FCA, NON SOLO QUESTIONE DI TASSE. AL DOPO COVID SERVE DEMOCRAZIA di Paolo Borioni del 17 maggio 2020

17 maggio 2020

FCA, NON SOLO QUESTIONE DI TASSE. AL DOPO COVID SERVE DEMOCRAZIA di Paolo Borioni del 17 maggio 2020

Andrea Orlando ha ragione da vendere nel dire certe cose ai rampolli che si sono trovati in mano la Fiat:“Senza imbarcarci in discussioni su che cosa è un paradiso fiscale credo si possa dire con chiarezza una cosa – ha spiegato Orlando – . Un’impresa che chiede ingenti finanziamenti allo Stato italiano riporta la sede in Italia. Attendo strali contro la sovietizzazione e dotti sermoni sul libero mercato”.

Il problema è che nelle condizioni attuali (cioè nel partito che dirige) non può dire, e suppongo osare pensare, quanta ragione ha. A partire da due fatti: primo, è invece assolutamente indispensabile “imbarcarsi in discussioni su che cosa è un paradiso fiscale”. E prendere contromisure. Secondo: siccome sa benone che i rampolli Agnelli hanno comprato Repubblica-L’Espresso per decidere cosa deve pensare l’elettorato di centro-sinistra, una sinistra, oggi, dovrebbe ricostruire una indipendenza politica e una base popolare del tutto autonoma da Repubblica-L’Espresso. Inutile dire che la direzione da intraprendere è opposta a quella degli ultimi lustri.

Ripartire dalla democrazia

È ovvio, anzi virtuoso, nella storia del movimento operaio chiedere qualcosa in cambio quando i fatti dimostrano che il mercato e l’impresa capitalistica non sono affatto autosufficienti. Anzi: se il dopo Covid deve essere un nuovo tempo si deve andare molto oltre la semplice decenza del pagare le tasse dove si percepiscono i contributi. Si potrebbe introdurre il potere e il sapere delle maestranze e quindi la democrazia industriale (informazione e co-decisione nelle imprese) e quella economica (co-investimento dei lavoratori). Si potrebbero cioè proporre cifre ed aiuti ancora più ingenti in cambio di procedure di co-decisione e informazione più puntuali, alla tedesca almeno (controllo nei consigli di sorveglianza) se non alla scandinava (presenza nei consigli di amministrazione).

Meglio ancora: forme di futura condivisione dei profitti (quando ritorneranno i profitti) che assieme a frazioni volontarie del salario formino fondi di investimento (del lavoro) per bilanciare il disinvestimento (capitalista). I cui ritorni ovviamente sarebbero dei lavoratori.

La necessità di una sinistra socialista

Però ci vorrebbe un paese con una sinistra in cui è forte (non inesistente) l’ispirazione socialista radicata nel movimento operaio. In cui è primaria la ricostruzione del rapporto con le classi popolari e medie marginalizzate dalle scelte degli ultimi venticinque/trenta anni.

Al nuovo investimento operaio, di massa, facilmente si potrebbe aggiungere la mobilitazione di una liquidità molto ingente e diffusa. Sarebbe la risposta alla realtà attuale: questa forma di internazionalizzazione economica detta “globalizzazione” è irrazionale e insostenibile. Si basa sulla progressiva abdicazione delle risorse materiali e costituzionali necessarie ad un governo democratico, scommettendo che i potenziali insiti nella esportazione dei beni e nella migrazione (perlopiù finanziaria) dei capitali avrebbero garantito tempi magnifici. Ciò che avviene è tutt’altro: la democrazia distorta ed evirata dal potere dell’impresa e del capitale. Quel potere che le costituzioni e i sistemi di welfare di metà ventesimo secolo avevano ricondotto ad essere solo uno (per quanto sempre potentissimo) dei fattori della decisione.

