DAI TEMPI DI CRAXI CI MANCA UNA GRANDE POLITICA. IL VICOLO CIECO DEL PD, di Goffredo Bettini, da il Riformista, 13 aprile 2010
03 maggio 2010
Caro direttore, si sta consolidando un giudizio equilibrato, ma severo, sul voto. Non c’è la ricerca di una strumentale resa dei conti, e da più parti si è aperto un confronto per comprendere le ragioni di fondo di una ulteriore nostra sconfitta politica. Se mettiamo insieme l’astensionismo, il trionfo della Lega che si insedia anche nelle regioni rosse, il voto di protesta, si accentua la preoccupazione per una crisi democratica. Lo Stato italiano, storicamente debole, pare avvitato in una spirale di inefficienza e decadimento morale. Azzannato da mille corporativismi, egoismi e prepotenze resiste, come richiamo autorevole e disciplinante, solo la parola del Presidente Napoletano.
Ma se questa è la situazione, nel futuro non si tratta di fare qualche correzione, anche importante: studiare meglio i problemi e le proposte, calibrare e dare maggiore coerenza alle alleanze, o (lo diciamo ogni volta che perdiamo) tornare tra la gente, esortazione quanto mai generica e inconcludente.
Approfondire criticamente alcuni di questi aspetti è certamente utile. Più urgente e vitale è finalmente affrontare il nucleo vero della inadeguatezza della sinistra, che risale almeno dagli anni Novanta. La crisi della prima Repubblica, al contrario di quello che abbiamo pensato, ha messo in crisi, infatti, un sistema di rapporti tra politica e società di cui anche noi facevamo pienamente parte. L’idea di essere, dentro Tangentopoli, i “buoni”, ci ha esonerato dall’intraprendere un cammino di rinnovamento delle classi dirigenti, culturale e perfino di sguardo sulle cose. Assillati (almeno questa è stata la storia di molti di noi) dalla redenzione rispetto ai crimini del comunismo, ci siamo preoccupati più dei nostri peccati nel mondo, rispetto alle storture nostrane: un consociativismo di fatto pervasivo e soffocante che sottendeva anche le più aspre contrapposizioni parlamentari e politiche. Probabilmente, quando Craxi in Parlamento fece verso la sinistra una chiamata di correo, dovevamo rispondere con maggiore schiettezza politica: che noi eravamo generalmente esenti da arricchimenti personali, da cupole spartitorie di tangenti, da eccessi e ostentazioni (ed è cosa di non poco conto); ma che, tuttavia, ci rendevamo conto che il problema aperto non era essenzialmente giudiziario e chiamava in causa un intero regime, ormai stanco e decaduto, coda di un compromesso, anche sociale, inclusivo della sinistra.
La scorciatoia giustizialista ha evocato, via via, altre scorciatoie: è la stagione di quel “riformismo dall’alto”, che grazie alla statura di governo di Prodi, ha regalato spesso grandi risultati al Paese, ma mai una stabile e lungimirante strategia politica, in grado di scommettere sul futuro e di tenere nel tempo. Così dal ’92, in un susseguirsi di sussulti politicistici, abbiamo mosso la superficie del mare, senza mai illuminarne il fondo. Quella radice corrosa, è rimasta tale, e il nostro rapporto con gli italiani instabile e insicuro.
Non che siano mancati sprazzi anche lunghi di buona politica e di manovra intelligente e proficua. Altrimenti non si spiegherebbero tanti successi. Così come, nei territori, si è dispiegata mediamente una rilevante capacità amministrativa. Tuttavia è mancata la “grande politica”: quel misto di forza e carisma, che solleva agli occhi di una comunità una missione, unendo la stessa comunità, al di là della somma degli interessi dei singoli.
La Repubblica si è costruita con questo animo, e le forze democratiche, i partiti di massa, hanno lì trovato il loro nutrimento.
Questa assenza di vera politica, è stata tanto più grave in questi anni di crisi planetaria della politica; ragioni oggettive hanno aggravato la nostra perdita: sappiamo bene come la tendenza uniformatrice della globalizzazione ci schiaccia in un eterno presente, senza radici e senza futuro. L’Italia, Paese a identità debole, soffre più di altri.
La sinistra deputata per sua natura a trasformare, progettare, sperare, anch’essa soffre più di altri.
Per questo, nonostante i cambiamenti continui dei nomi, delle forme politiche, dei leader, delle piattaforme programmatiche, il nostro segnale è debole. Ci mancano i toni bassi e quelli alti. Navighiamo a mezz’aria, con tanta brava gente, ma con una classe dirigente sempre più insicura di se stessa e per questo autoreferenziale e dedita più al proprio destino personale, che ad una impresa collettiva. Rischiamo di non acchiappare né il popolo, restando senza terra, né le vere decisioni P che contano, restando senza cielo.
