto che va tenuto presente. L’incremento del “lavoro precario” è stato favorito da alcuni significativi cambiamenti nella regolazione dei rapporti di lavoro introdotti soprattutto tra il 1997 ed il 2003. In particolare da tre provvedimenti: il cosiddetto “pacchetto Treu”, l’allentamento della disciplina sui contratti a tempo determinato, la cosiddetta “legge Biagi”.
Gli esperti e studiosi che hanno analizzato questi provvedimenti hanno giustamente definito la logica sottostante “al margine” (perché essi si applicano sostanzialmente ai nuovi occupati) e “riduttiva” (con riguardo al sistema delle garanzie, compresi gli “ammortizzatori sociali”). La conseguenza di questi provvedimenti è stato un costante aumento della segmentazione del mercato del lavoro. E ad ingrossare il bacino del “lavoro precario” hanno finito per contribuire in larga parte giovani, donne, immigrati. Che si ritrovano perciò in difficoltà crescenti a fare progetti di vita ed a programmare il proprio futuro. Intanto perché per la maggior parte di loro non è affatto chiaro se il “lavoro atipico” possa essere considerato “un porto d’entrata” verso un’occupazione stabile, o al contrario una “strada senza uscita”.
Oltre tutto, non solo i salari di ingresso, ma le medie retributive dei nuovi occupati tendono a diventare sistematicamente più basse. In effetti, nel 2008 la loro retribuzione media mensile netta risulta inferiore del 24 per cento rispetto a quella dei dipendenti “standard” (Rapporto annuale dell’Istat, 2008). Per fare buon peso bisogna anche aggiungere che i lavoratori atipici sono ovviamente assai più esposti al rischio di disoccupazione.
E proprio con il proposito di attenuare le maggiori incongruenze ed il crescente disagio sociale, con la legge finanziaria del 2000 è stato deciso un incremento dell’entità e della durata della indennità di disoccupazione, sia ordinaria che a requisiti ridotti. Sono stati inoltre adottati altri interventi come: i trattamenti speciali in agricoltura ed in edilizia; i fondi speciali per contratti di solidarietà (in particolare per credito, assicurazioni, ex monopoli, trasporto pubblico locale); alcune misure a favore di apprendisti e “co.co.co.”. Infine, a partire dal 2001 ed in maniera più sistematica dal 2005, sono stati progressivamente utilizzate misure in “deroga”, sia per la cassa integrazione straordinaria che per le liste di mobilità. In qualche caso aziendale (vedi Alitalia) per ragioni squisitamente politiche è stata persino decisa una deroga alla deroga. Nel senso che sono stati incrementati i trattamenti e prolungata la loro durata.
Resta tuttavia il fatto che, a differenza dei principali paesi europei che hanno attivato un sistema di protezione sociale di tipo universalistico (rivolto cioè a tutti i cittadini) il nostro impianto di “ammortizzatori sociali” è rimasto di tipo lavoristico-categoriale.
Per di più frammentato: per dimensione di impresa, per settore di attività, per contratto di lavoro, fino ad arrivare ad interventi discrezionali e derogatori decisi sulla base del rilievo politico attribuito alla situazione specifica. In sostanza la caratteristica peculiare del nostro sistema di ammortizzatori sociali è che si fonda su una estrema frammentazione, “ai limiti della balcanizzazione”.
Se questo non bastasse, la deriva particolaristica e derogatoria incrementa il tasso di discrezionalità nell’ammissione ai benefici, accresce ingiustificatamente le disuguaglianze di trattamento, amplia (anziché ridurre) le ingiustizie distributive.
Queste singolari caratteristiche possono produrre dispute sui dati tra diverse istituzioni pubbliche. Inimmaginabili altrove.
