Enti locali, un macigno chiamato derivati di Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore del 7 settembre 2007
30 ottobre 2007
Le cifre sono da capogiro. Secondo i calcoli della Corte dei conti, l'ammontare complessivo di capitale "swappato" nel 2006 solo dalle Regioni è stato di quasi 10,5 miliardi di euro, con un incremento di 4,2 miliardi rispetto all'anno precedente. Di norma, la cifra di ogni collocamento effettuato sui mercati internazionali viene strombazzata ai quattro venti, presentata come una sorta di scommessa degli investitori stranieri basata sulla solidità economica dell'ente territoriale. Nel maggio del 2006, annunciando il più grande programma di emissione obbligazionaria mai attivato da una Regione italiana, il dirigente di Merrill Lynch Amir Hoveyda esaltò lo status di "rifugio sicuro" per gli investitori internazionali della Regione Campania. Tre anni prima, l'allora governatore della Puglia Raffaele Fitto spiegò che il collocamento del prestito obbligazionario da 600 milioni era attribuibile all'«affidabilità finanziaria della Regione». In nessun road show si pone invece mai l'accento sul fatto evidenziato tre mesi fa dalla Corte dei conti, e cioè che queste operazioni rappresentano un'accumulazione di debito che peserà sulle generazioni future. Nonostante normative intese a evitare posticipi di scadenza e profili crescenti nei flussi di pagamento che facciano slittare l'onere del rimborso su esercizi futuri, per gli amministratori il vantaggio più immediato di queste operazioni è infatti proprio quello di fare cassa senza rappresentarla come passività nei bilanci e di spalmare il debito su periodi più lunghi del ciclo politico. Inoltre, con i derivati gli enti territoriali si accollano a volte dei rischi finanziari - la cosiddetta liability - che non solo non vengono messi mai a bilancio, ma spesso non vengono neppure capiti. Dall'esposizione degli enti territoriali deriva l'altro aspetto da tutti ignorato e cioè quello dei profitti indiretti delle banche. «Grazie ai derivati, i guadagni che certe banche sono riuscite a fare con gli enti territoriali italiani non sarebbero I stati possibili da nessuna altra parte», commenta un esponente di un'importante banca europea che chiede l'anonimato, secondo il quale il settore pubblico italiano può produrre profitti di svariati punti percentuale sul capitale contrattato - il cosiddetto nozionale - e cioè il doppio, triplo o anche più della norma. «Ci sono state operazioni in cui in Italia qualcuno è addirittura arrivato a sfiorare anche i dieci punti, un margine impossibile da raggiungere in qualsiasi altro Paese al mondo per questo tipo di attività», dice un altro banchiere di base a Londra. Non esistono dati pubblici su quanto rende il settore delle local authorities italiane alle banche. Consultando banchieri che hanno lavorato o lavorano in tre delle maggiori banche d'investimento del mondo, «II Sole-24 Ore» ha però calcolato che negli ultimi due anni la media è oscillata tra i 350 e i 500 milioni di euro i all'anno. Profitti da centinaia di milioni non sono ovviamente né un abuso né un'anomalia in finanza. Ma in questo caso le nostre fonti riconoscono che non è il mercato a permettere a volte profitti particolarmente alti, bensì la disinformazione e a volte addirittura l'intesa tra le parti interessate. Libertà d'iniziativa «La nostra stima è che un buon 40% dei profitti con gli enti territoriali italiani derivano dall'uso di metodi o criteri che a noi non piacciono», spiega un banchiere di una delle top bank del mondo. «Per esempio, noi ci siamo sempre rifiutati di pagare cosiddette success fee di centinaia di migliata o addirittura milioni di euro a intermediari che hanno offerto di portarci un affare con un ente». Secondo la normativa italiana, gli enti territoriali sono liberi di emettere titoli obbligazionari e far ricorso a strumenti derivati con un piano