DOPO LE ELEZIONI IN GERMANIA di Alberto Benzoni
29 settembre 2017
Nel corso della campagna elettorale in Germania, condotta da
Shultz in forte polemica con la Merkel, la socialdemocrazia tedesca aveva,
almeno teoricamente due opzioni davanti a sé: la riproposizione della “grosse
koalition”, sia pure su diverse basi, oppure l’apertura alla Linke per
costituire, insieme ai verdi, una coalizione di sinistra.
Di fatto, all’interno di un discorso molto ondeggiante, lo stesso leader Spd si
è collocato, rispetto a queste ipotesi, in una specie di terra di nessuno.
Troppo critico rispetto alla passata esperienza di governo per pensare che
intendesse riproporla; troppo pregiudizialmente reticente rispetto alla
proposta di una coalizione rosso-verde, per pensare che intendesse veramente
prenderla in esame.
Quanti volessero esercitarsi sul perché e il percome della sconfitta, tutta
politica del Nostro (politica più che numerica; in termini percentuali il calo
corrisponde esattamente a quello Cdu/Csu ; dal 26 al 21 % nel primo caso, dal
41 al 33 % nel secondo) troverebbero in questa vaghezza di prospettive la sua
ragione fondamentale. Ma è una esercitazione che sconsiglierei in partenza: e
per il semplice motivo che la vaghezza era inevitabile. L’ex presidente del
Parlamento europeo ha tentato in ogni modo di uscire dall’angolo in cui si era
cacciato rinnegando la passata esperienza senza proporne una nuova. Ma non ci è
riuscito.
La sua unica possibilità era quella di riaprire la questione sociale (salari,
pensioni, lotta alle disuguaglianze), linea cui si è fedelmente attenuto: ma
nei limiti ristretti consentiti ad un partito che, poco più di dieci anni fa,
aveva, con Schroeder aveva costruito un modello che posponeva salari e
prestazioni sociali all’esigenza di garantire l’occupazione e che, durante anni
di governo comune, aveva trovato la Cancelliera aperta alle sue esigenze.
Si aggiunga, fatto decisivo, che nel corso di tutta la campagna elettorale il
tema della giustizia sociale e della lotta alle disuguaglianza ha avuto, di
fatto, un’eco infinitamente minore di quello registrato dalla identità
nazionale, dai migranti, dall’Europa e del ruolo della Germania al suo interno,
dal rapporto con la Russia : temi su cui la Spd non era assolutamente in grado
di formulare narrazioni convincenti (anche perché divisa al suo interno, come
del resto la Linke: così sul tema dell’immigrazione si va da posizioni ispirate
alla tradizione internazionalista a chiusure ostili a quello che viene
percepito come “esercito industriale di riserva”a danno dei lavoratori).
E allora, dopo il 24 settembre, la scelta del “ritiro all’opposizione”diventa
una scelta obbligata. Non è una scelta “di lotta e di governo”. Non è un passo
indietro per ripartire al più presto. E’, piuttosto, un ritiro per ripensare
tutto.
Se ci siamo soffermati esclusivamente sulle vicende del “partito fratello”è
perché le elezioni tedesche rappresentano il punto finale o, se preferite, il
suggello di un processo in atto in tutta l’Europa occidentale. Oggi, forse per
la prima volta nella storia dell’Europa occidentale, i socialisti non sono in
grado, per ragioni sia numeriche che politiche, nè di rappresentare
un’alternativa di governo alla guida di una coalizione di sinistra (a parte la
già ricordata eccezione del Portogallo e, già che ci siamo, di Malta) né di
realizzare coalizioni con il centro-destra. (E Corbyn? E Renzi? Curiosamente si
tratta di due modelli tra loro opposti: l’inglese espressione genuina di una
tradizione, il secondo cultore del revisionismo rottamatorio. Difficile, però,
che la May faccia al primo favore di un’altra elezione anticipata; e ancora più
difficile che il Pd sopravviva ad una nuova larga intesa con il Cavaliere). Si
trovano dunque in una specie di terra di nessuno, spaccati al loro interno e
paralizzati nella loro azione politica; e proprio sulla questione delle
alleanze.