Significativa al riguardo quella che ha contrapposto il Premier al Governatore della Banca d’Italia. Nella sua relazione all’assemblea annuale Draghi aveva infatti espresso la propria preoccupazione perché 1 milione e 600 mila lavoratori atipici si troverebbero in una potenziale situazione di grave rischio. Anche perché nel caso, tutt’altro che improbabile, di perdita del lavoro non avrebbero diritto ad alcun sostegno. Come è noto la stima è stata bruscamente contestata da Berlusconi. Secondo il Premier infatti la valutazione fornita dal Governatore “non corrisponde alla nostra conoscenza della realtà italiana”. Francamente non è chiaro su cosa si fondi la “conoscenza” della realtà italiana del lavoro rivendicata dal Presidente del Consiglio, considerata non solo l’estrema suddivisione del mercato del lavoro e degli strumenti di protezione, ma soprattutto l’assenza di un casellario unico degli attivi e dei pensionati che possa consentire una comunicazione unificata ed in tempo reale degli eventi attinenti alle loro storie lavorative (l’Italia è l’unico tra i grandi paesi europei che non lo ha ancora realizzato). Siamo quindi disgraziatamente sprovvisti di uno strumento in grado di fornire una base certa e tempestiva di informazioni agli istituti di ricerca, ed in particolare a chi deve prendere le decisioni politiche, come invece sarebbe necessario.
Più precari degli altri
Non è comunque il caso di perdere tempo dietro a polemiche strumentali. L’aspetto che merita invece di essere ribadito è che, sebbene l’incremento del lavoro atipico non sia affatto una caratteristica esclusiva della struttura dell’occupazione italiana, i lavoratori italiani che si trovano in questa condizione sono nettamente più infelici dei loro omologhi europei. Sono infatti più “precari” dei loro equivalenti negli altri principali paesi europei.
Intendiamoci. E’ più che probabile che anche in Francia, Germania, Regno Unito, Danimarca, Svezia ed Olanda ci siano persone che desidererebbero un lavoro standard e si devono invece accontentare di un lavoro temporaneo, o a tempo parziale, perché in quel momento, o in quella determinata area, il mercato del lavoro non offre altro. Tuttavia, anche in questa spiacevole circostanza, hanno per lo meno il vantaggio di non dovere sottostare a retribuzioni orarie ed a meccanismi di protezione sociale in proporzione assurdamente peggiorativi rispetto al lavoro standard. Tant’è vero che l’Unione Europea, proprio con l’intento di impedire che le trasformazioni dei sistemi produttivi e del mercato del lavoro finissero per estendere situazioni di marginalizzazione e di discriminazione, ha da tempo proposto un indirizzo di politiche del lavoro, non a caso, denominato flexisecurity, dal momento che la flessibilità non può essere disgiunta dalla sicurezza sociale.
La flexisecurity è perciò entrata a far parte non solo del linguaggio europeo corrente, ma ha costituito un cardine delle politiche europee. Per intenderci quelle che vanno sotto l’etichetta della cosiddetta “strategia di Lisbona”. Strategia, persino inutile sottolinearlo, alla quale anche l’Italia ha dato il suo entusiastico consenso. C’è però un piccolo dettaglio: non vi ha mai fatto seguire i necessari cambiamenti delle politiche del lavoro e dei sistemi di protezione sociale. I lavoratori atipici italiani si sono perciò trovati a fare i conti con la flexi senza poter contare anche sulla security, sia con riferimento all’accesso alla protezione contro la disoccupazione che per la totale mancanza di una seconda rete di sicurezza in grado di scongiurare un indesiderabile peggioramento della loro situazione sociale. Sicché nel caso italiano invece di flexisecurity sarebbe più appropriato parlare di flexi-insecurity.
Numerosi studi e ricerche ne hanno dato ampiamente conto. Qui basterà quindi richiamare qualche cifra per capire meglio le differenze esistenti tra l’Italia e gli altri paesi europei. Prendiamo, ad esempio, la spesa per prestazioni sociali in percentuale sul prodotto interno lordo (dati del 2005). In Italia essa è del 26,4, di cui il 15,5 per pensioni. In Danimarca è del 30,1 complessivamente e l’11,0 per cento per pensioni. In Svezia rispettivamente del 32,0 e 12,5. In Olanda 28,2 e 11,1. In Germania del 29,4 e 12,4. In Francia 31,5 e 13,0. Nel Regno Unito del 26,8 e 11,8. Rispetto all’Europa a 15 l’Italia fa registrare una quota di spesa sociale rispetto al Pil comparativamente piuttosto bassa ed in larga parte assorbita dalla spesa pensionistica. A questo riguardo è bene ricordare che dal 1995 (e con un certo numero di successive modifiche, per altro non sempre ispirate ad un disegno coerente) è stata varata una importante riforma del sistema pensionistico. Rimangono però irrisolti alcuni essenziali problemi. Il primo è la problematica sostenibilità finanziaria di lungo periodo. La questione non è particolarmente urgente perché l’ultimo bilancio Inps risulta in attivo di ben 4,3 miliardi, malgrado il passivo di 5,5 miliardi della gestione Coltivatori diretti, di 4 miliardi degli artigiani, di 3,5 miliardi dei dirigenti di azienda (ex Inpdai), di 2 miliardi dei lavoratori elettrici, di 1 miliardo dei lavoratori dei trasporti, di 0,7 miliardi dei lavoratori telefonici. Il punto semmai è: chi ha ripianato questi debiti?
