DAL SOGGETTIVISMO ALL'ECONOMIA DEL NOI di Stefano Rolando
08 agosto 2011
La cortesia di Gigi Covatta mi fa aprire il giro dei contributi programmati un po’ per l’attenzione avuta alle recenti dinamiche politiche ed elettorali di Milano raccontandone – blog e fascicoli a stampa – su Mondoperaio, un po’ per l’esperienza che il gruppo di iniziativa dei cosiddetti “51” (ormai quasi 200) raccolti attorno a Piero Bassetti per Pisapia sindaco ha fatto maturare in un serrato scambio di idee che, al fondo, ha sempre avuto il nesso Milano-Italia come sottofondo. E in modo ancora più specifico direi con il pensiero rivolto al nesso “nuova classe dirigente-rilancio dello sviluppo”. Parlo ora a titolo personale. E’ il momento in cui Milano sta passando dall’arancione delle legittime e liete feste in piazza al bianco e nero delle assunzioni di responsabilità. Un passaggio in cui ci auguriamo che l’arancione non evapori, ma in cui è normale che la preoccupazione di fronteggiare buona amministrazione e responsabilità proprie del “cambio della guardia” crei una fase di difficile coniugazione tra progettualità e agenda. In questa fase agiscono tre cerchi di discussione. Il primo cerchio è quello di chi è in “sala macchine”; il secondo cerchio è quello di chi ha responsabilità politiche e mediatiche nel quotidiano confronto (e conflitto) per definire l’agenda; il terzo cerchio è quello di chi – con qualche ragione di competenza o di rappresentanza – discute e propone indirizzi. E’ certamente legittimo che oggi a Palazzo Serbelloni, come ieri al Circolo De Amicis, come lunedì 27 mattina all’Ambrosianeum – per fare esempi nel fazzoletto di pochi giorni – molte delle reti che hanno creato l’alternativa comunicativa a quello che veniva considerato uno strapotere di pubblicità e tv (vera scoperta della vicenda di Milano) mantengano tensione e vivacità interpretativa. Più che legittimo, è importante. Perché – come abbiamo detto ieri sera al De Amicis – questa esperienza ha mostrato che la realtà scorre in modo innovativo rispetto alle credenze, agli stereotipi, alle stesse percezioni. Per larga parte la campagna elettorale a Milano è proseguita nell’idea che si poteva votare Pisapia ma che “la Moratti avrebbe vinto a mani basse” ; potrei fare nomi illustri, i dati ci hanno detto che questo è stato il sentimento di una parte importante degli stessi elettori del centrosinistra e in questa percezione per un bel po’ vi è stata anche la sondaggistica. Ora l’innovazione deve trasferirsi ai nodi strutturali della campagna stessa. Quelli che hanno mosso, per esempio, ambiti professionali e culturali della società milanese a dire che la città non cresceva, non andava avanti e che per questo si doveva affermare una logica di cambiamento. Oggi si affronta uno di questi temi. Molti presenti hanno competenze interessanti per farlo avanzare. Provo a profilare un breve ragionamento e un paio di proposte. In termini di “crescita” i territori sono come il gioco del domino: interagiscono. E’ la logica del glocal. Ma hanno anche perimetri in cui si forma massa critica per fare da sé, appunto per competere. Da questo punto di vista il PIL territoriale ci fa riflettere. Sappiamo che esso non è più misura esclusiva per definire la crescita ma non si può fare a meno di pensare che esso sia anche strumento per definire le condizioni di finanziamento dello sviluppo. Nella Lombardia che si batte per mantenere il suo 20% di PIL nazionale vi sono così condizioni di massa critica che si riducono pensando al territorio provinciale di Milano (il dato esiste ancora con dentro la Brianza ed è attorno al 10%) e si dimezzano ulteriormente nelle condizioni di Milano-borgo (oggi forse 4 punti e mezzo). Vi sono dunque ambiti in cui il profilo competitivo può essere stimolato dalla micro-condizione territoriale della città, altri ambiti in cui il requisito della massa critica obbliga a patti, alleanze, visioni più larghe. Fino a coinvolgere dinamiche ultraregionali e naturalmente nazionali e internazionali. Dico ciò per lasciare un’indicazione metodologica : sviluppo vuol dire visione complessiva delle alleanze necessarie per generarlo. Per esempio in materia di Expo, volendolo vedere come un nodo culturale ed economico per crescere, il conflitto inter-istituzionale è stato esiziale e il patto Milano-Regione è invece vitale. Fatemi andare per un istante alla Milano della mia – come di molti dei presenti – infanzia e adolescenza. La Milano, sostanzialmente, costruita attorno all’etica del lavoro, quella che continuava a trasportare nei decenni successivi lo spirito della ricostruzione del decennio 45-55. Una specie di “fabbrica del Duomo” diffusa. Alimentata da quella categoria della cultura sociale che un recente rapporto del Censis dice svanita in Italia, l’idea di “stare sotto