FINITO BUSH, L'ITALIA TORNA AD ANDREOTTI di Andrea Romano - Il Riformista 4 settembre
15 ottobre 2008
Prima i ringraziamenti del Cremlino per “la ragionevolezza” mostrata dall’Italia nella crisi georgiana, poi la riconoscenza del Colonnello Gheddafi per l’impegno a non usare mai contro la Libia le basi Nato presenti sul nostro territorio. Nello stesso giorno la politica estera del nuovo governo Berlusconi incassa una generosa dose di gratitudine dalla parte sbagliata del mondo. Ma soprattutto, si presenta alla comunità internazionale nel solco di una delle più guaste e longeve tradizioni italiche. Quella di una politica estera insieme velleitaria e autolesionista, da piccola potenza insicura ma convinta di ricavare vantaggi marginali dal gioco di sponda tra i grandi. Un paese in equilibrio sul crinale stretto dell’inaffidabilità e costretto proprio per questo a ribadire di continuo il proprio senso di responsabilità verso agli alleati. Se ieri è apparsa velleitaria la rivendicazione di Berlusconi di aver svolto un ruolo decisivo nel contenere l’intervento russo in Georgia, oggi suona come un esercizio di puro autolesionismo la precisazione del ministro Frattini secondo cui l’accordo con la Libia “non rimette in discussione i trattati internazionali firmati negli ultimi vent’anni”. Ci mancherebbe altro! È possibile immaginare una precisazione del genere venire dai ministri degli esteri di Francia, Germania o Gran Bretagna? Francamente no. E non certo perché in quei paesi manchi un confronto anche molto serrato sulle grandi scelte internazionali. Solo che una volta che un indirizzo di politica estera viene discusso nel paese e definito in parlamento, con la conseguente assunzione di impegni e responsabilità, si procede lungo quella via senza camuffamenti. Tradizionalmente l’Italia ha mostrato più di una debolezza su questo fronte. Senza tornare ai capovolgimenti di alleanze che hanno segnato i momenti fondamentali della politica estera italiana del Novecento, l’ultima e più solida incarnazione di questo nostro atteggiamento si è avuta con l’andreottismo. Pilastro obbligato della Nato ma alla ricerca di un dialogo privilegiato con l’Urss, atlantista ma convinti di essere un ponte verso il mondo arabo, di qua ma anche un po’ di là. Oggi il nostro slang politico definirebbe la politica estera andreottiana come un trionfo del “ma anche”. Allora fu un modo per grattare qualche piccolo vantaggio nel grande e drammatico gioco della Guerra Fredda, al prezzo di un supplemento di vigilanza da parte degli alleati e di una periodica perdita di credibilità. La tradizione dell’andreottismo è stata recentemente rinverdita da Massimo D’Alema, che nel corso del suo mandato alla Farnesina si è fatto più volte vanto della capacità di dialogare con i nemici dei propri alleati. Salvo tradire, come nel caso di Hamas o Hezbollah, un pregiudizio antisraeliano tanto tenace da annullare qualsiasi vantaggio per la nostra politica estera su quello scenario. Oggi con Franco Frattini abbiamo un ministro degli esteri politicamente meno ingombrante ma saldamente rivolto alle stesse fonti di ispirazione. La sua ultima intervista al “Corriere della Sera” avrebbe potuto essere rilasciata dall’Andreotti migliore. Il riconoscimento russo dell’indipendenza di Abchazia e Ossezia del Sud? “Un’interessante questione di diritto internazionale”. Il tenore della rappresaglia militare russa e l’impegno di Mosca a ritirare le truppe dalla Georgia? “Va bene chiedere il rispetto delle regole, ma deve esser chiaro che (la Russia) è un partner strategico e non un paese ostile”. Se si capisce quale sincera gratitudine debbano aver suscitato al Cremlino le sue dichiarazioni, resta invece da chiarire quali vantaggi possa ricavare l’Italia da tanta gratuita cedevolezza. Da nemici giurati di ogni dietrologia non vogliamo pensare che l’unico a guadagnarci sia Silvio Berlusconi e la sua privata “special relationship” con Vladimir Putin. Immaginiamo invece che Frattini sia convinto di tutelare al meglio gli investimenti italiani in Russia, in particolare nel settore energetico. Ma se anche così fosse, si tratterebbe di una rappresentazione di cortissimo respiro dei nostri interessi nazionali. Che in cambio di una garanzia a breve raggio su qualche partita di approvvigionamento ricevono un bel pacco di crepe nella loro relazione con gli Stati Uniti. Niente di drammatico, per carità, ma è esattamente la stessa scommessa fatta a suo tempo dall’andreottismo. Che in tempi di guerra fredda e di immobilismo geopolitico riteneva che all’Italia non fosse concesso altro spazio che quello della furbizia, anche al prezzo di una perdita di credibilità. Può anche darsi che dopo Bush e i sussulti dell’11 settembre il mondo si avvii ad un’altra stagione di equilibrio immobile, quella nuova guerra fredda di cui molti sentono il bisogno dopo aver forse sofferto eccessi di furore. Ma oggi come allora l’Italia avrà la necessità, molto più di altri paesi, di mostrarsi affidabile e coerente. E in questo senso i primi passi della nuova Farnesina berlusconiana non promettono nulla di buono.
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