Nell’immediato il fondo lavoratori dipendenti con un attivo di 6,5miliardi ed i parasubordinati (precari, immigrati, ecc) con un attivo addirittura di 9 miliardi.
Il secondo è la disparità dell’età di pensionamento tra uomini e donne. Il terzo è la mancanza di una dimensione mutualistico assicurativa, aspetto finora del tutto ignorato, ma che meriterebbe una preoccupata attenzione visto che in futuro avremo una quota non irrilevante di “pensionati poveri”, mentre ora funziona una sorta di mutualismo al contrario. Basti pensare, ad esempio, che i contributi dei precari (i quali al raggiungimento dell’età di quiescenza si ritroveranno con una pensione assolutamente inadeguata) servono a finanziare il disavanzo prodotto dal pagamento delle pensioni (in media 50 mila euro annui ciascuna) ai 120 mila dirigenti d’azienda che l’Inps ha ereditato dal crack dell’Inpdai.
La spesa sociale
In ogni caso, al netto della spesa pensionistica, la spesa per prestazioni sociali in Italia non raggiunge il 10 per cento del Pil, mentre nella maggioranza degli altri paesi essa si colloca tra il 17 ed il 20 per cento del Pil. In particolare la spesa per l’insieme delle politiche del lavoro non supera l’1,3 per cento del Pil, mentre negli altri paesi la stessa percentuale va dal 2,3 al 4 per cento del Pil. Non sorprende quindi che l’azione redistributiva delle politiche pubbliche in Italia risulti desolatamente modesta.
Infatti, dopo che hanno operato tasse e trasferimenti sociali, la riduzione delle persone a rischio di povertà è di soli 4 punti percentuali (dal 24 al 20 per cento). Mentre in Danimarca arriva a 16 punti percentuali, in Svezia a 17 e negli altri paesi dell’Europa a 15 si attesta fra gli 11 ed i 13 punti.
Un indicatore ulteriore che le cose da noi non vanno come sarebbe auspicabile è l’indice Gini (che misura le disuguaglianze nella distribuzione del reddito). Esso conferma la scarsa efficacia redistributiva del nostro sistema di welfare ed in generale del nostro sistema sociale. Basti considerare che nel 2006 l’indice Gini per l’Italia è risultato pari a 32, come nel Regno Unito (dove per altro perdurano alcuni degli effetti della “cura Thatcher”), ma distanziato vistosamente dagli altri paesi europei (che si attestano tra 24 ed 27), come dall’insieme dell’Europa a 15, che non supera 29.
Si capisce bene che qualora questa dinamica non venisse seriamente corretta, ci troveremmo in un contesto sempre più estraneo alle possibilità di dare seguito alle politiche di “flexisecurity” (che pure, come ricordato, abbiamo spensieratamente dichiarato di voler condividere). Ma ci troveremmo anche a seguire una rotta progressivamente divergente da quella dei principali paesi europei per quanto riguarda sia i ritmi di crescita del tasso di attività che dell’economia (non a caso nell’ultimo decennio siamo cresciuti 11,5 punti percentuali in meno della media dell’Europa a 15). Per tasso di attività siamo lontanissimi dai paesi nordeuropei, ma anche dall’ Europa a 15, che raggiunge un tasso di attività del 66,9 per cento, mentre l’Italia arriva solo al 58,7 per cento. Ben otto punti percentuali in meno.