sforzo”. Il ricordo di mio padre che andava in azienda il sabato e lavorava poi nel suo studio a casa la domenica mattina è indelebile. In quella cultura Milano passava cicli economici, integrava immigrazione prima meridionale poi internazionale, attirava risorse e idee perché – il titolo di Orio Vergani era pre-bellico ma valeva anche per molto e prolungato dopoguerra “dopo Milano non c’era che l’America”. Il passaggio dagli anni ’80 – altro che “da bere” – con Milano capace ancora di padroneggiare il passaggio all’economia immateriale mantenendo in piedi la parte più competitiva del manifatturiero riuscendo in quegli anni a dettare alcune cose all’agenda nazionale ed europea, agli anni ’90 comportò l’arresto cardiaco di una cultura. Di mezzo le tossine delle distorsioni e delle corruzioni. Certo. Ma anche la trasformazione di un ciclo politico e culturale che Giuseppe De Rita ha recentemente sintetizzato nella fine del riformismo e nella affermazione del soggettivismo. Quello stesso ciclo che ora sembrerebbe al capolinea. Per fare breve una storia più lunga e complessa, Milano è stata in asse poi con il ciclo politico del “berlusconismo” che ha portato il soggettivismo dalla centralità della persona ad un’idea mi verrebbe da dire “pagana” della persona stessa. Mi scuso per l’eccessiva semplificazione ma si sono imposti negli anni tre assiomi: - la fiducia conta più della verità; - l’economia immateriale si governa soprattutto governando l’immagine; - gli interessi generali non devono essere ideologie collettiviste. Figuratevi se io pensi che la fiducia non sia un valore nell’economia di mercato. Figuratevi se io – insegnando scienze della comunicazione in un raggruppamento economico – consideri l’immagine solo cipria. E figuratevi se io come voi tutti sia succube dei piani quinquennali del Cremlino. La applicazione di quegli assiomi, però, ha introdotto una divaricazione inaccettabile nei rapporti tra privilegi e derive sociali. Ha infranto un principio distributivo (cosa avvenuta in tante parti del mondo capitalistico, si intende) che l’Europa socialdemocratica ha tenuto come una bandiera, ha impoverito il ceto medio, ha fatto i ricchi più ricchi e i meno ricchi più poveri. La cancellazione della verità nella comunicazione delle istituzioni – fatemi toccare un mio tema strettamente disciplinare - ha emarginato il principio della responsabilizzazione, come se Max Weber avesse scritto invano tutto quello che ha scritto. Il solo caso dell’introduzione dell’euro e del modo con cui è stata comunicata in Italia e in Germania mostra con evidenza cosa vuol dire pensare che un popolo non deve essere preoccupato, non deve capire; e un altro popolo deve invece essere allertato e deve farsi carico dei problemi che emergono. Del resto il caso della Grecia è sotto in nostri occhi per capire a cosa porta oggi l’occultamento della verità. Questo percorso è stato dominato dall’edonismo al servizio del rapporto tra consumi-pubblicità e televisioni, che – attenzione - ha anche generato spinte produttive, libertà competitive, non va sottovalutato questo; ma ha al tempo stesso rarefatto il clima di “patto” tra istituzioni, società, imprese e famiglie per una moderazione di alcuni consumi funzionale all’esigenza di disporre di risorse vere – dallo Stato alla famiglia – per investire nello sviluppo. Non si è più detto la verità attorno alla vitalità dell’agricoltura, non si è più detto la verità riguardo alla centralità della formazione tecnica, non si è più detto la verità attorno alla formazione di condizioni di crisi (ammissioni ultratardive e a buoi scappati), eccetera. Mi rendo conto che la questione è mondiale. Mi rendo conto che l’Italia è stata affascinata dall’idea di passare nel Regno del Bengodi senza sforzo. Mi rendo anche conto che avere alimentato un po’ di razzismo anti-immigratorio ha favorito la pericolosa consolazione che “noi siamo meglio”. Ma ora l’Italia che noi pensiamo di avere come soggetto forte di un presunto patto per lo sviluppo (essendo qui ipotizzato che Milano sia l’altro soggetto) è una sorta di evanescenza politica e una sorta di terremoto economico. In questa Italia il Mezzogiorno vede partiti e sindacati sostituiti da masanielli, cacicchi, partiti locali e molta, moltissima malavita. Roma – intesa come luogo della mediazione e del coordinamento (lo Stato soggetto generale dello sviluppo) è con il governo paralizzato (la fotografia è quella dei direttori dei sei giornali che fiancheggiano il governo), la Confindustria fuori giuoco, la Rai gestita in modo da non poter più credibilmente interpretare il paese. Resta a Roma la Conferenza episcopale che oggi affronta crisi e divisioni tutt’al più pensando di rifare la DC. Allora – per avviarmi alle proposte conclusive – fatemi tornare a Milano e alla