FIAT: UN BANCO DI PROVA ANCHE PER I RIFORMISTI
26 maggio 2005
La vicenda della crisi Fiat costituisce un banco di prova per l’industria, il management e la finanza del Paese, ma anche per la politica e, quindi, per la sinistra riformista: che cosa significa affrontare questa vicenda, dai tratti anche drammatici nella sua dimensione nazionale, con una prospettiva e, aggiungerei, un animo socialista e riformista? Che cosa possiamo dire al Paese di specifico, distintivo, adeguato ai tempi e alla sfida che si pone e che, nel contempo, risulti utile al Paese? Un declino tutto italiano La storia del declino Fiat è una storia tutta italiana, in cui si intrecciano vizi e disfunzioni private e pubbliche. Più che una storia di eccesso di diversificazione industriale che avrebbe distratto risorse dal settore auto, a me pare, innanzitutto, una crisi dettata da cattivo management: per troppi anni in Fiat ha prevalso una cultura aziendale auto-referenziale, chiusa alle evoluzioni e agli stimoli esterni, protettiva della propria classe dirigente. Quanto di più inadeguato per un’azienda che deve fare dell’innovazione, della velocità di reazione, dell’eccellenza e del coraggio, e quindi della meritocrazia, gli elementi per avere successo in un mercato, quello dell’auto, in cui è chiave la capacità di coprire con i prodotti giusti e le tecnologie di supporto un mercato di dimensione internazionale. Questa arretratezza manageriale e culturale è anche il risultato di un intreccio incestuoso e pervicacie, alla fine asfissiante, tra politica e grande industria, nel quale i due soggetti hanno collaborato per conservare una situazione insostenibile: una storia di reciproci ricatti, protezioni e debolezze. Fiat ha ricercato e ottenuto dallo Stato protezioni e favori di dimensioni quasi uniche: una serie pluri-decennale di trasferimenti di denari, incentivi, vantaggi fiscali e regolamentativi e protezioni politiche che la ponessero al riparo dalla concorrenza del mercato. In qualche modo, lo Stato ha operato come “prestatore di ultima istanza” contribuendo anche a sottrarre Fiat dal confronto con i mercati finanziari sulla sostenibilità economica dell’azienda. Non è casuale che più parti evochino Fiat come un’istituzione del Paese. Ma un’istituzione non è governata dalle regole del mercato; la sua prosperità è legata al potere e alla capacità negoziale che esprime rispetto alle altre istituzioni. E in questo Fiat è stata certamente un campione nazionale. Ora, questo equilibrio non è più sostenibile: non lo consentono la nostra partecipazione all’Unione Europea; non lo consente la dimensione degli investimenti finanziari necessari per competere con successo nel mercato mondializzato dell’auto; non lo consentono le nostre finanze pubbliche e neanche quelle delle nostre banche; e, infine, non vi è più il blocco sociale e politico che ha reso tutto ciò possibile. Per questa ragione Fiat deve tornare ad essere, comportarsi e confrontarsi con le difficoltà, le sfide e le opportunità dei mercati internazionali come azienda e non come istituzione. E come tale è bene che sia considerata e trattata dai suoi interlocutori, a cominciare da quelli della politica: governo, partiti e sindacati. La debolezza della sfera pubblica e politica Il convitato di pietra di questa vicenda è infatti proprio la sfera pubblica e istituzionale: lo Stato, il Governo, i partiti – di maggioranza come di opposizione -, i sindacati. Un blocco politico-sociale che ha sostenuto nei fatti un rapporto di scambio e di ricatto con e da parte della grande industria: il sostegno finanziario e la protezione politica in cambio del riconoscimento del proprio ruolo (come partiti e come sindacati) e della tutela degli equilibri sociali esistenti. Il blocco centrista– per tanti anni incardinato sulla DC – ne ha derivato una propria centralità nel governo dell’economia del Paese e nell’operare come stanza di compensazione tra i conflitti sociali ed economici. La sinistra, sindacale e politica, valutava favorevolmente tale intreccio, come occasione per avere un riconoscimento politico delle istanze sociali rappresentate e per affermare la necessità di un governo pubblico dell’economia, sia pure mitigato nelle forme. Per certi aspetti, la vicenda Fiat può essere letta come una forma sui generis di partecipazione statale, in cui fosse garantita la privatizzazione dei profitti e la nazionalizzazione dei costi. In questa chiave, una vicenda che rientra nel paradigma socialdemocratico