In questo quadro assai poco rassicurante si aggiunge ed acuisce l’inquietudine derivante dalla perdita di posti di lavoro e dal parallelo aumento della disoccupazione prodotti dalla crisi.
Oltre tutto vi sommiamo anche antichi difetti dai quali sembra che non riusciamo a liberarci. Per Ugo Trivellato l’elenco non è brevissimo. In esso spiccano in particolare: un sistema di protezione sociale quantitativamente inadeguato e qualitativamente eccentrico rispetto ai principali paesi europei; una pubblica amministrazione (ed in generale un insieme di servizi non-market) scarsamente efficienti; un basso livello di certezza del diritto e di spirito civico, essenziali per limitare comportamenti opportunistici. A questo riguardo Trivellato richiama una indagine sul Rule of law a scala mondiale (Banca Mondiale, 2006).
Ebbene, in una gamma che va da – 2,5 a 2,5, la Danimarca (che in materia di “flexisecurity” viene normalmente considerata l’esperienza paradigmatica) si colloca al 2,03, mentre l’Italia è in coda ai paesi europei con lo 0,37.
In definitiva la nostra situazione (estrema frammentazione del mercato del lavoro, sistema particolaristico di protezione sociale, con diffusa discrezionalità all’ammissione dei benefici), che al ministro Brunetta appare come una realizzazione mirabile sedimentata dal trascorrere del tempo, è in realtà un serio freno allo sviluppo economico e sociale dell’Italia. Naturalmente non si può stabilire una correlazione meccanica tra l’esistenza di sistemi di protezione sociale più generosi ed universalistici, e migliori risultati sul terreno economico. Tuttavia, alla luce delle performance conseguite dai diversi paesi europei, appare piuttosto arbitrario supporre od illudersi che si possano ottenere i medesimi esiti operando scelte opposte.
La riforma del Welfare
Si dovrebbe quindi mettere a tema una realistica riforma del nostro sistema di welfare i cui punti essenziali possono essere riassunti in questi termini: universalismo selettivo ed omogeneità dei trattamenti e delle prestazioni, sia in caso di disoccupazione che di sospensione temporanea dell’attività produttiva (dovuta tanto a ragioni di mercato che ad innovazioni di processo o di prodotto); distinzione nell’uso degli strumenti da utilizzare per i lavoratori sospesi e per i lavoratori disoccupati (perché nel primo caso si tratta principalmente di sostegno alle imprese, con larga parte dei costi che devono essere messi a loro carico, nel secondo il sostegno è invece diretto al singolo lavoratore e l’onere non può che essere interamente posto a carico del bilancio pubblico); rafforzamento delle politiche attive del lavoro e collegamento dei benefici riconosciuti ai disoccupati all’osservanza di alcuni obblighi (come la frequenza ad attività di formazione e riqualificazione); realizzazione di una “seconda rete di sicurezza” finalizzata alla riduzione dei rischi di insicurezza sociale e perciò destinata sia a chi perde il lavoro che a chi non riesce a trovarlo.
In questo programma, il primo obiettivo da conseguire è quello di superare le forti disparità di trattamento che caratterizzano il mercato del lavoro italiano. Differenze che dividono principalmente i lavoratori “tipici” (a tempo pieno ed indeterminato) dai lavoratori “atipici” (lavoratori in somministrazione, a tempo determinato, apprendisti, collaboratori coordinati e continuativi, lavoratori a progetto, ecc.). Sappiamo bene che ci sono anche differenze che riguardano il lavoro tipico. Basti pensare alle difformità di normative e di trattamenti esistenti tra i lavoratori delle piccole imprese e quelli delle grandi o della pubblica amministrazione. Tuttavia le disparità più vistose restano pur sempre quelle che separano i lavoratori tipici dai lavoratori atipici. A parte le disparità di tutele, una conseguenza ovvia di questo stato di cose è che ci sono contratti che costano alle imprese molto meno di altri, sia come costo unitario del lavoro che come costo di fine rapporto, cioè quel costo che l’azienda deve sostenere quando “vuole” o “deve” liberarsi di una lavoratore. La questione è di grande rilevanza perché introduce nei rapporti di lavoro un fattore di distorsione. Intanto perché viene meno una relazione oggettiva tra costo del lavoro e risultato economico produttivo per l’azienda. E soprattutto perché il lavoro atipico (in particolare quello a durata prefissata), anziché sopperire a specifiche esigenze di flessibilità delle imprese (come si è sempre sostenuto in tutti i discorsi “canonici” in materia) viene utilizzato come agevole scorciatoia per ridurre il costo del lavoro. In definitiva sul lavoro atipico viene sostanzialmente scaricato il costo dell’aggiustamento economico del sistema produttivo.
