DRAGHI, LA BCE, E LA POLITICA DEL QUANTITATIVE EASING: TRA MONETARISMO E KEYNESISMO – UNA LETTURA DI DUE TEORIE A CONFRONTO di Alberto Angeli
10 marzo 2017
Da parte della Banca Centrale Europa (BCE) continua il percorso sulla strada della politica monetaria “super espansiva”. Il riscontro è dato dal “ Il Quantitative Easing (QE)” di cui si parla molto in questi ultimi tempi, mediante il quale la BCE immette sul mercato rilevanti flussi monetari acquistando, come contro valore, titoli del debito pubblico e altri strumenti finanziari di bassa qualità come gli ABS (Asset Backed Securities). Attraverso questo strumento, le banche europee liberano i propri bilanci da operosità portatrici di rischi mediamente elevati e ciò in cambio di liquidità fresca che, al momento, possiamo solo attendere come verrà impiegata.
La BCE, attraverso le parole del suo Presidente Mario Draghi, difende il QE sulla base di una ipotesi empirica al fondo della quale si prospettano di due obiettivi: primo, portare il sistema al di fuori della deflazione; secondo, creare le condizioni per la ripresa dello sviluppo economico e dell’occupazione nel vecchio continente.
La domanda che molti economisti ed opinionisti economici si pongono è: se la caratteristica della politica seguita dal Presidente del BCE sia di natura prevalentemente monetarista, ovvero, mantenga una certa linea di affinità con le tesi Keynesiane. Un confronto fra il pensiero del fondatore della teoria monetarista, Friedman e il pensiero di Keynes, diviene all’uopo interessante, anche ai fini di accendere una luce sul fenomeno dell’inflazione e della disoccupazione, punto, quest’ultimo, fondamentale per il nostro Paese.
Ciò che lega il pensiero economico di Friedman e quello di Keynes, evidenzia una difficoltà da analizzare dal punto di vista teorico. D’altro canto si deve considerare che anche lo stesso Friedman alterna espressioni di deciso rifiuto della teoria Keynesiana, non rinunciando però a tentativi di avvicinamento ad essa mediante elaborazioni ricondotte poi a sintesi.
Dalle letture dei lavori di maggiore importanza di Friedman, a cagione forse dei miei limiti, non rilevo un diretto legame dello stesso alla cosiddetta tradizione orale della scuola di Chicago, questo per il fatto che dalla lettura di quei testi è possibile rilevare nel suo pensiero tracce dell’influenza sulle teorie Friedmaniane dell’opera di Keynes.
Eppure, è incontestabile, che i tra i due le differenze risultino rilevantissime, in specie su alcuni elementi fondamentali: 1) la funzione dell’offerta di moneta nel sistema economico; 2) il procedimento di trasmissione degli effetti di una variazione della quantità di moneta sulle variabili reali e monetarie; 3) la rilevanza attribuita alla politica monetaria e alle altre forme di politica economica; 4) la illustrazione del fenomeno della disoccupazione; 5) la considerazione prestata al problema dell’inflazione.
In termini propri, le rilevate diversità possono riferirsi non tanto alla comparazione del pensiero dell’uno, Friedman, con quello dell’altro, Keynes, e le più estese interpretazioni solidificatesi attorno all’opera di Keynes da parte dei suoi seguaci. Tuttavia, se pur sinteticamente e schematicamente, si può pervenire ad una lettura di tali differenze.
L’offerta di moneta costituisce la diversificazione dei due approcci. Alla base della teoria monetaria di Friedman troviamo la stabilità della relazione fra quantità di moneta offerta e livello del reddito nominale – o, meglio precisata, la stabilità della velocità di circolazione della moneta, mentre, per Keynes, viene sottolineata la relazione tra reddito nominale e investimenti o le spese autonome piuttosto che il rapporto tra reddito monetario e lo stock di denaro. Friedman, insiste nel suo approccio marcandone la validità, ricorrendo a numerose osservazioni statistiche, suscitando però immediate risposte da parte di importanti autori Keynesiani.
Se ci soffermiamo ad esaminare il meccanismo di trasmissione degli effetti di una variazione, in ipotesi l’aumento della quantità di moneta, per Friedman, si tratta propriamente di un aumento del tasso di incremento della quantità di moneta comparativamente al tasso di incremento dell’output; per Keynes e i suoi seguaci, tale approccio produce effetti diretti sul livello del tasso di interesse, determinandone una diminuzione che, nella relazione dei due momenti, favorisce un aumento degli investimenti, trasmettendosi poi sulla domanda effettiva inducendone un aumento. Si verifica così un aumento del prodotto e dei prezzi ( nel caso non sia stata raggiunta la piena occupazione) invero, solo un aumento dei prezzi ( qualora si raggiunga la piena occupazione). Viceversa, per Friedman, l’aumento dell’offerta di moneta, determina, ex post, a causa di un incremento del prodotto, un aumento di moneta detenuta dai componenti la collettività, esercitando per tale transazione effetti diretti sull’andamento dei prezzi.
Già a questo punto si evince lo scostamento teorico tra i due pensatori riguardo all’uso della politica monetaria. Infatti, per i Keynesiani, una politica di espansione monetaria favorisce l’investimento privato a causa di una riduzione del tasso d’interesse; ad essa, peraltro, si affianca una politica di spesa pubblica, indirizzata a coprire il divario fra decisioni di investimento e decisioni di risparmio e a svolgere con attenzione un rigido controllo al fine di evitare la trappola della liquidità o di una debole elasticità dell’investimento rispetto al tasso di interesse.
Per Friedman, l’espansione di una politica monetaria si limita ad una temporanea diminuzione del tasso di interesse, valutando che nei 12/14 mesi successivi, è attesa una inversione di tendenza nell’andamento del tasso di interesse, che inizia ad aumentare per superare, spinto dalle aspettative inflazionistiche nel frattempo maturate, il suo primitivo livello. Sempre secondo Friedman ( valutando il fatto che gli effetti sul reddito reale sono anch’essi temporanei) l’unico effetto evidente, ottenuto con una politica di espansione monetaria, è un aumento generale dei prezzi. Quindi, il teorico di Chicago, suggerisce in termini di politica economica che il criterio da seguire sia quello di una semplice regola di espansione della quantità di moneta, evitando l’adozione di qualsiasi altro strumento di intervento.
Ma è soprattutto sul fronte della politica economica che i due approcci diversificano. Se si considerano le politiche Keynesiane del recente passato, indirizzate al raggiungimento della piena occupazione, anche a scapito della stabilità monetaria, sostenendo la tesi che si potesse procedere mediante l’aumento della domanda effettiva per alimentare e mantenere costante l’occupazione. Mentre, Friedman, al contrario, esclude che si possa perseguire l’ottenimento di un livello di occupazione maggiore o quello naturale, se non al prezzo che egli giudica, nel suo lavoro, insostenibile, di una crescente inflazione.
Questo breve saggio non esaurisce una comparazione tra i due teorici tra i più importanti dell’economia politica. Anzi, recuperando e approfondendo questa materia utilizzando la ragione e l’empiria analitica, con la parte matematica, che la storia ci consegna, per uscire dagli schemi degli “economisti cosiddetti moderni”, forse sarà possibile democratizzare queste analisi e le scelte che ne derivano e che riguardano milioni di cittadini, consentendo una informazione più aperta e chiara e quindi un coinvolgimento più diretto. Io ci ho provato, sapendo dei miei limiti. E’ un sasso gettato nell’acqua stagnante, vediamo se i cerchi che si aprono raggiungono la riva.