Escalation tra Russia e Ucraina: Putin riconosce i secessionisti di Donetsk e Lugansk di Mirko Molteni in Analisi Mondo del 22 febbraio 2022 PRIMA PARTE

03 marzo 2022

Escalation tra Russia e Ucraina: Putin riconosce i secessionisti di Donetsk e Lugansk di Mirko Molteni in Analisi Mondo del 22 febbraio 2022   PRIMA PARTE

Dopo mesi di tensione crescente sui confini fra Russia, Bielorussia e Ucraina, l’annuncio il 15 febbraio 2022 di un parziale ritiro dell’imponente schieramento russo, che avrebbe toccato, fino a quel momento, una punta massima di 147.000 soldati in posizioni avanzate (entro 300 chilometri dai confini ucraini), sembrava aver aperto la prima concreta possibilità di calo della tensione, almeno nel breve periodo.
 
Ma la sera del 21 febbraio il presidente russo Vladimir Putin ha infine rotto gli indugi, dopo essersi consultato col Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, decidendo di riconoscere le due repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk.
 
Il discorso di Putin si è caratterizzato anzitutto per l’attacco frontale all’intera classe dirigente ucraina, rea ai suoi occhi di aver fatto diventare il paese una sorta di colonia della NATO: “Gli ucraini” sono dominati da oligarchi interessati solo ai loro soldi e alle loro aziende, nonché a dividere l’Ucraina dalla Russia. Hanno sfruttato lo sconforto dei cittadini e sono arrivati a un colpo di stato, col sostegno da parte degli Stati Uniti, grazie a milioni di dollari al giorno. C’è stata una corruzione dilagante e gli ucraini si sono trovati a essere marionette”.
 
Il pericolo strategico per la Russia è enorme e Putin ha ricordato una presenza militare della NATO in Ucraina sotto traccia, ma probabilmente non sfuggita all’intelligence dell’FSB e dell’SVR.
 
“In Ucraina le armi occidentali sono arrivate con un flusso continuo, ci sono esercitazioni militari regolari nell’ovest dell’Ucraina, l’obiettivo è colpire la Russia. Le truppe della NATO stanno prendendo parte a queste esercitazioni, almeno 10 sono in corso, e i contingenti NATO in Ucraina potrebbero crescere rapidamente. I sistemi di comando delle truppe ucraine sono già integrati con la Nato e l’Alleanza ha iniziato a sfruttare il territorio ucraino con infrastrutture missilistiche”.
 
Teme che anche in Ucraina sorgano basi come quella di Deveselu in Romania e quella di Redzikowo in Polonia, da cui gli americani possano lanciare a sorpresa missili Tomahawk o anche di nuovo tipo, come i Lockheed PRSM a medio raggio: “L’installazione di missili balistici in Ucraina sarebbe una minaccia contro la Russia europea e gli Urali. I missili Tomahawk possono raggiungere Mosca in 35 minuti, i missili balistici in 7 minuti ed i missili ipersonici in 4 minuti. E’ un coltello alla gola della Russia.
 
Hanno cercato di tranquillizzarci dicendo che ci vorrà tempo. Sono stati condotti negoziati ma è scritto in molti documenti ufficiali che la Russia è il nemico numero uno dell’Alleanza Atlantica”.
 
Così ha parlato chiaro l’uomo del Cremlino, dopo che per settimane ha visto gli Stati Uniti e gli alleati europei della NATO glissare, in sostanza, su precise richieste di sicurezza a cui Mosca vorrebbe dare forma scritta per assicurare una stabilità di lungo periodo che l’Occidente vuole soltanto alle sue condizioni, negando parità negoziale alla controparte.
 
E ponendo così semi di discordia. Le questioni principali sono rimaste sul tappeto, poiché Stati Uniti e alleati non hanno di fatto tenuto conto finora di nessuna delle preoccupazioni della Russia per la propria sicurezza, per le quali il Cremlino aspira ad arrivare a un trattato scritto. Inoltre, il presidente americano Joe Biden, ha più volte ripetuto che “i russi potrebbero invadere l’Ucraina in ogni momento nei prossimi giorni”, sebbene, curiosamente, lo stesso ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, abbia detto che “la Russia non ha ancora organizzato formazioni d’attacco tra le sue forze schierate vicino ai confini”.
 
Il 20 febbraio una telefonata del presidente francese Emmanuel Macron al collegar russo Vladimir Putin avrebbe propiziato la possibilità di un vertice Putin-Biden. Ma non promette nulla di buono la ripresa di scontri locali nel Donbass, l’area orientale dell’Ucraina in cui dal 2014 le repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk, abitate da russofoni, si oppongono all’autorità di Kiev con l’appoggio di Mosca.
 
Lo scambio di cannonate e granate di mortaio avrebbe già provocato, fra il 17 e il 21 febbraio, almeno due morti militari fra gli ucraini e due morti civili e uno militare fra i russofoni del Donbass. Le due parti si rimpallano accuse reciproche di provocazione. D’altro canto, il presidente americano Joe Biden per primo non si è fidato dell’annuncio russo di parziale ritiro e di fine delle esercitazioni, convincendo poi a cascata il segretario della NATO Jens Stoltenberg e i governi alleati a ripetere, fra il 16 e il 21 febbraio, che “non si osservano segnali di de-escalation”.
 
Fra le stime degli ultimi giorni, il 17 febbraio l’ambasciatore americano presso l’OSCE, Michael Carpenter, ha sostenuto che la Russia avrebbe “fra 169.000 e 190.000 soldati” sui confini, poi il 20 febbraio la tv statunitense CNN ha parlato di “120 gruppi tattici a livello di battaglione schierati a 60 chilometri dal confine con l’Ucraina”, oltre a “35 battaglioni da difesa aerea, 500 aerei da caccia e 50 bombardieri medio-pesanti”.
 
La CBS dal canto suo, cita fonti CIA secondo cui “ai comandanti dell’esercito russo sono già stati consegnati gli ordini di attacco”. Arduo chiaramente discernere quanto si tratti di indiscrezioni plausibili e quanto di “guerra d’informazioni” per favorire una successiva ricostruzione che addossi solo sui russi la colpa di un conflitto.
 
