EXPO: Trasformazioni urbane, AVREMO PURE AL GORE TRA I FAN MA RESTANO LE VECCHIE LOGICHE, di CRISTOFORO BONO, da IL RIFORMISTA del 5 febbraio 2008

25 febbraio 2008

EXPO: Trasformazioni urbane, AVREMO PURE AL GORE TRA I FAN MA RESTANO LE VECCHIE LOGICHE, di CRISTOFORO BONO, da IL RIFORMISTA del 5 febbraio 2008

«Milano sta diventando una delle città più amiche dell'ambiente»: così il senatore Al Gore, intervenuto proprio mentre gli esperti del mondo decidono sull'Expo. D'altro lato c'è la sensazione che «Milano ha tutto per essere grande, ma sta perdendo la sfida; è così: invisibile, nascosta, clandestina». Sono parole di Gillo Dorfles (dette nello scorso dicembre al Piccolo Teatro e ripetute in una intervista al Corriere ). Invece il poeta Cucchi, sempre su Milano e sulle colonne del Riformista , osserva che uno dei problemi è la perdita del «principio di competenza». Forse le competenze devono, al contrario, tentare anche lo sguardo d'assieme di Dorfles: in questo modo cerco di guardare, come architetto, le immagini che tutti possono scorrere presso l'Urban Center in Galleria, e che offrono una simulazione della prima ipotesi progettuale per l'Expo del 2015: e questa mi sembra il frutto di mille contraddizioni. Si tratta di una visione «a volo d'uccello» in movimento, che parte dalla faccia del Duomo e dalla Scala; che poi fugge rapidamente nella direzione nord-ovest, verso la Fiera di Rho, quella grande, là fuori di mano. Durante il percorso il presente si mescola col futuro e alla visione si aggiunge il progetto, non ancora realizzato nel recinto della Vecchia fiera: le discusse torri, appunto. Ma le sorti progressive di questo volo sono, a un certo punto, come interrotte da una ideale matita che segna in rosso sulla città i bizzarri confini comunali, frutto storico, come si sa, di successive annessioni dei borghi limitrofi. Confini che oggi non corrispondono alla reale geografia urbana: anzi mettono in chiaro come la Grande fiera, ancora non usata a pieno regime, non sia nata in forza di una politica metropolitana policentrica, che ne favorisse l'armatura, ma nella solita e stretta logica di Milano monocentrica, con dislocamento di funzioni appena oltre i suoi propri confini. Nei modi della segregazione urbana della città borghese classica, che ruba campagna o destruttura la periferia storica e industriale. Il colpo di matita amministrativa ci fa capire che l'Expo non intende andare oltre la vecchia logica, per esempio prendendo atto dell'errore fatto a suo tempo, di non aver integrato e consolidato il non-luogo della Fiera con il non-luogo per eccellenza secondo Marc Augé: l'aeroporto, cioè Malpensa, oggi sola con i suoi problemi e ancora poco accessibile. Questa visione dell'Expo ci offre un'idea non progressiva di Milano, e suggerisce una vecchia idea di città: anzi torna indietro, proprio come quella mano che sovraimpone il confine. Non appare come un'apertura e uno stimolo, ma il gesto prigioniero e contratto sull'area libera (lasciata libera nelle incertezze del bordo urbano) contigua alla fiera stessa, dentro però la cinta municipale; unita e separata da quella dall'ultima torre urbana, che salva e fa da snodo. Un concorso di idee le darà l'immagine; ora, per fare apparire più grande e vero il luogo prescelto, il progetto si arricchisce, nella simulazione, di stilemi conosciuti, e i singoli padiglioni (tutti informi salvo il nome delle Regioni scritto sulla facciata) s'innalzano su una superficie d'acqua, offerta per una via d'acqua a venire. Una sorta di citazione del Parco de la Villette parigino, disposto, quello, entro le grandi e magnifiche geometrie della «capitale del mondo», certo non confrontabile con Milano, «capitale mancata», pure inserita in grandi e magnifiche geografie storiche lombarde. Ma, per analogia, dalla Villette se ne poteva invece trarre, nelle virtù urbane, l'esempio: è un fatto di civiltà che il vecchio, grande mattatoio di Parigi sia stato trasformato in un parco, con la gloriosa archeologia industriale che diventa luogo della musica. Qui invece, l'area per l'Expo appare più una scelta tra le non scelte, un prendere o lasciare, un semplice farsi largo tra gli intrecciati interessi, forse troppo immobiliaristici, in gioco. Almeno l'Expo milanese dell'inizio dell'altro secolo era realisticamente legata alla completa assimilazione urbana delle abbattute fortificazioni e del Castello, e si legava alla vita del nuovo Parco Sempione, peraltro frutto di grandi compromessi. L'Acquario è ancor oggi rimasto, come la timida porta del primo, modesto parco, dopo i Giardini di Porta Venezia. Fin qui le avvisaglie, ma forse un raggio di speranza lo possiamo trovare nel fatto che, anche oggi, la trama dei parchi sta sotto la traccia o l'occasione dell'Expo, sia pure con i forti limiti detti e con l'introduzione di curiose e nuove nozioni urbane, come i «raggi verdi» dal centro alla periferia. Allora le parole, vere, di Dorfles, sono parole amare, ma «sempre parole d'amore», per una realtà che, dal Verri ad Al Gore, molti tra i migliori hanno sempre riconosciuto, e forse può essere ancora perseguita: non nella Milano piccola che si decentra, ma nella «Città di Lombardia» con le sue città di corona, con i suoi parchi di cintura (Ticino e Adda), e con i laghi in fronte. E il solito cielo, così bello quando è bello.

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