di rimborso ammortizing - e cioè come quello dei mutui convenzionali, con un piano di ammortamento che permette di pagare un po' alla volta sia capitale che interessi - oppure con rimborso del capitale alla scadenza, cioè la cosiddetta struttura bullet. In questo secondo caso, però, per garantire che vi siano comunque accantonamenti spalmati lungo tutto il periodo in questione, la legge prevede l'obbligo di effettuare uno swap per trasformare il titolo obbligazionario bullet in uno ammortizing, il che comporta la costituzione di un fondo di ammortamento reinvestibile - il sinkingfund. Per le banche la differenza tra un'emissione ammortizing o un'emissione bullet è sostanziale. Nel primo caso i i guadagni derivano dalle commissioni di collocamento, che solitamente si tengono sotto il singolo punto percentuale del nozionale (tra lo 0,30% e lo 0,40% a seconda della scadenza). Nel secondo caso, oltre alle commissioni di collocamento, le banche hanno un profitto aggiuntivo creato dalla strutturazione e gestione del sinkingfund. «Col sinkingfund l'ente si assume un rischio creditizio equivalente al valore del capitale immesso nel fondo, lasciando alla banca la libertà di inserire e sottrarre obbligazioni dal paniere degli investimenti consentiti dal contratto. In più permette alla banca di tenere per sé il differenziale tra i profitti che fa e il tasso della cedola da pagare all'ente», spiega un banchiere, che aggiunge: «In altre parole, se va molto bene, la banca fa un sacco di soldi, se va molto male l'ente ne perde una montagna. Come è successo con l'Acquedotto Pugliese, dove la Puglia ha perso 20 milioni di euro». «Più è alto il nozionale e più lunga è la durata del bond, maggiore è il valore del sinkingfund per la banca. Se non proprio di un assegno in bianco, si tratta in pratica di un'opzione a investire soldi altrui per due o tre decenni con copertura del rischio e col diritto di incassare buona parte dei profitti», conferma un altro banchiere. «Il che in sé non sarebbe né anomalo né scorretto. Purché quell'opzione non sia data via gratis, perché ha un valore di mercato. Non a caso, questo valore viene regolarmente contabilizzato dalla banca come profitto al momento stesso dell'emissione». Eppure, quando sono interrogati sui costi di un'operazione, gli ammministratori locali sottolineano sempre di aver strappato tassi bassi pagando commissioni irrilevanti. I valori di mercato del rischio creditizio offerto dall'ente - che di i fatto costituisce un costo aggiuntivo - e i profitti fatti dalle banche sui derivati non vengono invece mai menzionati. Né tantomeno viene menzionato che le coperture sul rischio cedute alle banche sono una forma di espozione e di potenziale passività fuori bilancio. Dumping sullo spread «In Italia si verificano a volte situazioni del tutto artificiose, che di fatto contribuiscono a creare un falso mercato. Capita infatti che le banche facciano dumping sullo spread dei bond, offrendo tassi molto più bassi di quanto il mercato non giustificherebbe perché poi sanno di potersi rifare sui derivati», aggiunge un altro banchiere. «Se si togliesse l'impalcatura dei derivati da talune operazioni, i tassi offerti agli enti con un rating non particolarmente buono sarebbero molto più alti». Quello che serve, a detta di tutti gli esperti consultati, e una maggiore trasparenza che ridurrebbe i costi delle operazioni ed eliminerebbe i profitti abnormi favorendo le banche più brave e virtuose. Il problema è che si tratta di operazioni così complesse che spesso gli stessi dirigenti dei dipartimenti del bilancio locale non sono in grado di valutare fino in fondo (ancor meno di loro lo sono i politici che a volte si impegnano per indirizzare l'ente verso una specifica soluzione). «Non si può pensare che il responsabile del bilancio di un ente territoriale abbia il know how e gli strumenti tecnici comparabili a quelli di un banchiere. E