FAR SALTARE IL TAPPO. COME E PERCHÈ QUESTO PD VA SMANTELLATO. di Fabrizio Rondolino da Facebook 29 gennaio
17 febbraio 2009
Il Fronte popolare di Togliatti e Nenni conquistò nel 1948 il 31% dei voti. Il Pci di Berlinguer raggiunse al suo culmine il 34,3% (1976). I Progressisti di Occhetto ottennero nel 1994 il 34,3%. Il Pd di Veltroni (con i Radicali) ha avuto l’anno scorso il 33,2%. È dunque evidente che per questa via – cioè, per essere sbrigativi, la via del post-Pci – la sinistra in Italia non va da nessuna parte. Dunque, delle due l’una: o la sinistra (così com’è) non vincerà mai più le elezioni, oppure bisognerà prima o poi dar vita ad una nuova formazione politica che chiuda definitivamente i conti con il Novecento. Il Pd oggi ha tre caratteristiche fondamentali, nessuna delle quali è particolarmente esaltante. 1. Politicamente, più di un “amalgama mal riuscito”, come ha detto un suo autorevole dirigente, il Pd è una maionese impazzita. Non c’è una sola questione aperta – dal giudizio sulla Cgil al testamento biologico, dal Medio oriente all’immigrazione – su cui esista il consenso. Neppure la collocazione internazionale, a pochi mesi dal voto europeo, è stata decisa: proprio mentre la destra italiana trova finalmente la sua casa naturale nel Ppe, la “sinistra” brancola senza meta. All’assenza di una linea politica, di un profilo culturale e di un’identità condivise fa poi riscontro un’estrema litigiosità del gruppo dirigente, dove ciascuno definisce la propria posizione non in base al merito, ma secondo logiche tutte personali di scontro e di (relativo) vantaggio politico. I dirigenti del Pd, in altre parole, cercano visibilità litigando, e se non litigassero non esisterebbero, proprio come non esistono più i loro partiti: il Pci e la Dc. 2. Il Pd è un partito oligarchico e profondamente a-democratico. Le primarie, com’è noto, sono state una farsa: il gruppo dirigente ha scelto Veltroni, e i candidati alternativi più ‘pesanti’, come per esempio Bersani, sono stati invitati a non scendere in campo. L’Assemblea nazionale si è riunita brevemente soltanto due volte, e la seconda in assenza di numero legale (era presente circa un terzo dei membri). Non c’è un tesseramento regolare al partito, e dunque non c’è al suo interno alcuna possibilità di vita democratica. I dirigenti nazionali sono scelti personalmente dal segretario. In altre parole, il Pd è una copia insultante di Forza Italia. 3. Il Pd, infine, è arrogante: la sua pretesa all’autosufficienza, anziché nascere da un’identità politica e culturale forte e capace di raccogliere il consenso degli italiani, cerca la scorciatoia del trucco elettorale. Il Parlamento europeo non deve dare la fiducia a nessun governo: è l’assemblea rappresentativa dei popoli d’Europa, e come tale dovrebbe dare voce a tutti. Il Pd avrebbe dovuto lasciare che la destra approvasse da sola lo sbarramento al 5%, e un minuto dopo aprire le sue liste alla sinistra oggi extraparlamentare. Invece s’è accordato con Berlusconi per uno sbarramento al 4%, sperando così di ottenere con la coercizione e il ricatto ciò che non riesce a ottenere con l’identità e i programmi: il voto dei cittadini. Il 30% degli italiani – la sinistra ‘riformista’ – è dunque sequestrato dall’oligarchia che governa (litigando) il Pd; un altro 10% - la sinistra ‘antagonista’ – è escluso da ogni rappresentanza. Così non può continuare. Per riaprire uno spazio a sinistra – lo spazio dove possa nascere e crescere il grande partito socialista e libertario capace di chiudere la storia del Novecento e di candidarsi al governo del Paese – occorre far saltare il tappo: cioè questo Pd e il suo gruppo dirigente. Non servono vecchi e nuovi partiti, partitini, movimenti, che perpetuano la frammentazione volendo arginarla. Né è possibile cambiare democraticamente i vertici del Pd, perché lo statuto di quel partito lo impedisce. Bisogna dunque far saltare il tappo. Come? 1. Se davvero il Pd vota la riforma elettorale che introduce uno sbarramento al 4% per le Europee, tutte le formazioni della sinistra oggi extraparlamentare dovrebbero ritirare immediatamente la fiducia alle giunte locali di centrosinistra che appoggiano o di cui fanno parte. Se il Pd vuole essere solo, che lo sia davvero e fino in fondo. Così si consegnano città, province e regioni alla destra? Forse sì, forse no: in democrazia decidono gli elettori, non i partiti. 2. Alle Europee di giugno chi ha votato Pd nel 2008 dovrebbe astenersi. In Abruzzo è già successo: metà degli elettori è rimasta a casa, il Pd ha quasi dimezzato i voti. Ma il segnale, a quanto pare, non è stato raccolto. Un’astensione massiccia alle Europee, invece, preceduta dalla perdita di molte città e di qualche Regione, potrebbe dare il colpo di grazia all’“amalgama mal riuscito”, cioè all’oligarchia che oggi regge il Pd svilendone e vanificandone il progetto originario. Non so che cosa succederà dopo, e non so prevederlo. Del resto, la politica non è fatta di previsioni, perché il futuro non è prevedibile, ma di posizionamenti: ciascuno si colloca in modo tale da trovarsi nella condizione migliore per poter fare questo o quello, in nome di un principio o di un interesse; dopodiché accadrà quel che accadrà. Il campo della sinistra è oggi ingombro di rovine: per prima cosa, dunque, dobbiamo sgomberare le rovine della sinistra novecentesca perché una nuova casa possa essere costruita. È un compito che spetta a noi, gli elettori della sinistra, perché nessun altro lo farà al posto nostro. Nessun Obama potrà farsi strada in Italia fino a che la strada resterà ostruita dall’assetto attuale della sinistra italiana, che in vent’anni non ha saputo né potuto riformarsi. Del resto, così è accaduto con il ‘pentapartito’ della Prima repubblica: non è stato riformato, ma travolto. E la destra, con la scesa in campo di Berlusconi, non si può dire che non ci abbia guadagnato. Se Forza Italia l’avessero fondata e diretta Forlani, Craxi, La Malfa, Cariglia e Zanone, dubito che avrebbe avuto lo stesso successo. Non auspico né una via giudiziaria, né l’arrivo di un qualche messia: ma credo che la tabula rasa sia oggi la precondizione necessaria e indispensabile per ricominciare a parlare di sinistra in Italia. La misura è colma. E le elezioni del 2013 – quelle vere, che decideranno insieme Palazzo Chigi e il Quirinale – non sono poi lontanissime, per il lavoro che c’è da fare.
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