DAL V CONGRESSO UNA CASA COMUNE PER I RIFORMISTI – Relazione di Enrico Boselli al Direttivo Nazionale dello Sdi del 25 febbraio 2007
28 febbraio 2007
Il nostro Comitato Direttivo Nazionale, dopo l’Esecutivo di giovedì scorso, è chiamato ad una riflessione e a un confronto politico che deve portarci in tempi brevi alla convocazione di un Congresso straordinario dello SDI. Spetterà al Consiglio Nazionale, che vi propongo di convocare per domenica prossima, fissarne il luogo e la data, nonché approvarne il regolamento. Spetta, invece, al Comitato Direttivo eleggere una Commissione politica nella quale verranno presentate e discusse una o più mozioni. Una volta che sapremo quali e quante saranno le mozioni presentate, il Consiglio Nazionale procederà all’elezioni di una Commissione paritetica di garanzia nella quale saranno rappresentate tutte le posizioni che si confronteranno al Congresso.
L’esigenza del Congresso nasce dal fatto che al nostro interno, a differenza del passato, sono emerse linee politiche diverse e contrastanti. Non può andare avanti un Partito se non si ha chiara l’impostazione da seguire. Ciò vale soprattutto se vi è una divergenza tra quanto viene indicato dalla segreteria nazionale e quanto è sostenuto da nostri autorevoli compagni, come Ottaviano Del Turco, con i quali abbiamo avuto una lunga condivisione politica.
Non si tratta affatto di una resa dei conti, cosa che è ben lontana dal nostro modo di pensare, ma di un conto di coloro che sono a favore di una linea e di coloro che sono a favore di un’altra, cosa che è a fondamento della democrazia liberale nella quale, e per l’appunto, le teste si contano e non si tagliano, come ci ammoniva spesso Bobbio che aveva, e giustamente, criticato l’elezione di Craxi ad un congresso attraverso un applauso. Questa è sicuramente una nuova fase della vita del nostro Partito, dopo un lungo e ininterrotto periodo di unanimità, ma non è detto che non possa essere di una maggiore maturità a condizione che le divisioni, come troppe volte è accaduto nella nostra storia, non si trasformino in scissioni.
Più volte Nenni ci ha ricordato che è meglio avere ragione dentro il Partito che contro il Partito ed io, per quanto mi riguarda, qualunque sia l’esito del congresso, mi atterrò a questa regola: se la mozione che presenterò andrà in minoranza, collaborerò unitariamente e lealmente con chi avrà vinto il Congresso e con chi farà il segretario al mio posto. Mi auguro che, se avverrà diversamente, anche chi avrà perso il Congresso si comporterà in questo stesso modo. Dato che non vedo messa in discussione la nostra unità, una discussione aperta all’interno del nostro Partito può essere salutare. Il compito di questa mia relazione non è quello di anticipare, passo dopo passo, i contenuti della mozione che presenterò, ma di indicarne alcune linee fondamentali allo scopo di suscitare ulteriori contributi nel dibattito del CN, di cui potrò tenere conto nella stesura del mio testo. Mi propongo, comunque, di presentare un testo piuttosto stringato che non riproponga tutte le nostre tesi programmatiche, ma vada al cuore dei problemi politici che dobbiamo affrontare e risolvere.
Il nostro CN si svolge nel pieno di una crisi politica che ha investito il Governo Prodi, come conseguenza della bocciatura di una risoluzione sulla politica estera avvenuta giorni fa’ al Senato. Più volte avevamo osservato che la coalizione di centro sinistra aveva - e continua ad avere - un tallone d’Achille nella ristrettezza della sua maggioranza al Senato. Tuttavia, sulla sorte del governo Prodi ha pesato, e non poco, il comportamento di Rifondazione comunista, dei Comunisti Italiani e dei Verdi, che hanno condotto campagne propagandistiche contro la missione italiana in Afghanistan e più recentemente contro il raddoppio della base USA a Vicenza per poi ritirarsi in buon ordine ed accettare come puro stato di necessità le posizioni assunte dal governo. E’ questo atteggiamento che ha favorito con un’azione di vera e propria istigazione i dissidenti di questi partiti a venire allo scoperto e arrivare a votare contro il governo Prodi. Non si può essere, infatti, incendiari di notte e pompieri di giorno. Prima o poi questa contraddizione sarebbe esplosa e ci saremmo trovati di fronte a una crisi, come è puntualmente avvenuto. Nessuno, infatti, può chiudere gli occhi di fronte all’eterogeneità della coalizione e non c’è blindatura della maggioranza che possa cancellare l’esistenza di questo grave problema.