non essendo sufficientemente qualificato, non può quantificare il rischio e quindi il valore di un prodotto strutturato complesso come un sinking fund», spiega Marco Bigelli, professore di Finanza aziendale della Università di Bologna e studioso del settore. «Questo si può tradurre in un danno per i cittadini, perché gli enti territoriali danno alle banche coperture di rischio che hanno valori anche significativi. Prontamente monetizzati dalle banche». A parte l'asimmetria di competenza, la mancanza di trasparenza è dovuta altresì al fatto che si tratta di un tema ostico sia per i mass-media che per l'opinione pubblica. Probabilmente anche per que-sto, in quel paio di occasioni negli ultimi cinque o sei anni in cui qualcuno ha tentato di lanciare l'allarme nessuno lo ha ascoltato. Profìtti elevati Nel settembre scorso, è stata una banca concorrente a denunciare i rischi e i costi eccessivi di un'operazione di ristrutturazione del debito da 293 milioni di euro conclusa dalla Regione Calabria il 21 giugno 2006 con la banca giapponese Nomura. La banca Barclays presentò al dirigente responsabile del bilancio della regione una "Analisi dello swap Nomura", secondo la quale nel giorno stesso dell'emissione il «valore di unwinding dello swap», e cioè il costo che avrebbe dovuto accollarsi la Regione per annullare l'operazione, era di 25,5 milioni di euro. Poiché per una banca il costo di copertura di un'operazione del genere non supera normalmente il paio di milioni di euro, secondo i calcoli di Barclays voleva dire che, al momento stesso in cui venne conclusa l'operazione, lo swap rendeva a Nomura oltre 20 milioni di euro. Sarebbe un margine di quasi 1'8% e quindi assolutamente abnorme. Ciò nonostante, la Regione Calabria non risulta aver mai fatto nulla per ridiscutere l'accordo. Da noi interrogata sulla faccenda, Nomura ha dichiarato di non voler «far commenti su singole transazioni», ma ha tenuto a precisare che «la stima del profitto è completamente sbagliata». In Lombardia, dopo la maxi-emissione da un miliardo di euro conclusa della Regione con Merrill Lynch e Ubs cinque anni orsono, fu un consigliere dell'opposizione, il socialista Roberto Biscardini, a sollevare dubbi sui costi nascosti dell'operazione. Biscardini commissionò un'analisi a una società di consulenza secondo la quale «l'utile delle banche per la stipula delle relative operazioni, che si traduce di riflesso in un costo per la Regione» era stato di 35,5 milioni di euro. «L'operazione complessiva... comporta per la Regione un costo almeno pari a 35,5 milioni di euro, l'assunzione di un rischio di mercato abbastanza significativo e l'assunzione di un rischio creditizio abbastanza significativo», concludeva il rapporto commissionato da Biscardini. Quando «II Sole-24 Ore» ha chiesto spiegazioni a un banchiere protagonista di questa operazione, la sua risposta è stata: «Quel profitto era più che legittimo, vista la portata dell'operazione e quindi il rischio enorme che comportava. Anzi, semmai era pure poco». Secondo banchieri da noi consultati, questa risposta è però inadeguata. «L'unico rischio vero per le banche era quello di inadempienza della Regione Lombardia, ipotesi altamente improbabile», ci ha spiegato uno di loro. «Se quell'operazione avesse veramente costituito un rischio più che un'opportunità, Merrill Lynch e Ubs l'avrebbero condivisa con altre banche, cosa che invece non hanno fatto pur di gestire quel sinkingfund da soli». Il ruolo delle agenzie di rating All'epoca, il consigliere Biscardini ritenne opportuno allertare Romano Colozzi, che era l'allora assessore alle Finanze della Regione, e lo rimane tuttora. «Con quei documenti in mano andai da Colozzi e gli dissi: se pensi che ti hanno fregato, ti suggerisco di rimediare. Se invece sapevi che i margini erano questi o comunque pensi che siano legittimi, sei libero di non far niente», ricorda oggi Biscardini. «E