Stesso discorso per le scaramucce in Donbass, dove l’atteggiamento offensivo che i miliziani filorussi attribuiscono alle forze di prima linea ucraine potrebbe rendere credibile l’ipotesi che Kiev, sentendosi spalleggiata dalla NATO, tenga alta la tensione nella speranza di recuperare quel territorio.
 
Ma i russi, a loro volta, hanno ribattuto in quei giorni, sia per bocca del presidente Vladimir Putin sia del suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, che “gli Stati Uniti non hanno dato risposte soddisfacenti alle nostre precise richieste in fatto di sicurezza”. In sostanza, l’assicurazione scritta che l’Ucraina non entrerà mai nella NATO, il ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica dai territori degli stati membri dell’Est ammessi nell’ultimo ventennio e il conseguente divieto di basi missilistiche e nucleari sui suddetti territori.
 
Mosca non ha certo interesse a scatenare di sua iniziativa una guerra che, anche se rimanesse limitata al territorio ucraino, sarebbe dannosa per la sua economia, compromettendo ancor di più i rapporti commerciali con l’Europa Occidentale, già azzoppati dalle sanzioni varate dopo l’annessione della Crimea nel 2014.
 
Se infatti i russi hanno il coltello dalla parte del manico per quanto riguarda la dipendenza dell’Unione Europea dal gas russo, che non potrà essere sostituito in tempi brevi da quello di altri fornitori come il Qatar, essi stessi, di riflesso, non possono sperare di recuperare altrettanto in fretta mancati introiti rivolgendosi ad altri compratori, come la Cina, dato che il commercio del gas si basa su investimenti infrastrutturali di lungo periodo. Ovviamente, comunque, la propensione russa a non iniziare un vero conflitto ad alta intensità va considerata al netto di possibili provocazioni sul territorio del Donbass, a cui stiamo purtroppo già assistendo.
 
In tutto questo, il 19 febbraio Putin ha lanciato alle potenze occidentali un importante messaggio non verbale dirigendo personalmente esercitazioni delle forze missilistiche nucleari russe, in modo da ribadire la propria capacità di deterrenza strategica, e il 20 febbraio ha dichiarato il prolungamento delle esercitazioni congiunte con la Bielorussia, che sarebbero dovute terminare quel giorno “a causa della situazione critica nel Donbass”.
 
Altolà per la NATO
 
Pur non nutrendo, probabilmente, una reale intenzione di guerra, il presidente Vladimir Putin doveva in qualche modo mostrare i muscoli, come mai aveva fatto prima d’ora, per dare un chiaro segnale alla NATO, pericolosamente arrivata sui suoi confini nell’arco di un ventennio, fino a rendere prevedibile un’adesione dell’Ucraina.
 
La situazione è poi parsa anche più grave al Cremlino dopo che nel 2021 le stesse autorità ucraine hanno iniziato a parlare con sempre maggiore insistenza di un possibile “recupero della Crimea”. E’ palese che le tensioni perduranti fra Kiev e Mosca rendano troppo pericoloso l’eventuale ingresso dell’Ucraina nell’alleanza atlantica, poiché un conflitto fra le due parti, magari scaturito da incidenti orchestrati, obbligherebbe anche l’Italia a una guerra globale contro la Russia in virtù dell’articolo 5 dell’Alleanza.
 
Una guerra che, a differenza degli interventi militari oltremare, lontano dalle nostre frontiere, a cui ci siamo abituati negli ultimi decenni, toccherebbe in modo più o meno diretto il territorio nazionale italiano, anche solo per la presenza di basi americane come quelle di Aviano o Sigonella, con la relativa presenza di ordigni nucleari lanciabili da aerei, nella fattispecie le bombe a caduta libera B61 con potenza massima di 340 chilotoni, come anche a Ghedi, dove essi possono esser utilizzati da equipaggi dell’Aeronautica Militare Italiana in regime di “nuclear sharing” su ordine statunitense.
 
Ecco perchè, se davvero la crisi dovesse a fatica disinnescarsi in questi giorni a patto di promesse, anche dietro le quinte, di un mantenimento dell’Ucraina in uno status tecnicamente neutrale senza farla aderire alla NATO, si può dire che Putin, “tirando la corda” fino a ottenere almeno questo risultato, abbia fatto, sotto sotto, un favore anche all’Italia.
 
Su questo non sembrano esserci dubbi e, fra l’altro, riteniamo che gli eventi a cui stiamo assistendo dovrebbero insegnare qualcosa a Washington e a Bruxelles, portando a un generale ripensamento del concetto stesso di allargamento indiscriminato della NATO e, teoricamente, di qualsiasi alleanza.
 
Un patto solidale per la reciproca difesa militare e che presuppone l’automatismo dell’intervento a protezione di un membro attaccato produce davvero sicurezza solo se limitato a un certo numero di paesi le cui politiche estere e strategiche siano abbastanza coordinate fra loro da poter parlare di comunanza di interessi geopolitici.
 
Se un’alleanza finisce con l’allargarsi a paesi sempre più lontani, come distanza geografica e interessi, dai suoi primi membri storici ciò aumenta esponenzialmente il rischio che l’alleanza in questione venga a trovarsi a contatto con un numero crescente di aree di confine e di potenziali crisi aggiuntive che complichino il quadro, specialmente se uno dei membri risultasse in qualche modo aggredito da un attore esterno a causa di sue avventatezze o “fughe in avanti”.
 
In buona sostanza, più alleati, più possibilità che uno, o più, di essi si trovi in frizione, lungo i confini esterni dell’alleanza, con un possibile avversario, trascinando in blocco gli altri alleati in un conflitto non voluto e contrario ai loro reali interessi.
 
Anche per le alleanze, quindi, si potrebbe ben parlare di una sorta di “punto culminante”, per usare un’espressione che due secoli fa Karl von Clausewitz, uno dei padri della strategia, applicava alle vittorie campali. Un punto, o meglio un apice, oltrepassato il quale, l’aumento del numero dei membri di una coalizione porta più svantaggi che vantaggi, poiché fa moltiplicare i rischi per la sicurezza, anziché diminuirli, spingendo a ritenere vitali scacchieri e situazioni addizionali che in precedenza non erano percepiti tali.
 