Per di più, in conseguenza delle disparità adottate per i trattamenti sociali, molti lavoratori atipici non possono, o non riescono, ad accedere alle prestazioni di disoccupazione. Stiamo parlando della “totalità dei collaboratori coordinati e continuativi e dei lavoratori a progetto, dell’80 per cento degli apprendisti, del 50 per cento dei lavoratori in somministrazione, del 40 per cento di quelli a tempo determinato” (Fabio Berton,Matteo Richiardi, Stefano Sacchi, Policy Paper, 2009). Secondo queste valutazioni siamo, più o meno, alla stima di 1 milione 600 mila persone a rischio fatta dalla Banca d’Italia. Stima che è, appunto, andata di traverso a Berlusconi, ma che tutte le ricerche tendono a confermare. A questi vanno poi aggiunti i lavoratori delle piccole e piccolissime imprese che, di fatto, sono esclusi dalla cassa integrazione straordinaria e dalla indennità di mobilità.
Per la verità negli ultimi mesi il governo ha adottato alcune decisioni che teoricamente potrebbero includerli. Ma considerate le procedure e gli ambiti di discrezionalità nella applicazione della normativa in deroga (che non comporta una fruizione automatica, in quanto i trattamenti previsti non costituiscono un diritto soggettivo dei lavoratori) per molti l’inclusione rimane largamente teorica. In buona sostanza, i correttivi adottati per far fronte all’emergenza occupazione sono state semplici misure di annuncio politico dimostrativo che non hanno perciò affatto modificato gli squilibri e le inadeguatezze strutturali del sistema.
Tre riforme possibili
Del resto lo stesso governo non ne ha fatto mistero, ribadendo in più occasioni che “questo non è tempo di riforme”. Probabilmente voleva dire che le riforme sociali non sono tra le sue priorità.
E’ invece del tutto evidente che, se si volesse davvero avviare una fase nuova effettivamente capace di sintonizzare “flessibilità” e “sicurezza” andrebbero tempestivamente adottate almeno tre importanti misure. La prima riguarda la necessità di unificare le aliquote contributive. Oggi i livelli contributivi previsti per le diverse forme contrattuali vanno dal 15,54 per cento della retribuzione base per gli apprendisti, al 25,72 per cento dei parasubordinati, ad oltre il 40 per cento per i dipendenti a tempo indeterminato e determinato (con piccole differenze a seconda dell’inquadramento). Le ragioni che militano a favore dell’introduzione di una aliquota unica per tutte le forme contrattuali sono del tutto intuitive. Per quanto riguarda le aliquote sociali, ed in particolare quelle contro il rischio di disoccupazione, l’unificazione non può che essere l’ovvia conseguenza dell’estensione a tutti i lavoratori (indipendentemente dal contratto) delle tutele relative. Altrettanto chiara la necessità di una aliquota unica ai fini pensionistici, per il semplice fatto che coloro che dovessero restare intrappolati a lungo in contratti atipici, al momento della quiescenza si ritroverebbero con una pensione pubblica al di sotto della soglia di povertà. E francamente non si vede in base a quale ragionevole motivo una parte significativa di italiani debba essere condannata a sommare all’insicurezza del presente anche la prospettiva di una vecchiaia indigente.