non fu mai fatto niente». Per chiedere spiegazioni, «II Sole-24 Ore» ha contattato l'ufficio dell'assessore Colozzi, che ci ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Alle analisi e richieste di informazione all'epoca formulate sono stati forniti tutti i chiarimenti necessari che avevano soddisfatto gli interlocutori, non avendo essi formalizzato ulteriori perplessità. Regione Lombardia non ritenne quindi di rinegoziare alcunché proprio perche convinta della bontà dell'operazione nel suo complesso, incoraggiata dai giudizi che le agenzie di rating avevano formulato sull'emissione e dalle valutazioni di prestigiosi operatori del settore... Nell'ottobre 2002 tale operazione tagliò diversi traguardi di rilievo... - stabili un benchmark sulla scadenza trentennale in dollari addirittura prima della Repubblica Italiana (che seguì pochi mesi dopo)». Profitti da decine di milioni di euro a botta spiegano come mai le banche abbiano interesse a che le emissioni siano di tipo bullet e non ammortizing. Infatti in Italia la stragrande maggioranza delle emissioni lo sono finora state. Anche perché ci sono stati in passato benefici fiscali relativi alla retrocessione agli enti locali di parte della ritenuta sugli interessi delle obbligazioni. Per assicurarsi che l'emissione sia bullet, molte banche spacciano per verità quello che i tecnici - e in alcuni casi anche i banchieri - riconoscono essere una forzatura, e cioè che l'emissione ammortizing è difficile da collocare sul mercato. «Le banche non hanno affatto problemi a collocare un bond ammortizing. Tanto più che in Europa gli investitori sono cinque o sei. Basta chiamarli, presentare il credito, informarsi sullo spread, cioè il differenziale, al quale sarebbero disposti a investire su quel nome», dice una delle nostre fonti. «Invece agli amministratori dicono che conviene fare bullet, magari anche in valuta, così si deve fare un altro swap». Il rischio di abusi Per una verifica abbiamo chiesto a un altro banchiere se l'emissione ammortizing è più difficile da vendere. «No. Si vende tanto l'una quanto l'altra. Dal punto di vista della riuscita dell'operazione è indifferente» è stata la sua risposta. «Ci stiamo interrogando anche noi se bullet sia effettivamente più appetibile. Anche perché la legge le prevedeva per cercare di allargare la platea di investitori, ma questo non è successo», aggiunge un alto funzionario del Tesoro. Il rischio di abuso nei derivati è da tempo al centro dell'attenzione del ministero di Via XX Settembre, che nella Finanziaria del 2007 ha voluto inserire l'obbligo di comunicazione preventiva di tutte le operazioni derivate fatte dagli enti territoriali. Ma così com'è scritta, la legge non richiede la comunicazione dei dati più significativi - quelli dei sinking fund. Quindi il problema, almeno per ora, rimane. Una soluzione potrebbe essere quella di dare agli enti territoriali un servizio centralizzato che possa valutare e prezzare i prodotti derivati a loro offerti, come suggerito dal professor Bigelli. In questo modo, sia gli amministratori che l'opposizione politica potrebbero essere sempre consapevoli di quello che viene fatto e di chi guadagna cosa. Questa proposta è ritenuta anche da altri esperti consultati da «II Sole-24 Ore» come una sorta di uovo di Colombo che nessuno avrebbe motivi legittimi per ostacolare, ma che non è stata finora realizzata. «In teoria gli unici ad avere interesse a bloccare una proposta del genere sono i banchieri più famelici, gli amministratori meno trasparenti e i loro amici o associati esterni a cui molte banche pagano commissioni di introduzione milionarie», commenta una delle nostre fonti, in-troducendo così il tema della puntata di domani, quella in cui inizieremo ad affrontare il nodo dei consulenti che operano come trait d'union tra le banche e le amministrazioni locali.
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