discontinuità (l’espressione è di Marco Vitale che la coniuga con la parola “speranza”) che le modalità, le circostanze e le caratteristiche dell’elezioni di Giuliano Pisapia sta introducendo (pur nella fase ora di incertezze del cambio della guardia in corso). I discorsi programmatici sono ancora territorio delle buone intenzioni, è vero. Non ci sono dentro soluzioni. Ma c’è qualcosa di metodologico sempre da cogliere. Così che – rispetto a ciò che si è detto – fatemi fare questa citazione di Pisapia all’insediamento: “Qualcuno penserà che un discorso di insediamento serva solo per elencare le buone intenzioni. Ma so che la memoria può diventare un giudice micidiale: proprio per questo una buona intenzione – direi programmatica – la voglio ancora dire. Riguarda il rapporto con questa aula, attraverso cui si parla nel modo più istituzionale anche alla città, col proposito di dire la verità. Sapendo che Seneca ci ammoniva sul fatto che la verità “bisogna dirla solo a chi è disposto ad intenderla”.Io considero i miei concittadini in grado di misurarsi anche con problemi gravi, comunque disposti a fare la loro parte, ove informati e coinvolti”. Senza questo passaggio le piccolo proposte che vorrei avanzare sarebbero più in salita. Il grande compito che mi pare si profili per una squadra di governo della città che nasce nel patto tra sistema politico e sistema sociale (cioè con i partiti necessari ma non sufficienti e con la società non solo destinataria ma anche soggetto responsabile e co-decisionale) potrebbe essere (sempre senza perdere di vista i servizi da organizzare subito, le buone pratiche da avviare subito, la concretezza di atti che i cittadini aspettano da dimostrare subito) quella di delineare un poco alla volta il passaggio di una cultura politica dal modo in cui ha fatto deriva il soggettivismo al modo in cui si può declinare un’economia del noi. Ci sono attorno molti dibattiti. Ci sono punti di riferimento interessanti (si pensi al senso con cui il premio Nobel Amartya Sen tratteggia il rapporto tra giustizia ed economia). Il collega professore Pezzani – che parlerà tra poco – ha scritto di recente cose significative sulla “competizione collaborativa”. Eccetera. Non ho grande scienza al riguardo, ma intuisco una via concreta del laboratorio. Cominciamo dal bilancio. Il Sindaco, qui, non ha perso tempo a dire la verità. Non per polemica politica, perché operava sulle indicazioni degli stessi Revisori, ma per partire da un principio di responsabilità generale. Il buco c’è. E’ probabile che siano molti i sindaci alle prese con le casse vuote. E non vedo come si esca dal bivio dell’autosufficienza con incrementi impositivi per i cittadini o da una rinuncia a immaginare l’organizzazione aziendale del Comune come una fonte virtuosa dello sviluppo. Ma se da questi sindaci, dallo stesso sindaco di Milano, si allungasse l’idea che il federalismo fiscale non di facciata uscito da Palazzo Chigi per tener buona la Lega e Via XX settembre allo stesso tempo, fosse scritto dal buon senso delle amministrazioni locali, disposte – per codice di verità – a far vedere ai cittadini che una lira di tasse significa una lira investita per il benessere sociale e il quadro occupazionale, forse la Lega – che aspetta solo un segnale del genere – si smarcherebbe ulteriormente dalla condizioni un po’ ridicola che abbiamo visto a Pontida e forse i tempi di evoluzione della politica italiana si velocizzerebbero. Il patto Milano-Italia è anche questo. Secondo tema, l’etica del lavoro, la dimensione “sotto sforzo”. Nessuno auspica la cultura del sacrificio fine a se stessa. Nessuno sogna l’Italia del neorealismo. Per la carità. Ma nessuno pensa che oggi sia sano tenere le città senza economia produttiva per l’intero mese di agosto (magari attaccandoci un pezzo di luglio e un pezzo di settembre). Nessuno più pensa normale chiudere aziende e negozi per periodi prolungati. Nessuno può più pensare che sia sano tenere i ragazzi, gli studenti, tre mesi e mezzo in modo del tutto spensierato, al più a fare viaggetti di miglioramento dell’inglese. Il lavoro “sotto sforzo” non può più essere solo quello degli immigrati (che hanno due economie da reggere, la loro e quella delle famiglie rimaste altrove). I nostri studenti – anche medi – con forme assicurative adeguate possono impiegare almeno un mese in operosità sociale e in forme di servizio. Ci si può battere per ottenere forme fiscali non punitive da incrementi volontari delle prestazioni (qualcosa c’è già e può migliorare). Si può soprattutto ricreare un clima ora completamente perduto, che passa da messaggi concreti e da progetti attivabili. Il tempo di una relazione consente solo cenni. Ma la somma di questi cenni può essere utile agenda.
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