Grandi alleanze possono quindi portare, per il numero stesso delle nazioni impegolatevisi, più facilmente anche a guerre generali, estese su fronti di migliaia di chilometri. Senza contare che, nello specifico caso Russia-NATO, è stata la stessa espansione a Est a far crescere le preoccupazioni di Mosca che si traducono a loro volta nell’aumento di insicurezza sul versante orientale.
 
Si giunge quindi al paradosso che, se dal 1999 al 2020 ben 14 paesi dell’Europa Centro-Orientale si sono aggiunti ai 16 membri “storici”, cioè i 12 fondatori dell’alleanza nel 1949, fra cui l’Italia, e i 4 aggregatisi dal 1952 al 1982, che contava l’alleanza fino alla fine del XX secolo, tale processo è stato giustificato dalla necessità presunta di proteggere quelle nazioni dal risorgere della potenza russa, la quale però è stata spronata, e indispettita, proprio dal suddetto allargamento, in un tragicomico scambio fra causa ed effetto.
 
Se a ciò aggiungiamo che i neo-membri dell’ultimo ventennio sono per la maggior parte nazioni medio-piccole, che di fatto hanno aggiunto poco o nulla alla forza militare complessiva della coalizione, si può dire che l’alleanza si sia sobbarcata spese aggiuntive per la difesa di paesi tendenzialmente molto deboli per soli scopi ideologico-politici, ottenendone in cambio l’aumento dei rischi.
 
A tal proposito, va ricordato che lo scorso 17 gennaio 2022 perfino sulla prestigiosa rivista americana di politica estera Foreign Affairs si è dato spazio a simili dubbi, con un articolo di Michael Kimmage secondo cui “è tempo per la NATO di chiudere le sue porte”.
 
“La NATO soffre di un grave difetto di progettazione: l’estensione profonda nel calderone della geopolitica dell’Europa Orientale è troppo grande, troppo mal definita e troppo provocatoria per il suo stesso bene”. E inoltre: “Mettere fine all’espansione della NATO sarebbe un atto di autodifesa per l’alleanza stessa, dandole i doni che conferiscono una più grande limitazione e una più grande chiarezza”.
 
Se l’Alleanza Atlantica s’è infilata in una simile trappola è stato in sostanza per cercare di perpetuare i risultati del post-Guerra Fredda, emarginando, per quanto possibile, la Russia dall’Europa. Ciò conferma che la NATO, fondata nel 1949 per arginare l’espansionismo di una Unione Sovietica che contava sulla forza sovversiva del comunismo, si è trasformata dopo la fine della Guerra Fredda in uno strumento di contrasto della Russia in quanto tale.
 
In sostanza, gli Stati Uniti, la potenza leader dell’Alleanza Atlantica, e il loro principale alleato, cioè la Gran Bretagna, hanno continuato a diffidare di Mosca anche dopo la caduta del comunismo, mentre la maggior parte dei paesi continentali tendevano a espandere i loro rapporti commerciali con i russi.
 
Per gli americani e la dirigenza NATO da essi influenzata, è la Russia in sè, indipendentemente dai colori politici dominanti al Cremlino o alla Duma, che va trattata da perenne sorvegliato speciale. Visto dall’ottica anglosassone, l’espansione della NATO e la sua pressione geopolitico-militare per contenere la Russia, servono per impedire un duraturo sodalizio fra una Mosca più democratica, o comunque meno autoritaria rispetto ai tempi del regime comunista, e un’Europa continentale che a quel punto non avrebbe più bisogno della protezione americana, togliendo significato all’esistenza stessa della NATO, per come è stata concepita finora. In qualche modo, la persistenza del “nemico” è necessaria alla continuazione dell’alleanza.
 
Anche i russi se ne rendono conto e certo il braccio di ferro è diventato decisivo negli ultimi mesi, essendo ormai Mosca conscia di avere recuperato una forza militare sufficiente a difendere i propri interessi vitali in Europa. Ecco il perchè delle ripetute esercitazioni di massa russe, ineccepibili dal punto di vista del diritto internazionale perchè svolte sul proprio territorio, o su quello dell’alleata consenziente Bielorussia, ma che allarmando Kiev, Washington e Bruxelles, hanno lo scopo di portare finalmente al “dunque” una questione irrisolta da un ventennio e che ha toccato la classica “goccia che fa traboccare il vaso” con l’avvicinarsi di una ventilata ammissione dell’Ucraina nell’alleanza.
 
Biden incoraggia Kiev
 
La crisi attualmente in corso si è snodata gradualmente a partire dal novembre 2021, ma è il risultato finale di una contrapposizione montata di mese in mese fin dall’insediamento del presidente Joe Biden alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2021, tanto che si può parlare per lo scorso anno di un “primo round” del confronto che potrebbe essere servito a entrambi per “prendere le misure” dell’avversario.
 
Dopo l’ascesa di Biden, le autorità ucraine devono aver pensato di poter contare su un’amministrazione americana assai più favorevole a Kiev, anche per i passati rapporti d’affari del figlio del presidente, Hunter Biden, con la società ucraino-cipriota Burisma.
 
Mentre si accrescevano già allora le tensioni in Donbass, fra l’esercito ucraino e le milizie filorusse delle repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk, una stretta contro politici ucraini ritenuti filorussi, aveva spinto già in febbraio Mosca a mobilitare un primo gruppo di 3000 paracadutisti non lontano dalla frontiera.
 
Ad aggravare le cose è arrivata il 24 marzo 2021 da parte del presidente ucraino Volodymir Zelensky la firma di un decreto volto a sviluppare “strategie di recupero e de-occupazione delle aree del paese temporaneamente occupate”. Ciò ha fatto temere ai russi la possibile organizzazione di azioni militari da parte di Kiev, appoggiate dagli USA, per recuperare il Donbass e/o la Crimea.
 
La dirigenza ucraina si è sentita a maggior ragione sostenuta dalla nuova amministrazione della Casa Bianca dopo che, il 2 aprile 2021, si è avuto il primo colloquio telefonico fra Zelensky e Biden, il quale ha parlato di “protratta aggressione russa in Crimea”, senza tener conto che la penisola è ormai annessa alla Russia dal 2014 e che la maggioranza della sua popolazione è russa o pro-russa.
 