Da qui la sensazione che c’è un flusso impressionante di dichiarazioni, analisi giornaliere, polemiche che come vengono spariscono, lasciando il nostro campo sostanzialmente muto (quanti militanti ci domandano cosa vogliamo, per quali obiettivi lottiamo!). Appariamo senza parola; e come sapevano assai bene gli oratori e i politici antichi, la parola è potere. Distanzia, ordina, disciplina. La parola struttura il linguaggio, vera essenza della politica.
Si potrebbe dire: ma anche nel campo avverso le cose non stanno troppo bene. Si. La difficoltà di rapporti tra di loro, la incapacità di mantenere le promesse, la poca credibilità sono evidenti. Però, se si guarda bene, essi, in forme certo preoccupanti e negative, hanno tuttavia esercitato una maggiore forza politica. Hanno marcato un segno più chiaro, avvertibile, incisivo. I media e le tv, scandalosamente in mano del premier, non sono per lui semplice propaganda o mera occasione quantitativa per promuovere se stesso. Sono la forma politica del suo populismo. Un populismo mediatico; che, però, chiama in causa la gente, i suoi sentimenti, il suo bisogno di sicurezza e di identificazione, di nemici e di punti di riferimento. Il popolo è imbastardito, sottomesso a questo incanto che unisce potere e seduzione, ma non scompare. Così come in altre forme, non scompare nel rapporto con la Lega; la quale esercita un altro tipo di populismo: quello identitario.
Il populismo porta con sé l’estremizzazione dei toni e dei contenuti ed una certa rozzezza del messaggio. Ma pare essere, a giudicare dai risultati elettorali, la specifica forma che, nel precipitare della crisi della politica, la politica stessa conserva. Tant’è che esso contagia anche settori democratici e di sinistra.
Il problema è dunque quello di trovare la strada alternativa a tutto ciò. Ripeto: non solo di alleanze e di programmi, ma di linguaggio, di parola, di pratica e azione politica. Contenuti e modi sono inscindibili.
Per questo, non vedo altro che tentare una nuova stagione di attivazione democratica. Ma essa sarà possibile solo se salteranno intercapedini burocratiche e stanche, e il nostro popolo sentirà di contare, di avere potere reale, di poter decidere non solo, con le primarie, i dirigenti, ma anche le politiche e le scelte fondamentali. Ecco perché penso ad un campo largo, ad una idea larga di Pd: calamita di persone diverse, anche molto diverse, nell’esercizio della P loro responsabilità individuale, che si uniscono attorno ad un progetto e ad una speranza per l’Italia. Occorre far saltare rendite di posizione dei gruppi dirigenti, divisioni funzionali a conservare il potere dei leader, alcuni dei quali assai consumati, correnti, sottocorrenti, aggregati elettorali che si accendono solo per le preferenze e poi si spengono e si sottraggono alla vera politica. Si può obiettare: su questa strada si può perdere la rotta e un profilo di governo; aumenta la confusione e il radicalismo. Confido, in verità, molto di più su un processo di democrazia integrale fondato sul nostro popolo, che non sulle faticose mediazioni di vertice, sempre provvisorie e spesso paralizzanti. La democrazia, se presa sul serio, è rapida e porta a decidere e a condividere. Ma poi: il campo di riferimento sarà naturalmente il riformismo democratico e la vocazione di governo. Anzi, in un mare ampio si scioglieranno, anche nel centro sinistra, gli estremismi parolai e sarà più facile parlare anche a quei ceti moderati delusi da Berlusconi.
La differenza sarà, che non rimarremo, per esempio, fermi mesi (come è stato nel passato) per una divergenza sul testamento biologico, ma ci affideremo alla saggezza dei cittadini e dei nostri militanti, i quali spesso si sono dimostrati più lungimiranti di chi li guidava: e quando sarà necessario essere radicali, avremo più coraggio nell’esserlo; così come quando occorrerà assumere difficili scelte di responsabilità, avremo il consenso per farlo. on abbiamo altra scelta. Il populismo si combatte così. Il vecchio tipo di alleanze e la sommatoria delle sigle ci hanno portato in un vicolo cieco. L’autoreferenzialità del Pd, fondato sul minicompromesso storico tra ex comunisti ed ex democristiani, non è espansiva e ha tradito il Lingotto, l’ultimo serio tentativo (purtroppo per tanti errori fallito) di evocare una grande politica per la sinistra, innovativa e di popolo. Non si tratta di ripartire dai territori (che significa? nei territori c’è di tutto); si tratta di operare uno scarto temerario nella nostra pratica politica, chiamando davvero a condividere forza, potere, elaborazione, passione civile, milioni di democratici. È possibile? Si. Se si comincia dalla testa: rotazione degli incarichi, incompatibilità, nessuna eccezione sul cumulo dei mandati istituzionali, tranne per i segretari nazionali, riconoscimento di autorevolezza e merito, vaglio dei risultati nella scelta dei dirigenti e valutazione della loro concreta produzione di idee e di scritti. Potrei continuare. Ma ci siamo capiti. La riforma più difficile è quella verso se stessi. Se non si fa, se non si dà l’esempio, è difficile farsi prendere sul serio e candidarsi a cambiare le cose.