L’estrema sinistra sostiene il Governo Prodi non tanto per quello che fa, ma come un puro e semplice argine ad un ritorno al potere di Berlusconi e del centro destra. Tuttavia, quando partititi che sono determinanti appoggiano un governo solo come il “meno peggio”, è del tutto evidente che è assai difficile poter avere uno slancio riformatore. A complicare la situazione sono venute le gerarchie ecclesiastiche che hanno esercitato tutto il proprio peso politico per bloccare qualsiasi ampliamento dei diritti civili, a cominciare dal riconoscimento delle unioni di fatto, trovando un vero e proprio esercito in Parlamento che si è messo agli ordine del Papa, cosa che non era avvenuta neppure ai tempi della DC. In queste condizioni Prodi, al quale non è mai mancato il nostro sostegno, è stato chiamato e sarà ancora chiamato con il voto di fiducia in Parlamento a vere acrobazie politiche e programmatiche.
Noi, almeno per quanto ci riguarda, siamo soddisfatti del comportamento tenuto in tante circostanze da Prodi ma non del modo in cui il governo va avanti. Abbiamo già segnalato durante la discussione della Finanziaria, di cui abbiamo apprezzato l’opera di risanamento dei conti pubblici, come non si sia fatto – e colpevolmente - un forte investimento nella ricerca, nella istruzione e nell’innovazione ed invece si sia cercato di soddisfare solo interessi corporativi e di categoria. La tanto osannata Agenda europea di Lisbona, che richiede forti interventi nei settori dove conta la qualità, le idee e le scoperte scientifiche, è rimasta finora lettera morta. Il ministro dell’università e della ricerca Fabio Mussi è stato lasciato solo, appoggiato soltanto dal gruppo parlamentare della Rosa del Pugno. Le liberalizzazioni, grazie all’impegno del ministro Bersani, sono andati avanti, ma ci si muove ancora con troppi riguardi e troppe cautele quanto si tratta di intaccare i privilegi di grandi oligolipoli come avviene nel campo delle publi utilities e in quello delle assicurazioni. Il capitalismo famigliare è preferito a quello globale, prendendo solo come pretesto la bandiera dell’italianità che pure in alcuni campi non andrebbe del tutto ammainata e comunque non troppo rapidamente.
In questi settori Prodi non ha bisogno di suggerimenti, ma dovrebbe solo essere alleviato da troppi condizionamenti. Il rinvio alle Camere del governo Prodi, deciso dal Presidente della Repubblica è stato un atto ineccepibile dal punto di vista dello spirito e della lettera della nostra Costituzione. Noi avremmo preferito che si arrivasse a un nuovo incarico dato a Prodi e alla formazione di un nuovo governo al fine di fare completa chiarezza politica.
Durante la crisi vi è stato infatti un intenso chiacchiericcio, smentito recisamente da chi ne è stato chiamato in causa, sulla predisposizione di una soluzione di ricambio in caso di fallimento di Prodi. Si tratterebbe di un governo istituzionale che dovrebbe basarsi, visto che Berlusconi vuole andare subito alle urne forzando gli stessi suoi alleati, solo con chi ci sta e allo stato attuale chi ci sta è solo sull’UDC e presieduto da un’alta autorità della nostra Repubblica. Non mi voglio incamminare nella dietrologia, di cui non sono un conoscitore, né nella politologia, di cui non sono un esperto. Non credo ai corsi e ai ricorsi della storia. Nel 1998 accadde un piccolo dramma con il licenziamento anticipato di Prodi. Ora, se quel canovaccio si ripetesse, saremmo di fronte ad una mediocre commedia. Non dubito della buona fede di chi dice, come fa D’Alema, che con questa legge elettorale non si può andare alle urne, perché così rischierebbe di saltare il bipolarismo e comunque si metterebbe a repentaglio la stabilità del Paese.