Sempre il 2 aprile è stato visto atterrare a Kiev un aereo da trasporto militare americano C-130J partito dalla base NATO di Ramstein (Germania) per missione ignota. Frattanto, i russi portavano il loro schieramento a 40.000 uomini, secondo l’Ucraina, mentre le milizie del Donbass segnalavano azioni di droni, per ricognizione e anche attacco, sulle loro posizioni. Entro il 6 aprile arrivavano a Kiev senza dichiarazione alcuna su scopi e carico, ancora un grosso aereo C-17 proveniente direttamente dagli Stati Uniti, poi un C-130J e un altro C-17 decollati da Ramstein in Germania. Intanto un aereo spia americano strategico RQ-4 Global Hawk ha sorvolato per molte ore la fascia di confine Ucraina-Russia monitorando tutto coi suoi sensori dalla portata di 250 chilometri.
 
Il 9 aprile gli Stati Uniti si dicevano “pronti a inviare navi nel Mar Nero per la nuova crisi ucraina”, dopo che la Casa Bianca ha comunicato che “lo spiegamento di forze russe sul confine è il maggiore dal 2014”. E il 13 aprile atterravano a Kiev ancora due C-130 USA, uno proveniente da Riga, in Lettonia, l’altro da Stoccarda.
Nel corso di aprile la tensione era aumentata fino a sfociare nelle espulsioni incrociate di 10 diplomatici russi e 10 americani dalle rispettive nazioni. Il 14 aprile s’è verificato un incidente fra unità navali russe del servizio costiero dell’FSB e ucraine della Guardia Costiera nello stretto di Kerc, unico passaggio nello sbarramento geografico che la Crimea russa pone alla costa ucraina sul Mar d’Azov. Al che il 24 aprile i russi hanno decretato fino al 31 ottobre il blocco dello stretto. Intanto, sempre a fine aprile terminavano le esercitazioni russe, pur mantenendosi cospicui depositi avanzati di mezzi pesanti e munizioni, come quello di Pogonovo, in previsione di nuove manovre.
 
Nelle settimane seguenti, gli Stati Uniti sono tornati ad adombrare un possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO e a parole si sono detti “disponibili alla trattativa sul disarmo”, pur, di fatto, non tenendo conto dei perduranti timori russi originati dal ritiro unilaterale degli USA, fin dal 2019, dal trattato INF che vietava missili a medio raggio in Europa, nonché dal sospetto che la base antimissile americana di Deveselu, in Romania, operativa dal 2016, e quella in fase di completamento, previsto in questo 2022, di Redzikowo, in Polonia, possano occultare missili offensivi Tomahawk, o di futuro tipo a medio raggio, come lo sperimentale PRSM (Precision Strike Missile), che Lockheed Martin ha collaudato più volte nel 2021 e la cui gittata massima, non dichiarata sarebbe “superiore a 499 km”.
 
I russi notano che il modulo di lancio verticale Mk.41 dei missili intercettori SM-3 del sistema imbarcato Aegis, e di quello terrestre Aegis Ashore, nel caso delle suddette basi, è utilizzato anche per i Tomahawk, che così potrebbero essere schierati di nascosto troppo vicini alle frontiere russe. Il 28 maggio 2022, ad aggravare la tensione, Washington affermava che “gli Stati Uniti non torneranno nel trattato Open Skies”, sui “cieli aperti”, che garantiva la sorveglianza aerea reciproca, ma da cui già l’amministrazione precedente, quella di Donald Trump, era uscita nel 2020.
 
Il Cremlino ha risposto ribadendo che “gli USA hanno perso l’occasione di migliorare la situazione della sicurezza in Europa”. Fra il 10 e il 13 giugno, il viaggio di Biden in Europa, in particolare con l’incontro bilaterale col premier britannico Boris Johnson e poi col G7 in Cornovaglia, nonché il summit NATO del 14 giugno, hanno preparato il terreno a una sorta di “chiamata delle democrazie”, in contrasto con l’asse Russia-Cina.
 
Tanto per cambiare, negli stessi giorni la US Navy inviava nel Mar Nero l’incrociatore Laboon, con i suoi 56 Tomahawk, come simbolico messaggio verso Mosca. Già il 12 giugno, prima di incontrare il presidente americano a Ginevra 4 giorni dopo, Putin, intervistato dalla NBC, notava: “Le relazioni con gli USA sono al punto più basso degli ultimi anni. Trump era un uomo straordinario, un uomo di talento, Biden invece è un carrierista”.
 
Biden, dal canto suo, contribuiva senza rendersene conto a preparare i successivi rialzi di tensione, dichiarando: “La Russia non dovrà superare certe linee rosse. Non vogliamo un conflitto, ma reagiremo ad atti ostili. Per l’adesione dell’Ucraina alla NATO, la presenza di truppe russe su parte del territorio ucraino non costituisce un ostacolo. Ma prima di poter entrare nell’alleanza, Kiev dovrà ripulirsi dalla corruzione e soddisfare una serie di requisiti”. Il 16 giugno a Ginevra, al di là delle cortesie diplomatiche, nel summit Biden-Putin permaneva la frattura sui principali punti chiave.
 
Come se non bastasse, la pressione navale della NATO nel Mar Nero tornava ad aumentare dal 23 giugno, quando il cacciatorpediniere britannico Defender sfiorava le coste della Crimea e la base russa di Sebastopoli, suscitando cannonate d’avvertimento da unità navali dell’FSB e anche il sorvolo di un bombardiere Sukhoi Su-24M che ha sganciato in mare bombe pure ammonitrici.
 
La presenza nell’area di due aerei americani da pattugliamento, un EP-3E Aries e un P-8 Poseidon, ha fatto pensare ai russi che l’incidente fosse organizzato per saggiare la loro reazione difensiva. E il 27 giugno la BBC rivelava documenti segreti, misteriosamente “smarriti” presso una fermata d’autobus, da cui s’arguiva che l’incursione della nave inglese era stata volutamente organizzata per provocare Mosca. Il giorno dopo, 28 giugno, iniziava una grossa esercitazione aeronavale nel Mar Nero, la Sea Breeze, attuata da ben 32 nazioni, fra membri della NATO e altri alleati degli Stati Uniti, con 32 navi, 40 aerei e 5.000 militari.
 