La seconda riguarda i trattamenti salariali. Sappiamo (ed i dati Istat lo confermano) che il trattamento retributivo dei lavoratori atipici è inferiore, all’incirca di un quarto, rispetto a quello corrisposto ai lavoratori tipici. Per scongiurare questo esito francamente inaccettabile, alcuni studiosi (Tito Boeri innanzi tutto,ma non solo) hanno formulato la proposta di introdurre un salario orario minimo legale. Salario che verrebbe fissato ogni anno dal legislatore e che sarebbe, eventualmente, derogabile in melius dai CCNL. E’ ovvio che trattandosi di un minimo legale esso riguarderà tutti i lavoratori, indipendentemente dalla forma contrattuale del loro rapporto di lavoro. Non c’è dubbio che l’intenzione posta alla base della proposta sia lodevole. Essa vorrebbe infatti evitare che il lavoro (in particolare quello atipico) venga sottopagato. Ma se l’intenzione è buona il suo possibile risultato appare invece più che discutibile. Se infatti viene stabilito un valore basso del salario minimo legale (come succede, ad esempio, negli Stati Uniti) la misura produce soltanto una riduzione delle retribuzioni medie. Se invece si dovesse assumere un valore abbastanza elevato (come in Francia) l’effetto che si ottiene è in pratica quello di seppellire la contrattazione. Ma poiché la contrattazione rimane un cardine della democrazia economica, sarebbe opportuno fare il necessario per la sua valorizzazione.
O anche soltanto per la sua rivitalizzazione.
La questione delle ricompense andrebbe quindi affrontata e risolta nei contratti di lavoro. I quali dovrebbero stabilire in maniera inequivoca che, indipendentemente dal tipo di rapporto di lavoro (a parità di mansioni) deve essere sempre corrisposta la medesima retribuzione oraria. Al conseguimento di questo risultato non mancano naturalmente le difficoltà. Qualcuna di carattere tecnico. Si pensi, ad esempio, alla difficoltà di definire la quantità di lavoro prestato nel caso delle collaborazioni, che formalmente sono lavoro autonomo, anche se sappiamo bene che in non pochi casi si tratta di una finzione. Veri o falsi che siano i contratti di collaborazione, il problema può però essere superato introducendo in essi l’obbligo di esplicitare il numero di ore o di giornate di lavoro richieste. La difficoltà maggiore è invece di carattere politico, ed ha a che fare con la perdurante situazione di debolezza negoziale dei lavoratori e delle loro organizzazioni, debolezza che la crisi tende inevitabilmente ad aggravare. Ma se esiste una speranza di riequilibrare i rapporti di forza tra domanda ed offerta di lavoro è evidente che la condizione preliminare presuppone una reale effettiva unificazione del mercato del lavoro ed ovviamente delle politiche rivendicative.
Infine, il terzo provvedimento riguarda la necessità di uniformare le normative (oggi assai differenziate tra tipici ed atipici) per la risoluzione del rapporto di lavoro. Allo stato attuale la situazione è, in sintesi, la seguente: quando una impresa decide di disfarsi di uno o più lavoratori che considera in eccesso lo può fare con assoluta facilità per tutti i contratti a durata prefissata.
Basta infatti che aspetti il termine del contratto e non deve nulla al lavoratore. Per le imprese con meno di 15 dipendenti è invece prevista una discreta facilità di liberarsi anche dei lavoratori assunti a tempo indeterminato. Al lavoratore non è infatti dovuto nulla (salvo il TFR), a meno che il licenziamento venga giudicato illegittimo dal tribunale (per mancanza di giusta causa, o giustificato motivo). In questo caso al lavoratore viene riconosciuta, a titolo di risarcimento, un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità, estensibile fino a 10 per i lavoratori in servizio da oltre 10 anni, ed a 14 per quelli in servizio da oltre 20 anni. Invece di corrispondere l’indennità naturalmente il datore di lavoro può riassumere il lavoratore, ma questo non avviene quasi mai. Infine le imprese con più di 15 dipendenti hanno qualche maggiore difficoltà a licenziare. Anche in queste però, oltre al TFR, nulla è dovuto al lavoratore, salvo che il tribunale stabilisca che il licenziamento è illegittimo. In questo caso al lavoratore è offerta la facoltà di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Generalmente però le imprese riescono ad aggirare questo ostacolo offrendo al dipendente che intendono licenziare una somma di solito compresa tra 6 e 24 mensilità in cambio della sua rinuncia a contestare in tribunale la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro.