Sono proprio queste le parole attese da un uomo di Stato che sono di ancora maggiore valore se, come nel nostro caso e sondaggi alla mano, queste preoccupazioni sono rivolte probabilmente alla tenuta di un nuovo governo Berlusconi o, comunque, a un ritorno al potere del centro destra. Oppure si pensa a un governo istituzionale di più lunga durata che sconti un logoramento di Berlusconi e ad eventuali possibilità di recupero elettorale del centro sinistra conquistando tempo? Qualunque sia l’ipotesi a cui si pensa, questa girandola di soluzioni di ricambio non fanno altro che indebolire il governo Prodi. Solo una semplice e secca affermazione può rafforzarlo: se cade Prodi, si ritorna a votare. Tutte le altre di sostegno forte e leale sono pura retorica. Per quanto ci riguarda Prodi avrebbe dovuto affrontare l’incertezza di un nuovo incarico e di un nuovo governo per avere la certezza di non cadere in una nuova trappola. Partendo dalla riconferma della propria maggioranza, Prodi sulla scia del lavoro iniziato dal ministro Chiti, avrebbe dovuto, e a crisi aperta, ricercare un terreno comune con le opposizioni per far approvare al più presto una nuova legge elettorale. Infatti Prodi deve temere la melina in centro campo, mentre ha tutto da guadagnare da un robusto confronto tra opposti schieramenti. Rinchiudersi nel proprio fortino ed evitare il confronto aperto e trasparente con le opposizioni non ci sembra la via più giusta. L’apporto di Marco Follini è significativo politicamente e prezioso numericamente, ma non sposta meno a sinistra l’asse della coalizione perché come ha osservato Villetti citando un motto popolare “una rondine non fa primavera”.
Mi unisco comunque a coloro che hanno denunciato l’avvio di una vera e propria campagna di denigrazione verso Follini. La categoria del tradimento politico non ci appartiene e ciò vale per Follini come per i senatori dissidenti del centro sinistra, che spero tutti ridiano la fiducia al governo Prodi. Comunque, il nostro auspicio è che tutto possa andare nel migliore dei modi, che il governo non solo ottenga la fiducia ma possa durare molto a lungo e non solo alcuni mesi, come predicono le Cassandre che in questi casi non mancano mai.
La situazione del governo mette nuovamente in luce l’anomalia del caso italiano, dove esiste una geografia politica assai differente da quella delle altre grandi democrazie dell’Europa occidentale. Dal collasso del vecchio sistema politico è scaturito un panorama politico che appare persino più instabile e complicato di quello della cosiddetta prima Repubblica. Dal vecchio PCI sono nati un partito che ha aderito all’Internazionale socialista e ben due altri partiti comunisti; dalla DC sono venute almeno tre formazioni come la Margherita, l’UDC e l’UDEUR di Mastella, per non parlare di altri piccoli raggruppamenti come quello di Rotondi; dal più noto dei magistrati di Mani pulite è sorto un partito personale; dall’MSI, è scaturita AN oltre ad altri piccoli raggruppamenti che si richiamano ancora al fascismo; da un impero mediatico, finanziario ed economico, di proprietà di Berlusconi è nata Forza Italia; dal PSI e dal PSDI si è generata una diaspora ed oggi vi sono diversi partiti e raggruppamenti di cui lo SDI è sicuramente quello più solido e l’unico ancorato saldamente al PSE e all’Internazionale socialista; c’è la Lega che ha potuto giovarsi con il suo mai del tutto accantonato spirito separatista del rivolgimento politico avvenuto a cavallo degli anni novanta e ci sono gli ambientalisti che sono più rossi che verdi tanto da avere al Senato un gruppo insieme ai comunisti italiani.