Si riaccende la miccia
 
Fra agosto e settembre del 2021 gli Stati Uniti e gli alleati europei (Italia compresa) sono stati letteralmente scioccati dalla palese sconfitta subita in Afghanistan dal governo di Kabul, favorita dal troppo rapido ritiro delle truppe straniere, che ha buttato alle ortiche vent’anni di impegno (con morti e feriti) occidentale contro i talebani. La storica disfatta delle nazioni NATO ha fatto sì che i governi atlantici e la grande stampa si lasciassero sfuggire l’occasione immediata di additare la Russia per le sue colossali esercitazioni Zapad 2021, tenutesi dal 10 al 16 settembre con dispiegamento di ben 200.000 uomini, con 80 aerei e 760 mezzi di terra, fra carri armati e altri veicoli.
 
Partecipavano anche contingenti di varie nazioni come la stessa Bielorussia, sul cui territorio si svolgeva il grosso delle manovre, ma anche rappresentanze di Armenia, India, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Mongolia, Pakistan e Sri Lanka. Pur monitorate dalla NATO, queste manovre non hanno suscitato così tanta preoccupazione come quelle tenutesi tra fine 2021 e inizio 2022, sebbene coinvolgessero un numero superiore di truppe, senza contare che tre anni prima, l’edizione 2018 della Zapad aveva impegnato, pare, addirittura 300.000 uomini.
 
Alle soglie dell’autunno 2021 la tensione Est-Ovest è risultata incentivata dal blocco del North Stream 2, la seconda tratta del gasdotto russo-tedesco che corre sul fondo del Mar Baltico evitando il territorio ucraino.
 
Per la Germania, una notevole risorsa da 55 miliardi di metri cubi all’anno (per tratta) ma di cui gli stessi tedeschi sono stati costretti a privarsi sotto la spinta politica degli Stati Uniti. Il nuovo gasdotto era ormai pronto, in settembre, quando l’agenzia tedesca per le reti, la Bundesnetzagentur, o BnetzA, ha vietato il passaggio del gas con il pretesto della “posizione di monopolio” di Gazprom.
 
E da allora il North Stream 2 è ancora tutt’oggi a secco. Superato intanto, a fatica, lo smacco da parte dei talebani, la NATO tornava a guardare a Mosca ed espelleva per presunto spionaggio 8 membri della delegazione diplomatica russa presso la sede dell’alleanza a Bruxelles, decretando inoltre il taglio da 20 a 10 del numero dei componenti della suddetta rappresentanza. Il 20 ottobre il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha quindi annunciato la “rottura dei rapporti diplomatici con la NATO a partire dal 1° novembre”, spiegando: “Non ci sono più le condizioni di base per lavorare insieme: la Russia sospenderà la sua missione presso l’Alleanza Atlantica, che non è più interessata a un rapporto equo”.
 
E’ stato ai primi di novembre che sono iniziate a rimbalzare sulla stampa americana e occidentale in genere, le prime notizie sul fatto che la gran parte delle truppe mobilitate per l’esercitazione Zapad 2021 erano rimaste dislocate a poche centinaia di chilometri dalle frontiere ucraine, con stime iniziali variabili fra 70.000 e 80.000.
 
Ciò ha fatto sì che il 2 novembre Biden inviasse a Mosca nientemeno che il capo della CIA, William Burns, che peraltro era stato ambasciatore statunitense in Russia dal 2005 al 2008, per ammonire direttamente Putin, del resto in qualche modo suo ex-collega dato il suo passato di ufficiale del KGB. L’impiego di un capo dell’intelligence per una missione diplomatica non è inusuale e già nel 2018 Trump si era avvalso dell’allora capo della CIA Mike Pompeo per preparare le aperture con la Corea del Nord, promuovendolo poi a segretario di Stato.
Ma fra Burns e Putin è probabile che il colloquio riservato sia avvenuto con scambio di reciproche minacce. Nel frattempo, il 12 novembre si apprendeva che “funzionari USA hanno avvisato l’Unione Europea del rischio di invasione russa dell’Ucraina”, esplicitando ormai l’inizio del “secondo round” tuttora in atto. Mosca rispondeva protestando per la partecipazione di bombardieri strategici americani Rockwell B-1B Lancer a esercitazioni nel Mar Nero e inviando a sua volta un paio di Tupolev Tu-160 a volare vicino alla Scozia, sollecitando il decollo su allarme di intercettori Eurofighter Typhoon della Royal Air Force.
 
Gli ucraini, intanto, aumentavano a 90.000 soldati la stima delle forze russe schierate, cifra subito ripresa dai media americani. Poco dopo, il 15 novembre, i russi lanciavano un loro messaggio non verbale dimostrando le loro capacità di guerra spaziale con il primo test balistico reale del missile antimissile e antisatellite A-235 Nudol, che dal poligono di Plesetsk ha raggiunto una quota superiore ai 400 chilometri centrando in pieno un vecchio satellite in disuso in orbita polare, l’ex-sovietico Cosmos 1408.
 
Monito terribile per le forze americane che, in virtù della loro estrema sofisticazione sono anche le più dipendenti al mondo dai satelliti da ricognizione, comunicazione e geoposizionamento. Tutto ciò avveniva nel quadro di tensioni anche fra Stati Uniti e Cina, alleata del Cremlino, motivata dalla questione di Taiwan e anche dalla stipula dell’alleanza AUKUS fra USA, Gran Bretagna e Australia in funzione anticinese.
 
Il 24 novembre il ministro della Difesa Segei Shoigu si è consultato col collega cinese Wei Fenghe in videoconferenza, lamentando l’esecuzione da parte americana dell’esercitazione Global Thunder con cui le forze aeree strategiche americane si sono addestrate all’attacco atomico contro la Russia: “Questo mese almeno 10 bombardieri pesanti americani si sono addestrati alla specifica ipotesi del lancio di ordigni nucleari sulla Russia, durante le esercitazioni Global Thunder, con voli di avvicinamento sia Est che da Ovest”.
 
Il 29 novembre, presiedendo a Riga, in Lettonia, una riunione dei ministri degli Esteri della NATO, il segretario Lens Stoltenberg invitava la Russia “alla de-escalation”. Al vertice l’alleanza concordava sul fatto di “affrontare la maggior espansione della sua difesa collettiva dopo la fine della Guerra Fredda”, menzionando “l’assistenza alla Polonia e alle repubbliche baltiche sui confini con Russia e Bielorussia” e l’aumento a 40.000 uomini della Forza di reazione rapida.
 