Poiché queste differenze di normative e di trattamenti sono riconducibili solo ad una lotteria che assegna ad ogni lavoratore (indipendentemente dalla sua volontà) un tipo di contratto ed una occupazione in imprese di diverse dimensioni, per eliminare ogni arbitraria distinzione si dovrebbe introdurre una “indennità di conclusione del rapporto di lavoro”, valida per tutti contratti come per le aziende di qualunque dimensione, e da corrispondersi al termine del rapporto di lavoro. Questa indennità (non sostituiva, ma aggiuntiva al TFR) dovrebbe essere calcolata in base ad una percentuale (da definire nei contratti di lavoro) del monte retributivo percepito dal lavoratore durante tutto il periodo della sua permanenza in azienda. Essa dovrebbe essere corrisposta in tutti i casi, compresi i contratti a durata prefissata, in mancanza di rinnovi alla scadenza del contratto, o di trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato. Non va invece corrisposta nei casi di: dimissioni volontarie; pensionamento; licenziamento disciplinare (per giusta causa, o giustificato motivo) per il quale continuerebbe a valere la disciplina attuale.
Si capisce bene che lo scopo dell’indennità è di costituire un disincentivo all’uso immotivato da parte delle imprese dei contratti a termine ed in generale dei contratti atipici. Il fatto che il disincentivo aumenti al crescere del monte retributivo accumulato in azienda, in definitiva all’anzianità effettiva accumulata dal lavoratore, risponde in effetti alla finalità di penalizzare comportamenti aziendali opportunistici, come ad esempio il rinnovo intermittente di contratti di breve durata. Essa si propone dunque di consentire la “flessibilità” ma di scoraggiare la “precarietà”.
Ci può essere però un interrogativo che è opportuno prendere in considerazione. Qual è l’effetto dell’indennità sul costo del lavoro? Potrebbe nuocere alla competitività delle imprese?
Potrebbe rendere non conveniente la creazione di occupazione temporanea? Berton, Richiardi, Sacchi, (ai quali si deve una dettagliata formulazione della proposta) in proposito rassicurano.
Essi ritengono infatti che l’indennità non comporta necessariamente un aumento del costo del lavoro. Intanto perché quando il contratto viene rinnovato o non viene interrotto, oppure quando è il lavoratore ad andarsene, essa non è dovuta. E comunque, per come è congegnata, il suo effetto sul costo del lavoro dipende dalla natura permanente o transitoria del posto da ricoprire.
Se si tratta di un posto di lavoro “permanente”, a condizione che esso non venga coperto con lavoratori a rotazione, il costo del lavoro rimane invariato. Solo quando l’impresa decide di ricoprire lo stesso posto di lavoro con più lavoratori si ha un aumento del costo, tanto maggiore quanto più numerosi sono i lavoratori utilizzati. Ma gli autori spiegano chiaramente che questo è appunto il caso che si vuole disincentivare. Nel caso invece che l’esigenza dell’impresa sia effettivamente temporanea, alla sua scadenza essa dovrà sostenere il costo dell’indennità. Si tratta però di un onere assolutamente giustificabile e sopportabile, perché l’utilizzo di contratti di durata prefissata per fare fronte a picchi di produzione consente di migliorare la redditività e la profittabilità aziendale. Così come la possibilità di modulare periodi di prova di lunghezza desiderata accresce l’efficienza allocativa del personale sui posti di lavoro, con un parallelo aumento della produttività e quindi del risultato economico dell’impresa.
In definitiva l’obiettivo che si vuole conseguire con la proposta dell’indennità è soprattutto quello di scoraggiare un turnover immotivato sui posti di lavoro. Perciò, non di scoraggiare impieghi a durata necessariamente limitata, ma di ostacolare innanzi tutto un immotivato dilagare della precarietà.