E’ questa geografia politica anomala più che le leggi elettorali, a spiegare perché le coalizioni nel nostro bipolarismo all’italiana siano così eterogenee, perché vi sia una contrapposizione politica così radicale tra maggioranza ed opposizione e perché vi sia una continua e serpeggiante instabilità politica. Chi ritiene che a tutto ciò si possa porre rimedio attraverso nuove leggi elettorali coltiva una grande illusione. Noi forse siamo il solo paese che ha sperimentato in pochissimo tempo sia a livello locale sia a livello nazionale le più disparate e fantasiose leggi elettorali, ma non siamo ancora venuti a capo di una lunga e mai conclusa transizione che dura da quando è entrato in crisi il vecchio sistema politico. Nuove leggi elettorali possono accompagnare i processi che sono necessari ad avvicinare l’Italia all’Europa, ma non possono sostituirsi alla politica. Noi ci siamo sempre mossi, dopo lo scioglimento del PSI e del PSDI, in una direzione che non ha mai mirato a conservare un piccolo partito socialista, ma a costruire una forza riformista capace di influenzare la politica italiana. Tutti i tentativi di aggregazione politica non sono stati quasi mai rivolti solo a superare gli sbarramenti elettorali nei diversi turni del voto per il rinnovo delle Camere, ma anche per cercare di mettere insieme in un unico soggetto riformista socialisti, liberali, radicali, cattolici progressisti, ambientalisti. Ci siamo impegnati per costruire assieme a Prodi quella che allora chiamammo la seconda gamba dell’Ulivo per superare un centro sinistra incentrato su una Quercia contornata da cespugli. Abbiamo tentato di realizzare aggregazioni con AD e con il Patto Segni, dando vita al “Patto dei Democratici”; abbiamo promosso la lista Dini; con i Verdi abbiamo dato vita al Girasole; ci siamo impegnati a favore dell’Ulivo secondo il progetto originario di Prodi e di Parisi; ed infine con i radicali abbiamo lanciato “la Rosa nel Pugno”. Questo nostro itinerario può essere interpretato come pura tattica di sopravvivenza al di fuori di qualsiasi orizzonte strategico. Per quanto mi riguarda non nego affatto che vi sia stata da parte mia la volontà di difendere l’autonomia dei socialisti e di assicurare una nostra presenza politica e parlamentare, ma tutte queste nostre scelte non sono derivate solo e soltanto dalle emergenze elettorali.
Noi ci siamo sempre mossi per creare una nuova forza riformista nella quale la presenza socialista avesse un valore e un ruolo autonomo. Per questo motivo rifiutammo di aggregarci al carro della Cosa 2. I DS, se avessero voluto costruire assieme a noi, un nuovo partito socialdemocratico di tipo europeo, avrebbero dovuto chiamarne alla guida un leader che venisse dalla storia del movimento socialista, come vero atto di discontinuità verso la storia del PCI. Non lo fecero. Eppure avevano a disposizione un’autorevole personalità come Giuliano Amato che non avrebbe certamente rivoluzionato tutta la nomenclatura di provenienza comunista. Individuammo nell’Ulivo una prospettiva che avrebbe potuto determinare un vero e proprio big bang nella geografia politica italiana, mettendo insieme differenti riformisti e diversi riformismi e sperimentando nuovi strumenti di partecipazione politica come le primarie. Condizioni essenziali per l’avverarsi di questa operazione erano rispettivamente il superamento di un partito di cattolici che facessero politica in quanto cattolici e il defnitivo distacco dei DS dalla propria storia comunista. Perno di tutta questa operazione avrebbe dovuto essere la costituzione della Margherita che doveva bilanciare il peso dei DS e diventare una sorta di prototipo dell’Ulivo. A questo scopo era stata affidata la guida a Francesco Rutelli che non veniva dalla storia della DC, affinché la nuova formazione, composta largamente da postdemocristiani, non diventasse un nuovo partito cattolico. Al contrario Rutelli, per conquistarne una indiscussa leadership ed emanciparsi da quella di Prodi, puntò ad un accordo con i postdemocristiani e con Marini, e a questo fine spinse passo dopo passo la Margherita a diventare un vero e proprio nuovo partito cattolico. Con l’adesione all’orientamento del cardinale Ruini a favore dell’astensione sul referendum sulla fecondazione assistita e con l’annuncio che avrebbe presentato la Margherita con il proprio simbolo nella parte proporzionale dell’elezione della Camera nel contesto della allora vigente legge elettorale, completò l’operazione. Una volta fissata la natura confessionale della Margherita, riprese il percorso dell’Ulivo ma da una posizione di forza, nella quale ad essere messi in difficoltà erano questa volta i DS che si trovarono di fronte all’ipotesi di fare un nuovo partito con all’interno una componente cattolica, assai sensibile se non proclive agli ordini del Vaticano, e comunque su una base in cui la laicità sarebbe entrata inesorabilmente in un cono d’ombra.