Proprio in Lettonia si svolgevano in quegli stessi giorni le esercitazioni NATO Winter Shield 2021, fino al 4 dicembre. Da Kiev si alimentavano voci di un possibile “colpo di stato” orchestrato da Mosca “attorno all’1-2 dicembre”, poi mai verificatosi.
 
D’altronde, all’allarme sui 90.000 soldati russi schierati “a 300 km dal confine ucraino”, il Cremlino rispondeva sostenendo che “l’Ucraina ha dislocato metà di tutte le sue forze armate, 125.000 uomini con armi pesante, nel Donbass, aggravando deliberatamente la crisi”.
 
E il 2 dicembre, nel giorno in cui secondo gli ucraini i russi avrebbero dovuto organizzare un golpe a Kiev, era invece l’FSB ad arrestare in Crimea tre agenti segreti ucraini che avrebbero dovuto far saltare in aria installazioni importanti, come una grande antenna radio per le comunicazioni della Flotta Russa del Mar Nero. Si trattava di Zynovy e Igor Koval (padre e figlio), secondo i russi membri del servizio di sicurezza ucraino SBU, e di Oleksandr Tsylyk, presunto uomo del Direttorato Intelligence del Ministero della Difesa di Kiev.
 
Il 4 dicembre 2021 il Washington Post iniziava a diffondere voci di provenienza della CIA e da foto satellitari, secondo cui gli Stati Uniti stimavano possibile “l’invasione dell’Ucraina per l’inizio del 2022 e su più fronti”, vagheggiando il raggiungimento di una forza di 175.000 uomini scaglionati in “100 gruppi tattici” con carri da battaglia e artiglieria.
 
Il clima in quei giorni iniziava a farsi pesante, col freddo colloquio in videoconferenza fra Putin e Biden il 7 dicembre e la contemporanea (non a caso) attivazione in Alaska del primo esemplare di Long-Range Discrimination Radar (LRDR) alla base aerea Clear. Un nuovo sistema a lunghissimo raggio asservito alla difesa antimissile degli USA e che sarebbe in grado di distinguere le vere testate dalle esche, evitando errori ai missili antimissile di Fort Greely, deputati a fermare gli ordigni provenienti da Russia o Asia.
 
Non aiutava il “summit delle democrazie” organizzato da Biden il 9-10 dicembre come paravento per riaffermare l’egemonia statunitense sul “mondo libero” emarginando Russia e Cina e cercando di far dimenticare la figuraccia in Afghanistan. A rinfocolare la tensione nel Donbass, frattanto, il 12 dicembre, fonti della repubblica do Donetsk hanno denunciato un attacco ucraino a mezzo di droni, che ha ucciso due miliziani filorussi.
 
Le richieste russe
 
Il 15 dicembre 2021 il Ministero degli Esteri russo ha consegnato alla vicesegretaria di Stato americana Karen Donfried, in visita a Mosca, le richieste scritte per una duratura stabilizzazione dell’Europa Orientale. Mosca chiedeva, e chiede tuttora, che venga messo nero su bianco il divieto all’Ucraina di entrare nella NATO, mantenendola stato-cuscinetto, oltre al “ritiro delle forze nucleari” sui rispettivi territori nazionali, “perchè le due potenze non usino i territori di paesi terzi per organizzare attacchi contro l’altra parte” e alla proibizione di missili a medio raggio.
 
Riferimenti, questi, al citato sospetto russo di utilizzo di Deveselu e Redzikowo come basi per Tomahawk o futuri missili a medio raggio più veloci, come il Lockheed PRSM. I russi dicono di puntare a “evitare un confronto militare con l’America, poichè in una guerra nucleare non ci sono né vincitori né vinti”. Fra i dettagli, le richieste comprendono il “mantenere la distanza massima fra le navi e gli aerei delle due parti” e vietare “esercitazioni sopra il livello di brigata vicino ai confini fra Russia e NATO”. Il 18 dicembre il Dipartimento di Stato di Washington cassava le proposte del Cremlino, riassumendo nella formula: “Sì al dialogo con Mosca, ma proposte inaccettabili”.
 
Non solo, l’indomani il giornale tedesco Der Spiegel rivelava che il comandante militare della NATO, generale Tod Wolters aveva annunciato in un briefing riservato l’esatto contrario di ciò che chiedeva Mosca, cioè l’aumento delle forze interalleate in Bulgaria e Romania, con la creazione in ognuno dei due paesi di una brigata di 1.500 soldati inquadrata nella Enhanced Forward Presence.
 
Vedendo che passavano i giorni, ma non giungeva risposta alle proprie richieste, i russi hanno alzato i toni. Il 21 dicembre il viceministro degli Esteri Alexander Grushko ammoniva: “La Russia reagirà in modo proporzionato. Se la NATO installerà sui territori dei suoi membri armi offensive in grado di raggiungere i nostri centri di comando in pochi minuti, noi faremo lo stesso”.
 
Da Mosca, già in quei giorni si lanciava l’allarme su possibili “provocazioni nel Donbass con mercenari americani”, stimando in “120 i mercenari già presenti in Ucraina per l’addestramento delle forze speciali di Kiev”. Alla fine di dicembre si susseguivano, un primo annuncio russo di “ritiro di 10.000 uomini per la fine delle manovre”, sebbene USA e NATO ribattessero che erano ancora schierati oltre 100.000 uomini, e, fra il 16 e il 31 dicembre 2021, lanci ripetuti di missili ipersonici Zircon da unità navali come dimostrazione di forza russa nel settore degli ipersonici, condita dalla pittoresca decorazione da parte di Putin del capo progettista del missile, Boris Obnosov, col titolo di “Eroe della Russia”, corrispettivo odierno dell’antico “Eroe dell’Unione Sovietica”.
Dopo un’infruttuosa telefonata fra Biden e Putin, il presidente americano ha sentito il 3 gennaio 2022 l’omologo ucraino Zelensky, parlandogli di “reazione risoluta” USA in caso di invasione del suo paese, ma nelle stesse ore il portavoce dei ribelli filorussi del Donbass, Ivan Filiponenko, parlava di concentramenti di truppe ucraine a Valuyskoye, lungo la linea di contatto, “per organizzare un punto di designazione bersagli per l’artiglieria, in previsione di un’offensiva”.
 
