DOV’È FINITA LA SINISTRA? di Roberto Biscardini da Jobsnews.it
22 giugno 2019
Succede di tutto. Nella gara tra M5S e Lega a chi strappa qualche provvedimento in più a proprio favore. Nel marasma delle relazioni internazionali, con Salvini che finalmente si scopre come “sovranista” al servizio di Trump. Nel balletto di come rispondere all’Europa. Nel gioco del cerino su come trovare le risorse per dimostrare una certa “serietà” nei conti: taglio della spesa, recupero di qualche miliardo dai fondi ministeriali congelati, recupero del non speso tra quota 100 e reddito di cittadinanza, con la spada di Damocle dell’aumento dell’Iva, senza andare al nodo vero della questione, e cioè come rinegoziare il debito con l’Europa. Con la Lega che nel frattempo si porta a casa un Decreto sicurezza in più e l’Autonomia e con il sospetto, peraltro fondato, che probabilmente alla Lega una procedura di infrazione europea potrebbe persino fare gioco, mentre nel mondo, insieme alla crisi economica, stanno accadendo cose terribili. Con un governo senza regole, salvo quel mostro che si chiama “contratto di governo”, c’è da domandarsi dov’è finita l’opposizione e dov’è finita la sinistra. Ormai di lei incominciano persino a mancare le notizie, salvo quelle che riguardano le solite difficoltà interne al PD e lo sbandamento dei pochi rappresentanti dei piccoli partiti superstiti.
Naturalmente, in questo quadro, il caso più preoccupante riguarda proprio il PD, che riscopre dopo dieci anni di distanza la linea veltroniana dell’autosufficienza, utile a tenere insieme il narcisismo di Calenda con il burocratismo di Zingaretti, ma disastrosa per tutto il resto, anche per se stesso. Una scelta non da poco, anche perché se perseguita fino in fondo, non farebbe altro che certificare la morte di quel partito. Il suo isolamento. L’autosufficienza per avere il deserto intorno, senza altri concorrenti nel proprio campo, ma anche senza futuri alleati. Senza rendersi conto, non solo del risultato modesto delle europee, ma del disastro delle elezioni regionali, dalla Sardegna al Piemonte, e dei risultati in molti comuni simbolo, Cagliari come ultimo esempio.
In una fase in cui il PD perde senza recuperare alcun voto al centro e là dove vince alle amministrative vince solo per l’aiuto ricevuto da alcune liste civiche sue alleate e da candidati sindaci che si affermano solo quando dichiarano esplicitamente di non essere del PD. Un disastro da più punti di vista. Basta prendere le poche notizie che arrivano dal fronte per capire come il PD sia afono e confuso. Balbettii. “Abolire l’articolo 18 è stato un errore simbolico” (sic!). Sul salario minimo “sì” ma il nostro è meglio. Per non parlare della giustizia, che, salvo qualche dichiarazione controcorrente, “Il Csm è un organo politico, stupirsi del rapporto tra politica e magistratura è ridicolo”, il grosso del partito rimane nell’ipocrisia, senza ammettere l’errore dei suoi rapporti pericolosi con la magistratura da sempre. Senza avere il coraggio di ammettere che l’errore più grave in tutti questi anni è stato sottovalutare il ruolo di Luca Palamara, un ruolo centrale sia nel Csm sia in Magistratura. Uno con il quale Francesco Cossiga (che in materia l’ha sempre saputa lunga) si rifiutava persino di parlare, definendolo “una faccia di tonno”. E così, come ci ricordiamo Palamara che per anni ci ha martellato con le sue filippiche a favore dell’autonomia della magistratura contro la politica, così ci ricordiamo come il PD e i suoi predecessori avessero scoperto solo nel periodo di Tangentopoli il finanziamento illecito dei partiti.
E gli altri? Quelli che avrebbero potuto costruire una posizione diversa e distante dal PD, unitaria, non sbiadita, antiliberista, “di sinistra”, democratica e nuova, sembrano spariti, forse in attesa di essere tutti invitati alla tavola della vecchia famiglia. L’unica speranza è un nuovo grande partito del socialismo italiano, il partito degli apolidi, quelli che sono andati ad ingrossare l’area del non voto, molti scontenti, che dovrebbero organizzarsi, ma non sanno né come fare, né hanno il coraggio di farlo.
Una nuova grande area del socialismo, dentro una prospettiva larga, attrattiva di componenti sociali diverse, di persone, cittadini, movimenti, sindacati e liste civiche, non necessariamente eredi di quella tradizione. Un’area che deve esprimere una proposta talmente chiara da essere facilmente percepibile. Sì perché, in una fase in cui non c’è più né il voto di appartenenza né il voto di scambio, gli elettori vogliono sapere chi sei e vogliono conoscerti. E in poco tempo possono persino sostenerti e cambiare il corso della politica. Un’area che deve darsi una leadership, se non individuale almeno collettiva. Che sappia motivare insieme tutti quelli che sono già potenzialmente con lei e tutti gli altri che si potrebbero riconoscere intorno a parole d’ordine assolutamente semplici.
Pace, internazionalismo, eguaglianza, equità, lavoro, democrazia, Stato, sicurezza sociale, welfare, riequilibrio nord-sud. Per dare una prospettiva di alternativa all’intero paese, ai lavoratori salariati, disoccupati, al ceto medio, al lavoro autonomo e a tutti coloro che si sentono impoveriti. Se le idee sono chiare si può persino avere l’ambizione di dettare l’agenda politica stando all’opposizione, nella consapevolezza che il socialismo è una necessità per non soccombere nella barbarie e nella povertà. Muovendosi subito per evitare che la questione socialista si chiuda nella miseria, ormai certificata da certa stampa, secondo la quale il socialismo si identifica con il PD dal giorno in cui ha aderito al PSE (e nessuno si domanda cosa fosse il PD prima che Renzi lo portasse là).
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