Allo stato attuale il nuovo partito democratico appare fondato sull’incontro di due storie: quella del PCI e quella della sinistra democristiana. E’ un compromesso storico bonsai, secondo l’efficace definizione di Ugo Intini. E noi che siamo stati sempre contro tutti i compromessi storici, piccoli o grandi che siano, non possiamo entrare in questo cantiere. Non è sull’idea di una grande forza riformatrice che c’è il nostro dissenso; è su una nuova formazione che è una bicicletta DS-Margherita e che si muove su un tracciato che non a caso valorizza il primo importante compromesso tra cattolici e comunisti sull’articolo 7 con il quale si costituzionalizzò il Concordato dove si riconosceva – ed è bene sempre ricordarlo - al cattolicesimo il ruolo di religione di Stato. Non ci sembra che a supporto del nuovo partito possa essere chiamata la grande tradizione della socialdemocrazia europea, né quella dei liberali progressisti, ma solo quelle che sono state sempre considerate da un pensatore comunista di grande spessore culturale, come Franco Rodano, fondamentali nella storia della Repubblica; quella della DC e quella del PCI.
Rispetto a queste grandi forze, i liberali (e oggi si direbbe i laicisti) raccolti attorno al “Mondo” di Mario Pannunzio, i socialdemocratici di Saragat, i socialisti di Nenni, Pertini, Lombardi, Mancini, De Martino e Craxi, i radicali di Ernesto Rossi e di Marco Pannella e i repubblicani di La Malfa sarebbero stati del tutto secondari e giustamente oggi la storia avrebbe reso marginali i loro eredi tra i quali ci siamo noi. Guardate i gruppi dirigenti della Margherita e dei DS e vi accorgere che, salvo Rutelli che è diventato più integralista dei postdemocristiani (per rendersene conto bisogna aver letto a tal proposito il manifesto dei 60 deputati della Margherita sulla laicità dell’impegno dei cattolici in politica), tutti i massimi dirigenti vengono dalla DC o dal PCI. Solo se Prodi avesse voluto svolgere un ruolo autonomo con una propria forza autonoma all’interno dell’Ulivo, si sarebbe potuto almeno tentare di correggere la direzione che tutto questo processo ha preso. Purtroppo l’ideatore di questo progetto, posto di fronte ad un amaro dilemma dettato dal realismo dei DS, scelse di consolidare il proprio ruolo di candidato premier piuttosto che rischiare ed continuare la sfida che aveva aperto con Rutelli. E’ con questo abbandono del campo da parte di Prodi, che noi allora gli rimproverammo chiaramente e con amicizia, che l’Ulivo è stato lasciato nelle mani di Rutelli e Fassino (e da parte di Rutelli è oggi la presa più forte). Tutto questo non avviene nel vuoto. C’è la crisi di governo. C’è la pressione dell’estrema sinistra. C’è una diplomazia americana di Bush, che a parte i sorrisi di Condoleeza Rice a D’Alema, guarda di cattivo occhio un governo con comunisti dichiarati all’interno.
C’è un capitalismo famigliare italiano che preferirebbe a Prodi un leader diverso, meno interventista nel campo dell’economia e della finanza e più sensibile ai loro interessi. C’è il Vaticano che, considerando l’Italia come un suo protettorato, non ha mai gradito Prodi, un cattolico liberale che è andato a votare al referendum e ha fatto approvare i DICO dal Consiglio dei ministri da lui presieduto. Non c’è – ed è bene dirlo per non essere fraintesi – una cupola formata da capitalisti, americani e Vaticano che ha messo in opera un piano per far saltare il governo Prodi. Ci sono, com’è naturale, in una democrazie liberale attori politici che svolgono la loro parte e imbastiscono il loro gioco all’interno come all’esterno del nostro Paese. Non commetteremo un errore di analisi simile a quello che ha fatto il Papa addebitando la crisi della famiglia a lobbies, invece che alla trasformazione degli stili di vita, dei costumi e della morale. La crisi del governo Prodi nasce innanzitutto dalla politica e dalla debolezza inevitabile della sua impostazione riformista e non dipende solo dal peso dell’estrema sinistra ma anche dalla natura assai fragile e contraddittoria del processo di costruzione del partito democratico.