della seconda metà del secolo scorso, fatta di sapiente dosaggio tra industria pubblica, mercato, controllo pubblico dei flussi finanziari, tutela delle masse lavoratrici della grande industria, riconoscimento del ruolo – anche mitigatore e responsabile – delle grandi organizzazioni sindacali. Il fatto che questo equilibrio sia oggi difficilmente sostenibile e replicabile non ne decreta l’impossibilità e, per certi versi, l’appetibile agli occhi di molti. La domanda è se tale equilibrio sia anche auspicabile. Credo che non lo sia. Innanzitutto per un fatto di equità sociale: la gestione del declino di Fiat Auto è costata ai contribuenti italiani decine di migliaia di miliardi tra sussidi, incentivi, defiscalizzazioni e finanziamenti a vario titolo: cifre che, sommate, superano di gran lunga il valore di mercato di Fiat Auto e di una qualsiasi manovra finanziaria. Con la differenza che quest’ultima è pubblica, trasparente nei suoi effetti redistributivi di costi e benefici; la prima, invece, è più occulta e con un grado di privatizzazione dei benefici difficilmente sostenibile agli occhi dell’opinione pubblica. I benefici per il Paese di questa enorme canalizzazione di risorse pubbliche sono pochi o nulli: Fiat continua ad essere un malato grave, che perde da 1 a 2 miliardi l’anno, dalle prospettive incerte, con o senza GM. Il Paese nel suo complesso ha pagato, attraverso una fiscalità occulta cui non poteva sottrarsi, un’allocazione delle risorse a dir poco sub-ottimale. A dimostrazione che altre vie sono possibili per uscire dal declino delle nostre industrie nazionali, creando benefici per azionisti, stakeholders e collettività, si paragoni la vicenda Fiat a quella di Olivetti; la quale, un tempo campione nazionale nell’industria delle macchine per ufficio e poi dei computer, ha chiuso come tale; si è riconvertita ad un business più promettente e profittevole, quello delle telecomunicazioni, e ha abbandonato gli insediamenti tradizionali di Ivrea, spostando i suoi quartieri generali in Lombardia. Omnitel prima, e Vodafone poi, sono un esempio di successo che ha permesso di affermare nel mondo intero la capacità di innovazione e l’intelligenza manageriale del nostro Paese. E d’altra parte, non si è neanche perduto lo straordinario patrimonio di competenze e di imprenditorialità che nel Canavese, sulla scia di Olivetti, si è venuto formando: decine di aziende sono rinate in settori ad alta tecnologia e specializzazione di capitale umano; aziende che competono e si affermano sui mercati internazionali in settori produttivi all’avanguardia, attraggono nuove risorse, creano nuove competenze e nuove ricchezze. E’ oggi evidente che possono essere più tranquilli e fiduciosi nel loro futuro i lavoratori impegnati nelle aziende dell’information-communication technology del Canavese rispetto agli operai Fiat. Risoluzione del caso Fiat: il ruolo della politica Come uscire dunque dal caso Fiat e quale ruolo deve giocare la politica? Innanzitutto cosa non va fatto o non è proponibile fare. E’ singolare che ancora e nonostante tutto, a sinistra come a destra, vi siano sirene che invocano, sotto varie forme, un intervento di salvataggio pubblico, adducendo a pretesto questo come un tipico caso di market failure: i muscoli dello Stato dovrebbero intervenire direttamente laddove l’imprenditoria privata non è riuscita. Fiat verrebbe così nazionalizzata, ignari dei vincoli che Bruxelles porrebbe e irresponsabili sulle conseguenze che ricadrebbero sul sistema Italia, innanzitutto per la sua credibilità e, subito dopo, per le finanze pubbliche e private, come conseguenza di un immediato aumento del rischio-Paese e, quindi, dei tassi di interesse. Verrebbe anzi da osservare che proprio sotto le ali pubbliche Fiat ha cercato fino ad oggi riparo dalle sfide della concorrenza e che, se a questo punto si è arrivati, è per insufficienza di mercato e non certo per un suo eccesso! La nazionalizzazione di Fiat avrebbe un solo beneficio: renderebbe palese e quindi democraticamente controllabile, e elettoralmente declinabile, ciò che fino ad oggi è risultato in grande parte occulto, ovvero l’onere per i contribuenti di questo salvataggio. Non possiamo tuttavia eludere la domanda se tutto ciò risponda anche a principi di equità; se cioè sia politicamente corretto e sostenibile distrarre risorse collettive per imporre un’allocazione di risorse (questa volta pubbliche e private) inefficiente, della quale beneficerebbero pochi interessi