E’ auspicabile, e anche abbastanza probabile, che i socialdemocratici tedeschi,
nel loro viaggio verso una nuova Bad Godesberg, non seguano questo andazzo;
occupandosi, come si diceva una volta, “non di schieramenti ma di contenuti”.
E ai “contenuti”dovrebbe essere sommamente interessata anche la nuova sinistra,
cresciuta sulle ceneri della vecchia, sino a diventare componente rilevante se
non maggioritaria dello schieramento di opposizione in Europa occidentale (nei
paesi al di là della vecchia cortina di ferro la situazione è molto peggiore…).
Qui non si tratta di programmi. Ma del giudizio complessivo sulla fase che
stiamo vivendo. Un giudizio che può riassumersi nella constatazione che il
modello di Europa che abbiamo costruito nel corso di decenni (libertà, diritti
sociali e di cittadinanza, spazio di accoglienza e soprattutto di pace) sono
oggi rimessi in discussione; e non solo dall’esterno ma anche dall’interno. E
che lo saranno sempre più nel corso dei prossimi anni.
E qui le elezioni tedesche, con i loro riflessi interni e internazionali, fanno
sicuramente testo.
All’interno, l’entrata dei liberali nel governo segna un forte elemento di
discontinuità con il passato, anche recente. Non si tratta di una componente
moderata della borghesia illuminata, rappresentata a sinistra dai verdi. Si
tratta, piuttosto, di una versione rispettabile e costituzionale della Afd.
Stesse pulsioni vagamente autoritarie; stesso euroscetticismo; stessa totale
indisponibilità a sacrificare gli interessi tedeschi rispetto a quelli di altri
stati della comunità (non parliamo poi di quelli mediterranei…), stessa
chiusura sulla questione migranti.
Angela faticherà allora non poco per costruire la nuova coalizione. E questa
coalizione, se e quando nascerà (tra l’altro con una maggioranza parlamentare
del 53%; la vecchia coalizione arrivava al 67%), sarà più autoritaria e molto
meno aperta sul terreno sociale e dell’immigrazione. E soprattutto poco
disposta ad imbarcarsi su nuovi progetti europei. Ciò limiterà notevolmente la
libertà di movimento e la capacità di mediazione della Merkel in questo campo,
in un contesto in cui questo ruolo di guida assai difficilmente potrà essere
esercitato da altri. (Inutile dire che
gli europeisti in s.p.e. soffrono oggi di una mancanza assoluta di idee;
quando Macron si fa avanti bel bello proponendo un esercito e un bilancio
europei prima che ci siano politiche, estere di difesa o economiche comuni a
sostenerli, non sappiamo se ridere o piangere…).
Ora, in questa situazione di paralisi e di crisi, là dove l’Europa degli stati
è impotente, se non regressiva, forse i partiti, le organizzazioni sociali e i
movimenti potrebbero avere qualcosa da
dire. Compresi quelli della nuova sinistra che sta nascendo. Forse, in una situazione in cui la democrazia e la pace
non sono più quell’orizzonte consolidato che abbiamo conosciuto in passato, ci
sono delle iniziative da prendere e della battaglie da fare, qui e oggi; e,
possibilmente, su scala internazionale. Perché la stessa rivendicazione della
sovranità nazionale ha un senso solo se questa viene usata per cambiare il
mondo che circonda.
Per parafrasare, indegnamente, il nostro Nenni, “la sinistra del futuro o sarà
internazionalista o non sarà”. Possiamo certo ambire a raccogliere la bandiera
dello stato-nazione dal fango in cui la sinistra (e la destra) di governo
l’hanno lasciata cadere; salvo a non essere in grado di strapparla dalle mani (e
dall’uso perverso) della destra populista. Il campo sarà invece esclusivamente
nostro se sapremo dare alle nostre future battaglie per un rilancio del ruolo dello
stato e degli investimenti, per una politica estera di dialogo e di pace e per
una gestione razionale e, insieme, generosa dell’immigrazione una dimensione
europea.
Il nostro compito non è solo quello di riscrivere trattati e di alleggerire
regole ma di cambiare politiche. E dare per sconfitta in partenza questa
battaglia significa rinunciare in partenza ad avviarla.