Prodi non si può spingere troppo oltre nella frontiera del riformismo, come ha fatto Blair; non può rilanciare un grande ampliamento dei diritti civili, come ha fatto Zapatero; si è mosso bene assieme a D’Alema sulla politica estera ma proprio su questo terreno – ed è un paradosso - è entrato in crisi. Mi chiedo: che cosa ha fatto il nascente Partito democratico per dare nuovo slancio al governo Prodi? L’unico risultato mi sembra essere l’accordo tra le due dame, quella laica, la ministra Pollastrini, e quella cattolica, la ministra Bindi, che non è stato certo ritrattato da Prodi ma che non si è avuto neppure il coraggio d’inserire tra i 12 punti sui quali basare e rilanciare il governo. Se questo è l’effetto politico del partito democratico, di fronte ai tanti inviti ad aderirvi, io proporrò al nostro congresso di dire senza ambiguità e senza esitazioni: “No, grazie!” Di fronte a questa scelta che propongo al Congresso, si solleva un giusto interrogativo: “Che fare?” La “Rosa nel Pugno” è da tempo in crisi e vive solo a livello parlamentare con un gruppo guidato dal nostro compagno Roberto Villetti e a livello di governo con la ministra Emma Bonino, il vice ministro degli Esteri Ugo Intini e i nostri sottosegretari Tommaso Casillo, Emidio Casula e Raffaele Gentile. L’unità socialista con il Nuovo PSI di Gianni De Michelis e con i socialisti di Bobo Craxi ha fatto qualche passo in avanti ma ancora non se ne vede una conclusione positiva almeno in un orizzonte immediato. In questa situazione c’è chi prospetta un nostro isolamento ed è questo un rischio che io pure ho sempre temuto e tuttora temo. Dobbiamo, però, uscire da una concezione che individui una linea politica solo come una pura e semplice aggregazione dello SDI ad altri partiti.
Questo è stato il limite dell’impostazione che finora abbiamo dato al partito. E’ bene che lo riconosciamo apertamente e criticamente. Le aggregazioni devono discendere da una scelta di tipo generale. Ho cercato di dare una chiave di lettura politica che mette in luce un filo comune da noi seguito nel contrarre le nostre alleanze politiche ed elettorali. L’errore che abbiamo commesso non è stato nei singoli passaggi, del resto spesso obbligati, ma è stato quello di non far risaltare la filigrana strategica che ci ha spinto a fare determinate alleanze piuttosto che altre. E quindi bisogna partire o ripartire da questa impostazione politica che lega diverse fasi della nostra vita politica. Innanzi tutto mi sono impegnato assieme alla stragrande maggioranza di voi, compagne e compagni, a mantenere e difendere l’autonomia e l’identità socialista, che dal collasso del vecchio sistema politico e da più parti si volevano cancellare.
Questa minaccia – e non lo voglio nascondere – è venuta innanzi tutto e spesso dal PDS-DS che ci ha sempre considerato una presenza scomoda, perché l’esistenza di un partito socialista che viene dalla tradizione del PSI e da quella del PSDI mette in risalto che l’altro partito, aderente al PSE e all’Internazionale socialista, viene dalla storia del PCI. Per questo motivo ogni tanto ci viene fatta qualche cattiveria gratuità, s’insulta un nostro leader storico, come è avvenuto a Cosenza con Giacomo Mancini, veniamo estromessi da una Giunta come è avvenuto a Torino da parte di un riformista doc come Chiamparino o a Roma da parte di un leader come Walter Veltroni, con il quale pure abbiamo buoni rapporti politici. E sempre per questo motivo si tenta di provocare divisioni al nostro interno secondo una consolidata tradizione. Insomma, i nostri rapporti fraterni con i DS purtroppo sono stati cordiali solo a corrente alternata. Subito dopo aver stilato un comunicato comune, nel quale riaffermavamo i buoni rapporti tra lo SDI e DS, ci è quasi sempre arrivata una qualche polemica o ci è stato dato qualche colpo basso al centro o in periferia. Di fronte a questo atteggiamento dei DS, io ho sempre mantenuto forte e salda la nostra autonomia e ho sempre contrastato al nostro interno quelle posizioni che hanno teso a influenzare le nostre decisioni.
Il nostro Congresso, quindi, è chiamato innanzi tutto a riaffermare la nostra autonomia e la nostra identità socialista rispetto a chi vorrebbe decidere al nostro posto l’esaurimento del nostro ruolo e la nostra fine come partito. Questo non significa rinchiuderci in noi stessi. Noi non siamo poi così isolati, come ci vorrebbero far apparire. Innanzi tutto da forti delusioni, da riserve, da perplessità e da veri e propri dissensi verso il modo in cui si sta costruendo il partito democratico o rispetto alla stessa idea dell’Ulivo, è riemersa con vigore la questione socialista. Di fronte a un partito democratico che si sta fondando, ci si interroga sulla necessità di rifondare un nuovo partito socialista ancorato al socialismo europeo. Lo fa un riformista, come Emanuele Macaluso, con il quale abbiamo una grande convergenza di vedute. Lo fa Fabio Mussi che è a capo della sinistra DS e con il quale abbiamo forti punti di divergenza, ma con il quale abbiamo anche in comune la difesa del principio di laicità e la difesa della scuola pubblica e lo fa il leader dell'altra mozione Angius. Ci si ricorda che noi resteremmo, come SDI, l’unica forza che fa parte a pieno titolo nel socialismo europeo, dopo che avverrà il mezzo abbandono del PSE da parte dei DS, nel momento in cui si scioglieranno e confluiranno nel nuovo partito democratico. E per questo motivo siamo invitati ad assumerci tutta la responsabilità nella sinistra italiana, che deriva da questo probabile evento politico. Non si può dare torto al direttore de “Il Riformista” Paolo Franchi quando sollecita noi, che siamo socialisti, a non restare indifferenti rispetto a una questione socialista che riemerge con vigore e ad interessarci attivamente della convocazione di una “Costituente socialista”.