Il caso che Orlando sottolinea è soltanto più eclatante, ma avviene ogni giorno da decenni: la grande impresa (in forme meno evidenti anche la piccola) necessitano e richiedono risorse infrastrutturali, educative, ordine pubblico e sicurezza sociale, mentre come possono erodono la base imponibile che deve garantirle. Viceversa, le forme precedenti di integrazione internazionale sapevano come aprire i mercati e al contempo però anche garantire che gli Stati fornissero la domanda per il commercio. La domanda erano cioè  i loro sistemi di welfare, i salari dei lavoratori, gli investimenti per uno sviluppo di lungo periodo. Tutti in crescita.

Oggi invece erodendo i fattori della domanda (che coincidono con i fattori e con gli esiti della democrazia) la forma di internazionalizzazione detta globalizzazione punta tutto e solo sulla conquista dei mercati. Questo, a differenza della domanda da salari e welfare, comporta necessariamente una maggiore limitatezza degli spazi, e quindi (attenzione!) inevitabilmente uno scontro fra chi i mercati se li contende.

Altra questione: il fatto che il paese di elezione fiscale della FCA siano i Paesi Bassi, dice che l’Unione Europea fa parte di questa ideologia, di questo problema. Essa, direttamente o indirettamente, incentiva alcuni Stati a privare altri della propria base imponibile. Una condotta dietro a cui c’è la realtà sostanziale dell’Unione Europea: la competizione fra gli Stati membri sovrasta nettamente la cooperazione fra di essi, peraltro in modo tale da perpetuare o aggravare le differenze gerarchiche e di sviluppo fra le regioni del continente.

Ecco altre ragioni per costruire un investimento alternativo e democratico. Di lungo periodo e in campi nuovi, spesso compresi nella sostenibilità ambientale, nella tecnologia energetica e in quella pro-sanità e pro-welfare (si ha idea di quanti spazi di esportazione abbiano queste tecnologie oggi?). Da investire in un trasposto urbano che diventa l’asse del passaggio progressivo da un prevalente consumo privato ad uno maggiormente programmato e pubblico.

Un patto per cambiare strada

Il socialismo democratico, dove esisteva, ha storicamente sempre utilizzato le crisi e le relative misure per uno scambio che allargava i fini e gli ambiti della democrazia. Invece, e specie in Italia (anche in quella che si propone come l’attuale sinistra) si scommette tutto sulla inventiva del singolo imprenditore, che nel contesto attuale inevitabilmente ci ricambia con una competitività da costi e sfruttamento.

Con un patto paritario (quindi con molto più potere al lavoro) fra le classi e gli interessi democraticamente rappresentati (a patto di tornare a rappresentare democraticamente gli interessi) si potrebbe cambiare strada. Una strada in cui le classi che vendono lavoro guadagnano parità negoziale e quelle che lo comprano scelgono i vantaggi di un nuovo sviluppo programmato. Più salario ma più innovazione e crescita, assicurata da una massiccia alternativa al tramontato fordismo, di cui la finanziarizzazione e la Ue attuale  (fissata sulla sola esportazione) sono insufficienti e nocivi surrogati.

Altrimenti si rischia il paradosso della democrazia: sfruttare la sua grande capacità di risolvere i problemi immediati, e usare però stoltamente i meccanismi della comunicazione e del consenso elettorale, occultando le cause profonde.
È sempre stato vero, ma con il Covid dovrebbe esserlo anche di più: non è il capitalismo sregolato che ci salverà, ma potremmo essere come sempre noi a salvare l’economia, se essa muterà profondamente. Cioè se accetterà di salvare il  mercato attraverso un minore e diverso profitto.

Come stabilito per la prima volta dalla commissione Bruntland*: “Lo sviluppo sostenibile, lungi dall’essere una condizione definitiva di armonia, è piuttosto un processo di mutamento tale che lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e dei cambiamenti istituzionali sono resi coerenti con i bisogni futuri e con quelli attuali”. Gro Harlem Brundtland: ovviamente anche lei una socialista democratica.

 

*(World Commission on Environment and Development (WCED) (1987), “Our Common Future”, Oxford: Oxford University Press).

 

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