La disoccupazione
Queste indicazioni presuppongono dunque una riforma del sistema di protezione sociale che consenta ai lavoratori atipici di accedere, nelle stesse forme e con le stesse modalità, alle prestazioni oggi previste per i lavoratori tipici nei casi di malattia, maternità, sostegno dei carichi familiari e disoccupazione. Stante la crisi e la perdita di posti di lavoro che non sembra affatto una prospettiva di breve periodo, l’aspetto più urgente riguarda le prestazioni in caso di disoccupazione. In proposito il modello da assumere non può ovviamente fare riferimento ai trattamenti accordati dai paesi nordeuropei che sono, almeno per ora, assolutamente fuori dalle nostre possibilità economiche. E’ invece senz’altro possibile cercare di ricalcare, con i necessari adattamenti che tengano conto della nostra peculiare situazione, quanto realizzato in materia da paesi come la Francia, la Spagna, l’Austria, e, seppure senza pensare di poter eguagliare i suoi valori assoluti, la Germania. In questa ottica andrebbe previsto un sistema di tutela del reddito contro la disoccupazione basato su due livelli. Accanto a possibili integrazioni salariali di carattere contrattuale e quindi di natura volontaria, il primo livello dovrebbe consistere in un sussidio di disoccupazione a carattere contributivo, il secondo invece in un sussidio non sottoposto a requisiti contributivi, ma subordinato alla prova dei mezzi.
Il primo livello, di tipo assicurativo, dovrebbe prevedere una prestazione riservata a tutti quei lavoratori (dipendenti, parasubordinati, autonomi) che nei 24 mesi precedenti la disoccupazione abbiano guadagnato un reddito imponibile ai fini della contribuzione contro la disoccupazione di almeno 1000 euro al mese. La misura della prestazione dovrebbe essere fissata al 70 per cento della media della retribuzione degli ultimi 24 mesi e dovrebbe essere corrisposta per un periodo (da determinare) tra 9 mesi ed 1 anno, periodo di tempo che, nella maggior parte dei casi, dovrebbe risultare sufficiente per trovare una nuova occupazione.
Se la durata del beneficio viene fissata in una anno la spesa per il 2008 può essere stimata in poco più di 8 miliardi di euro. Considerato che nel 2009 (e con ogni probabilità anche nel 2010) i disoccupati sono destinati ad aumentare si può valutare che la spesa annuale possa raggiungere circa i 10 miliardi annui.
Trattandosi di una spesa da finanziare attraverso contributi obbligatori si può calcolare che l’aliquota di equilibrio dovrebbe essere all’incirca pari all’1,62 delle retribuzioni, o dei redditi lordi dei lavoratori parasubordinati ed autonomi.
Con il secondo livello deve invece essere istituita una prestazione a carattere assistenziale. Finanziata perciò dalla fiscalità generale e soggetta alla prova dei mezzi (reddito e patrimonio).
In via di principio essa deve essere destinata a tutti i lavoratori (dipendenti, parasubordinati ed autonomi) che entrano in disoccupazione, ma non hanno i requisiti per accedere al primo livello, oppure hanno esaurito la prestazione di primo livello senza avere ancora trovato una nuova occupazione. Per questa misura la durata massima può essere fissata in 18 mesi; ridotti a 6 per quanti abbiano invece beneficiato delle tutele previste dal sistema contributivo. Il sostegno mensile potrebbe essere determinato intorno ai 700 euro al mese, cifra che naturalmente andrebbe aggiornata di anno in anno, tenendo conto dell’andamento dei prezzi dei beni di prima necessità. Prendendo come riferimento il 2008, la spesa per le finanze pubbliche può essere stimata in circa 5,3 miliardi di euro, poco più di un quarto di punto di Pil.
Non c’è quindi nessuna ragione economico finanziaria che possa seriamente impedire di realizzare una riforma del genere.
E’ quindi evidente che se il problema non venisse affrontato vorrebbe semplicemente dire che il governo ha, di fatto, silenziosamente deciso chi debba pagare i costi della crisi. Si può anche supporre che, ad esempio, (nel caso di ministri con le stesse idee di Brunetta) prevalga una motivazione conservatrice, vale a dire il convincimento che sussisterebbero eccellenti ragioni per preservare l’attuale modello sociale italiano. Tanto più che, trattandosi di un unicum europeo, come per tutte le specie rare od a rischio di estinzione, gli si dovrebbe assicurare le necessaria protezione. Per altri membri del governo e della maggioranza il motivo per non fare nulla potrebbe essere persino più banale. Non è infatti da escludere che alcuni politici ritengano che un sistema di tutele sociali frammentato, disc