Noi, comunque, dobbiamo impegnarci in un confronto con chi richiama la necessità di mantenere un rapporto con il socialismo europeo. Non abbiamo mai pensato – e lo ribadiamo con coerenza – che si dovesse porre come pregiudiziale alla costruzione di un nuovo partito democratico l’adesione al PSE, poiché siamo stati sempre convinti che una nuova forza riformista in Europa non possa avere altro riferimento possibile se non il socialismo europeo. Un partito democratico, che avesse determinato da un punto di vista culturale e non solo politico un reale superamento della questione cattolica e di quella comunista, ci avrebbe comunque avvicinato al socialismo europeo dove già convivono differenti riformisti e diversi riformisti. Al contrario un partito democratico che ha come assi portanti la storia della DC e quella del PCI, ce ne allontana sicuramente. Richiamarsi al socialismo europeo significa, però, assumere una piattaforma riformisti assai simile a quella degli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti. Noi, comunque, non ci proponiamo di sollecitare una scissione di Mussi o di Angius dai DS. Non lo abbiamo mai fatto all’interno della sinistra italiana. Sono stati altri che nel corso della storia hanno sollecitato ed anche attivamente sostenuto scissioni socialiste. Notiamo solo che chi ci richiama a valutare le differenze politiche esistenti tra lo SDI e Mussi, non vede alcuna contraddizione alla presenza della corrente da lui guidata nel nuovo partito democratico e, anzi, teme che non vi aderisca.
Noi non abdichiamo ad alcuna delle posizioni riformiste che abbiamo assunto e non ci apprestiamo a cambiamenti nelle nostre impostazioni di politica estera, né chiediamo per avviare un confronto che altri abdichino alle proprie posizioni. Del resto, questo confronto che vogliamo far partire dal nostro Congresso non riguarda solo la corrente di sinistra dei DS e quella di Gavino Angius, ma un ampio arco di componenti e di esponenti politici: dai laici e liberali che non si ritrovano più nella Margherita, diventata un partito confessionale, e sono critici sul modo in cui si sta costruendo il partito democratico, ai repubblicani di Luciana Sbarbati, a riformisti come Macaluso. Del resto non abbiamo poi operato neppure alcuna rottura con i radicali di Marco Pannella con i quali, ferma restando l’autonomia reciproca dei rispettivi partiti, abbiamo molti campi di azione comune, a partire dalla difesa della laicità dello Stato, e diversi terreni sui quali continuiamo ad avere una stretta cooperazione, come accade in Parlamento e nel Governo. Vogliamo, innanzitutto, sviluppare il confronto con tutte le famiglie socialiste, da quella guidata da Gianni De Michelis a quella diretta da Bobo Craxi perché abbiamo sempre sentito l’unità socialista come un dovere prima ancora che come una scelta politica. Dal nostro Congresso Nazionale deve partire quindi un confronto a tutto campo a partire dalla questione socialista, per aprirsi a tutti i progressisti, liberali, laici, radicali ed ambientalisti, che non si ritrovano nel partito democratico così come si sta costruendo.
Con il nostro Congresso, e a partire dalla sua straordinarietà, non vogliamo presentare una proposta politica come un pacchetto bello e confezionato da offrire, ma dare inizio ad una nuova fase nella quale i riformisti che non aderiscono al nuovo partito democratico non si sentano più dei cani sciolti, ma acquisiscano la consapevolezza che tutti insieme possiamo costruire una casa comune. E’ questo l’impegno che io propongo di assumere al nostro Congresso.