individuali, senza particolare benefici per la collettività. A me sembra che questa posizione sarebbe poco difendibile da una forza genuinamente riformista; e il caso Olivetti è lì a ricordarci come in altro modo si fanno gli interessi della collettività e dei lavoratori (ma l’Italia è in realtà piena di casi Olivetti, che non sempre si vogliono ricordare e prendere ad esempio). E, seguendo la medesima logica, non sembrano neanche sostenibili politiche di sostegno pubbliche, più mascherate e blande, quelle che oggi si tentano di riproporre con il nome di neo-colbertismo; il fatto che si trovino eventualmente soluzioni di ingegnieria finanziario-istituzionale che ne decretino la formale (ma non sostanziale) compatibilità con le regole di Bruxelles non altera infatti la natura dell’intervento. Veramente pensiamo che lo sviluppo, l’ammodernamento e la competitività del Paese possano essere ottenute eludendo sistematicamente il confronto con la razionalità economica? E quante risorse sarebbero necessarie, visto che qualunque settore produttivo e industria potrebbe reclamare un eguale trattamento? E chi deciderebbe e secondo quali logiche cosa è da proteggere e finanziare e cosa no? E con quali prospettive di medio termine per la ricchezza del Paese? Se vogliamo guardare con senso di responsabilità verso il Paese al caso Fiat e a tutti gli analoghi casi nel Paese, in cui le nostre forze produttive e imprenditoriali sono chiamate ad uno sforzo di innovazione e creatività per competere e prosperare sui mercati internazionali, , la strada da percorrere è quasi obbligata e si sostanzia di pochi elementi. Innanzitutto lo Stato deve fare un passo indietro e operare, anche nei confronti di un’imprenditoria troppo spesso avvezza al confronto della concorrenza, con mano ferma e decisa, dichiarando la propria indisponibilità ad interventi diretti. Che l’attuale governo risulti in questo ondivago, rilasciando a giorni alterni dichiarazioni contraddittorie in tal senso, non sorprende, compresso come è nella ricerca di equilibri interni ed esterni da una posizione politica di sostanziale debolezza sui temi economici. Sarebbe elemento di grande portata politica una voce chiara al Paese da parte dell’opposizione, in questa direzione. In secondo luogo, occorre operare per creare le condizioni affinché Fiat trovi sul mercato le ragioni del proprio riscatto. Questo vuol dire rendere Fiat e il Paese appetibili agli investitori, nazionali ed esteri che siano; i quali, è bene ricordarlo, valutano gli affari in termini di convenienza rischio-rendimento. L’esperienza inglese ha molto da insegnarci: gli inglesi non sono più proprietari di un’industria automobilistica nazionale, ma in Inghilterra si produce più del 25% delle automobili europee; il Paese ha saputo attrarre capitali stranieri, rigenerare la propria industria automobilistica, inserendola con profitto nello scenario internazionale; e il patrimonio di competenze del Paese non è andato perso, anzi, si è rafforzato. Credo che ciò sia per i lavoratori inglesi (e per i suoi contribuenti) la migliore tutela rispetto a qualsiasi intervento protezionistico. Certo che l’Inghilterra ha offerto basi solide in questo: un mercato dei beni concorrenziale e regolato, un mercato finanziario solido, efficiente e trasparente, un mercato del lavoro sufficientemente ricettivo e fluido in entrata e in uscita, senza rinunce a forme di tutela e sostegno per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazione (quella che Schumpeter chiama la distruzione creatrice del capitalismo), un sistema di rapporti tra Stato e industria chiaro, direi “pulito”, senza impacci e ricatti, un sistema fiscale conveniente. Venendo al nostro Paese, General Motors ha dichiarato che nel caso fosse costretta a rilevare Fiat Auto, in Italia non lascerebbe un solo mattone. In parte l’affermazione va fatta rientrare nel gioco delle parti in un momento apicale della negoziazione in corso; in parte, tuttavia, l’affermazione lascia trasparire la poca appetibilità del nostro Paese. Si occupino di questo lo Stato e la politica, nell’interesse in tanto della Fiat e del Paese nel suo complesso. Sarebbe questa una voce di autorevolezza e responsabilità che la sinistra riformista dovrebbe sollevare, anche a costo di momentanee incomprensioni e ostilità; ma forte della tutela di un interesse generale del Paese. Una prova e un messaggio nel contempo di equità e di sviluppo.
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