Lo stesso giorno, a riconferma del clima incerto anche nelle alte sfere, le cinque potenze nucleari del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ossia Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, si premuravano di firmare un memorandum comune che recitava: “Dichiariamo che non ci possono essere vincitori in una guerra nucleare, che non dovrebbe mai essere scatenata”. Il gennaio del 2022 era anche caratterizzato dalla rivolta in Kazakhstan contro il presidente Qasim Jomart Tokayev, fomentata secondo i russi da “forze esterne infiltrate nel paese”.
 
Da molti considerata una possibile azione di disturbo per “prendere Putin alle spalle” sottraendo il Kazakhstan alla sfera d’influenza del Cremlino, la rivolta veniva in pochi giorni debellata anche grazie a truppe russe e di altri paesi della CSTO, l’Organizzazione di Sicurezza che comprende, oltre alla Russia, anche Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tagikistan.
 
L’8 gennaio, sulla scia della rivelazione da parte inglese di un incidente segreto avvenuto “nel tardo 2020” a 320 km al largo della Scozia, dove la fregata Northumberland della Royal Navy sarebbe entrata in collisione con “sottomarino d’attacco russo captato dai sonar”, il nuovo capo di stato maggiore delle forze britanniche, ammiraglio Sir Tony Radakin, ha minacciato che “se i russi taglieranno i nostri cavi di comunicazione sottomarina, sarà considerato un atto di guerra”.
 
Pochi giorni dopo, fallivano i colloqui del 10 e 12 gennaio, in bilaterale a Ginevra e in ambito Russia-NATO a Bruxelles, fra i capi delegazione americano e russo, la vicesegretaria di Stato Wendy Sherman e il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov. Così come il summit Russia-OSCE del 13 gennaio. Intanto la stampa russa dava risalto con foto e video al primissimo volo dalla pista di Kazan, il 12 gennaio, del primo bombardiere strategico Tupolev Tu-160M interamente di nuova costruzione.
 
La stampa americana, intanto, ha seguitato a evocare scenari di totale rottura con Mosca, come quando il 17 gennaio il New York Times ha rilanciato sull’ipotesi di armi nucleari russe dispiegate “vicino alle coste americane”, non solo perchè basate in futuro a Cuba o Venezuela, ma anche per l’avvicinamento dei sottomarini SLBM e in particolare dei misteriosi e colossali siluri-droni Status-6 Poseidon, con testata da 100 megatoni accreditata della capacità di creare maremoti sulla costa USA.
 
E mentre il 21 gennaio Blinken e Lavrov si incontravano inutilmente a Ginevra, dall’America il Bulletin of the Atomic Scientists, rendeva noto che “anche nel 2022 manterremo il simbolico orologio dell’Apocalisse (Doomsday Clock) alle ore 23.58.20, solo 100 secondi prima della mezzanotte”. E’ dal 2020 che l’associazione scientifica mantiene la lancetta così vicina all’ipotetico scoccare della guerra nucleare, il peggior livello di sempre, anche peggio che nei momenti più cupi della Guerra Fredda.
 
Quasi a corroborare i timori degli scienziati atomici, e sempre come messaggio verso il Cremlino, alla fine di gennaio l’US Strategic Command, che dalla sede nella base aerea Offutt di Omaha, in Nebraska, comanda la “triade” atomica intercontinentale (missili da rampe terrestri, ordigni sganciati da bombardieri e missili lanciati da sottomarini) ha tenuto le esercitazioni Global Lightning per provare la catena di comando e le comunicazioni fra basi e reparti, nonché la prontezza operativa per prepararsi, su ordine tempestivo, a pigiare i bottoni dell’Apocalisse.
Gli statunitensi hanno collaudato i nuovi terminali di comunicazione detti FAB-T, in grado di collegarsi ai satelliti Milstar anche in condizioni di estesa guerra nucleare e di distruzione di ogni altra telecomunicazione.
 
Ciò garantisce alle forze nucleari il contatto coi generali e col presidente degli Stati Uniti. Secondo Newsweek, a gennaio 2022 i terminali FAB-T installati erano 37 in basi terrestri e 50 su aeroplani d’attacco nucleare o da ricognizione. Altri sistemi testati sono l’MMPU, il sistema di comunicazioni delle basi dei missili Minuteman III, e il Common Very Low Frequency, a bassa frequenza, imbarcato sui bombardieri invisibili B-2 Spirit. E’ stato provato anche il Presidential and National Voice Conferencing System, con cui il presidente USA può parlare in videoconferenza, a viva voce, coi reparti atomici.
 
Manovre pericolose
 
Verso la fine di gennaio 2022, è emersa la posizione più moderata della Germania in ambito NATO, dato il suo bisogno di gas russo e il suo interscambio con Mosca. Gli USA hanno dovuto spedire a Berlino il capo della CIA Burns per spronare personalmente il cancelliere Olaf Scholz a tenere ancora bloccato il gasdotto North Stream 2, avviando nel contempo trattative con altri paesi produttori di gas, come il Qatar, per trovare metano alternativo a quello russo a beneficio degli alleati europei, ma sperando anche di poter aumentare le loro quote di esportazioni verso l’Unione Europea del gas liquefatto americano trasportato via nave.
 
Ma da subito emergeva la sostanziale insufficienza delle alternative, dato che il Qatar e altri estrattori devono servire primariamente nazioni molto “energivore” come il Giappone o la Corea del Sud e che aumentare l’estrazione e il trasporto si può fare in tempi lunghi, non nell’immediato. Biden ha poi annunciato il rafforzamento del dispositivo militare nei paesi NATO dell’Est, dapprima con “un massimo di 8.500 soldati”, fra cui 2.500 uomini in Polonia e 1.000 di un battaglione di veicoli da combattimento ruotati Stryker in Romania.
 
Il 30 gennaio, a una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dedicata alla crisi, volavano parole grosse fra l’ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield e l’ambasciatore russo Vasily Nebenzya, il quale le ha rinfacciato il precedente del 2003, quando l’allora segretario alla Difesa Colin Powell mentì sulle armi biochimiche di Saddam Hussein per giustificare l’invasione americana dell’Iraq.
 
