ECCO CHE ARRIVA L'AMERICA. OPPURE NO – di Paolo Franchi da Il Riformista del 23 aprile 2007

27 aprile 2007

ECCO CHE ARRIVA L'AMERICA. OPPURE NO – di Paolo Franchi da Il Riformista del 23 aprile 2007

Democrat. un giudizio (provvisorio) sul partito che sta nascendo

Tra i problemi del Partito democratico alla stato (quasi) nascente non c'è di sicuro, almeno per il momento, quello di non godere di buona stampa. Tanto che, a voler prendere sul serio tanti commenti entusiasti letti e sentiti in questi giorni, bisognerebbe dire che Ds e Margherita, nei loro congressi d'addio, hanno posto le basi non solo per un nuovo, grande soggetto post-ideologico, ma anche per una rapida evoluzione, in senso inevitabilmente bipartitico, nuova legge elettorale permettendo, del sistema. In sostanza: mentre molti, e noi tra questi, nemmeno se ne accorgevano, persi come si era a baloccarci attorno a questioni e questioncelle dall'insopportabile retrogusto novecentesco, stava arrivando l'America. Secondo le previsioni (o le prescrizioni) formulate in apertura delle assise della Quercia dal direttore del Corriere della sera. E come in fondo si conviene, se vuole uscire dalla sua eterna condizione di crisi, al paese per tanti aspetti più americanizzato dell'Europa continentale.
Sarà. Noi ci consentiamo di avere molti dubbi e molti interrogativi, che i congressi non hanno sciolto, e nemmeno potevano sciogliere, ma ai quali il Pd, quando di qui a qualche mese prenderà corpo, dovrà pure aver individuato delle risposte. Insistiamo, e non solo per tigna, su una questione che notoriamente ci sta a cuore, quella della collocazione internazionale del nuovo partito. Mai nel Pse (tutt'al più, ci mancherebbe, con il Pse), come giura solennemente Francesco Rutelli, e con lui tutti i margheritini di ogni specie e confessione? O prima o poi, più prima che poi o più poi che prima, nel Pse, come continua ad assicurare, ma con accenti più flebili e formulazioni non propriamente chiarissime Piero Fassino? Può darsi che, a metterlo giù così, il dilemma non sia interessantissimo. E però fa qualche impressione (torniamo per un attimo agli osservatori entusiasti) leggere tante appassionate esortazioni a non farsi riacchiappare dai «fantasmi socialisti», e soprattutto tante dotte spiegazioni di come e perché il socialismo europeo abbia a dir poco il fiatone, e convenga andar oltre, e anzi riscoprire le nostre italiche, connaturate virtù oltriste, per cambiar le faccia della politica non solo qui da noi, ma in tutta Europa.
Anche se sta arrivando l'America, fa qualche impressione (e stimola anche qualche riflessione) pure il modo in cui questi appelli sono ascoltati e raccolti. Con aperta soddisfazione dalla Margherita, si capisce. Con imperturbabile tranquillità da molti Ds, e questo si capisce un po' meno, visto che qualche sofferenza in più di fronte alla prospettiva di ritrovarsi fuori, o nel migliore dei casi solo nei paraggi, della casa socialista i Ds dovrebbero pure provarla. In fondo, non è solo di un gruppo parlamentare a Bruxelles, ma di una questione identitaria che si parla. O no? Al congresso di Firenze sull'argomento si è in sostanza preferito glissare (anche per non suscitare ancor più fieri “non possumus” da parte della Margherita). Tranne che in un intervento, forse il più applaudito e di sicuro il più coerentemente democrat e il più coerentemente “americano”, quello di Walter Veltroni. Che per motivare l'assoluta irrilevanza, a suo giudizio, della questione non si è limitato a rilevare che Gandhi e Luher King non erano socialisti, ma ha ricordato pure, e giustamente, che non lo erano, e proprio non volevano esserlo, né Occhetto né i ragazzi dell'89, tanto è vero che nel nome del nuovo partito non vollero, e non solo per via di Craxi, alcun richiamo al socialismo, ma preferirono chiamarlo democratico, seppure di sinistra.
Chi scrive non fu d'accordo allora con quella scelta, e tuttora ritiene a dir poco sconsiderato considerare il socialismo un cane morto o un inutilmente pesante bagaglio novecentesco. Ma non può non riconoscere alla posizione del sindaco di Roma, che la pensava così fin da quando, poco più che ragazzo, riusciva a tenere insieme Enrico Berlinguer e i Kennedy, una limpida coerenza. È vero che i Ds ormai quasi non ci sono più, e da ieri, con l'esclusione di chi non ci sta, «siamo tutti democratici», bipolari e bipartitici. Ma la domanda rimane: gli altri, quelli che a Firenze hanno glissato, sulla storia e sull'identità del partito che chiude i battenti (e quindi su quello che intendono portare nel partito nuovo) la pensano come lui?

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