Nelle stesse ore passavano dal Canale di Sicilia, dopo essere entrate in Mediterraneo dallo Stretto di Gibilterra 6 navi da sbarco russe, cinque della classe Ropucha e una della nuova classe Ivan Gren. Le unità Ropucha (Olenegorsky Gorniak, Kaliningrad, Minsk, Georgi Pobedonosets e Kondopoga) sono vecchie, ma rimodernate. Lunghe 112 metri, dislocano 4080 tonnellate e possono portare 10 carri armati pesanti e 340 soldati ciascuna, o in alternativa 3 carri pesanti, 8 carri leggeri e 12 autoblindo anfibie BTR.
 
La nave classe Gren, la Pyotr Morgunov, è invece nuovissima, operativa dal 2018, lunga 135 metri e dislocante 6.600 tonnellate. Può far sbarcare 13 carri pesanti, o 40 blindo BTR, e 300 soldati. In totale, la flottiglia porterebbe forse 1.500 soldati e 60 carri.
 
Sono state sorvegliate da aerei americani, come i pattugliatori P-8 Poseidon di base a Sigonella o i caccia F-18 Hornet imbarcati sulla portaerei Harry Truman, affiancata dal sottomarino nucleare Georgia, dalla portaerei italiana Cavour e dalla fregata tedesca Schleswig-Holstein. La squadra russa si è poi congiunta con altre navi russe provenienti dal Mar Rosso, via canale di Suez.
Sono l’incrociatore Varyag, il cacciatorpediniere Admiral Tributs e il rifornitore Boris Butoma, reduci da un’esercitazione nell’Oceano Indiano insieme a navi di Cina e Iran. Insieme ad altre unità, per un totale di 15 navi e 40 aerei, i russi hanno poi condotto dal 16 febbraio un’ampia esercitazione, a cui ha presenziato perfino il ministro della Difesa Sergei Shoigu, durante la quale alcuni caccia russi Su-35 hanno intercettato e sfiorato con passaggi ravvicinati un ricognitore statunitense P-8 Poseidon, che evidentemente spiava i movimenti delle navi russe.
 
Fra gennaio e febbraio, del resto, la flotta russa ha mobilitato 140 navi e sottomarini di tutte le sue flotte, per manovre in alto mare. E mentre unità russe s’allenavano al largo dell’Irlanda, il 1° febbraio ben 4 bombardieri strategici nucleari russi Tupolev Tu-95 hanno volato vicino alla Scozia e sono stati intercettati e allontanati da caccia britannici Eurofighter Typhoon decollati dalla base della RAF di Lossiemouth. Anche sul fronte del Pacifico fervono le manovre russe. Nelle acque delle isole Curili la flotta di Mosca ha scoperto il 12 febbraio “un sottomarino americano”, si dice classe Virginia, che forse spiava le manovre.
 
Stando al Ministero della Difesa russo, l’unità subacquea USA avrebbe ignorato gli appelli radio che le intimavano di “emergere immediatamente”. E’ intervenuto il cacciatorpediniere Marshal Shaposhnikov, unità classe Udaloy da 7.000 tonnellate e lunga 163 metri. Per Mosca, la nave “ha usato i relativi mezzi e il sottomarino ha lasciato le acque russe alla massima velocità”. Forse, per “relativi mezzi” i russi intendevano una bomba di profondità intimidatoria?
 
A Kiev, intanto, sono giunte forniture di armi anglo-americane, specie i missili anticarro Javelin, dotati di doppia carica cava in tandem per poter perforare, in due rapidissime fasi, sia le piastrelle di corazza reattiva aggiuntiva applicate sui carri armati russi, sia la vera e propria corazza dello scafo. Ma non mancano droni turchi Bayraktar TB-2, in parte già acquisiti dall’esercito ucraino, in parte promessi il 3 febbraio dal premier turco Recep Erdogan e dal suo ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu nel corso di una visita a Kiev.
 
Erdogan in questa crisi sta tentando di condurre un gioco tutto suo, avendo buoni rapporti sia con i russi, da cui compra i missili antiaerei S-400 in barba agli strali della NATO, sia con gli ucraini, e ancora il 16 febbraio ha reso noto di aspirare a fare da mediatore tra le due nazioni slave. Il 4 febbraio Putin, volato a Pechino ospite del presidente cinese Xi Jinping per la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi Invernali, firmava con lui nuovi contratti strategico-economici, rinsaldando l’asse Russia-Cina che, a detta di molti commentatori è stato, nell’arco dell’ultimo ventennio, il risultato finale della politica di emarginazione del colosso russo dall’Europa, voluta primariamente da Stati Uniti e Gran Bretagna.
 
La tensione era così alta che il 5 febbraio l’agenzia Bloomberg lanciava su internet per errore il flash “la Russia invade l’Ucraina”, ritirandolo poco dopo imbarazzata. Proprio l’inizio delle Olimpiadi Invernali ha contribuito a diffondere l’opinione che la Russia non avrebbe mai attaccato l’Ucraina prima della fine dei giochi, il 20 febbraio, per non violare la consuetudine della “tregua olimpica” auspicabile per tutti i conflitti, e soprattutto per non fare uno sgarro all’amico Xi.
 
Mentre si aprivano i Giochi di Pechino, atterravano a Jasionka, in Polonia, i primi dei 1.700 soldati americani dell’82a Divisione “Airborne” inviati da Washington di rinforzo a Est, unitamente a 1.000 d’un battaglione di Stryker attesi in Romania e 300 destinati alla Germania.
 
I militari ucraini, intanto, attuavano esercitazioni perfino nella “zona morta” dell’area radioattiva attorno a Chernobyl, per la precisione presso la città fantasma di Pripjat. L’esercito ucraino ha potuto così compiere esercitazioni in zona urbana con munizioni vere. E il ministro della Difesa Oleksiy Reznikov sosteneva che “la zona radioattiva dovrebbe fare da scudo” a una vasta parte del confine con la Bielorussia: “E’ una zona difficile da attraversare, con foreste, paludi e fiumi ed è ancora radioattiva”.
 
I russi stavano in quel momento rafforzando il loro schieramento in Bielorussia per ulteriori manovre previste dal 10 al 20 febbraio, il che portava ormai la NATO a valutare, su tutta la fascia di confine russo e bielorusso con l’Ucraina, almeno 130.000 uomini.