D’ALEMA: «A SINISTRA È VIETATA LA ROTTURA, PER TUTTI NOI È L’ULTIMA CHIAMATA» di Daniela Preziosi da Il Manifesto del 20 giugno
20 giugno 2017
Il colloquio. L'ex premier: un fischio non mi spaventa, ma insieme a tanto impegno al Brancaccio c’era dell’estremismo. La sfida di governo è doverosa. I civici facciano una svolta, servono tutte le forze. Con Pisapia ingenerosi, ho detto a Vendola: non è una creatura del renzismo.
Per dirla come la direbbe un comunista italiano, non si può dire che Massimo D’Alema sia stato convinto dalla riunione dei ’civici’ di domenica scorsa al Brancaccio.
«Da vecchio militante ho una certa esperienza di assemblee, in questa c’era un po’ di estremismo. A partire dall’introduzione di Tomaso Montanari», spiega a chi gli chiede un giudizio.
C’è dell’ironia. Ma la questione è seria.
D’Alema era in prima fila, a un passo dal palco, quando il combattivo giovane studioso ha elencato le colpe del vecchio centrosinistra. E, nel lungo elenco, ha scandito «la guerra illegale in Kosovo». D’Alema, che era il presidente del consiglio in quel marzo ’99, non ha mosso ciglio.
Ma ora replica: «Vorrei spiegare a Montanari che di questo fui accusato da un gruppo di giuristi. Poi la Cassazione emise una sentenza che archiviò tutto riconoscendo la piena legittimità del mio agire». Perché, spiega, l’art.11 della Costituzione dice che «l’Italia ripudia la guerra» eccetera, «ma poi anche che consente alle limitazioni di sovranità necessarie agli obblighi derivanti dai trattati internazionali». La conclusione è tagliente: «L’accusa è decaduta, se lui la rilancia è una calunnia».
Non che intenda passare alle carte bollate, l’ex presidente del consiglio. Ma «il mondo è complesso, prima di parlare meglio informarsi, non ci si aspetta da un illustre storico dell’arte una sortita inutile e dannosa. Non si fanno battute a caso, tanto più se si lavora ad unire la sinistra».
Segue racconto dei suoi ritorni in Serbia, dei giovani che lo hanno ringraziato perché quella guerra fu l’inizio «del ritorno alla libertà». Ma questa sarebbe un’altra storia.
FATTA QUESTA PREMESSA – come dire, patti chiari per un’amicizia lunga – torniamo all’assemblea del Brancaccio. Che D’Alema ha seguito dall’inizio alla fine, cinque ore incollato alla poltrona («sono un professionale, se partecipo a un’assemblea non ’passo’ per fare finta, e poi avevo un’autentica curiosità»), incastrato fra Luciana Castellina e Nichi Vendola.
LA PRIMA IMPRESSIONE «è che ci fosse un certo furore iconoclasta, non contro Renzi ma contro tutti». Soprattutto contro l’ex sindaco di Milano, bersaglio di salve di fischi per interposto senatore Gotor, che ha parlato dal palco resistendo alle interruzioni.
«Il becerare contro Pisapia e i fischi a Gotor non portano lontano. Gli organizzatori dovevano fermarli, sono inutili anche alla causa che cercano di sostenere. Altro segno di estremismo e settarismo, l’avversione verso il più vicino: quello più lontano è un avversario, quello più vicino è il traditore».
SEMBRANO PREMESSE POCO incoraggianti per chi si è assunto la fatica erculea di unire la sinistra, una sinistra così. E invece il senso del ragionamento di D’Alema è un altro. Opposto. A dispetto delle premesse.
Ed è un appello, un’ultima chiamata. «La situazione del paese è grave, persiste la difficoltà italiana di agganciare la ripresa, persistono le gravissime diseguaglianze, c’è un enorme problema disoccupazione giovanile, e l’attuale guida del governo, che pure ha fatto delle cose sui diritti civili, non appare in grado di imprimere la svolta necessaria al paese», dice.
«Il paese va verso elezioni in cui le alleanze saranno due: quella del Pd con Forza italia da una parte, quella di Grillo con Salvini dall’altra. Un’alternativa diabolica, nessuna in grado di portare il paese fuori dal disastro».
Dunque non c’è scelta, «dobbiamo raccogliere tutte le forze e mettere in campo un’altra possibilità. Nell’assemblea, fra qualche eccesso estremistico di cui dicevo, si è espressa però anche una ricchezza di risorse, di militanza e impegno civile, quello che i partiti – che non sono autosufficienti – debbono ascoltare. Ma quello che non ho avvertito è l’urgenza e la responsabilità di una sfida di governo. E invece dobbiamo offrire al paese una chance. Anzi, è il nostro dovere».
SENZA SCADERE nelle accuse di minoritarismo, nei fatti quella del governo non è stata la preoccupazione principale degli interventi. Neanche in quelli «di linea» dell’avvocata Falcone e del prof Montanari.
«Ecco. In un altro contesto potremmo intrattenerci con l’idea di lungo periodo di ricostruire la sinistra. Oggi però chi lo pensa manca di senso di responsabilità, di senso della gravità della situazione», di analisi insomma, «e non possiamo permettercelo».
DI QUI ARRIVA AL CUORE del ragionamento: «La rottura» è quello «che non possiamo permetterci», e il problema non sono i fischi, «non ci spaventano», il punto è che «spetta a chi ha voluto l’iniziativa del Brancaccio promuovere una svolta rispetto a quell’atteggiamento contraddittorio».
Nel vicolo stretto dell’unità siamo già arrivati al crocevia «svolta o rottura», eterna pietra d’inciampo del centrosinistra.
Ma i fischi, è l’obiezione, non sono un segno di primitivismo, insomma quanti fischi – da quelli contro Berlinguer dei socialisti di Craxi – hanno significato serissimi contrasti politici, ancorché sonanti e sibilanti?
La proposta di primarie con il Pd, la scelta di Pisapia: l’assemblea ha detto il suo no a questo. Fischiando, facendo un po’ di chiasso.
«GUARDI, ERO VICINO a Vendola, gli ho ricordato che Pisapia non è una perfida creatura del renzismo. E comunque quest’atteggiamento è ingeneroso. Io lavoro all’idea di una lista aperta alla società civile, che non sia un cartello di partiti» tipo lo sfortunato Arcobaleno di Bertinotti, «che incalzi il Pd sui contenuti, con l’idea che in questo paese l’alternativa alla destra si può fare solo con un centrosinistra marcato da una discontinuità. Sa cos’è?», no, «sono le parole di Pisapia a Milano, all’iniziativa di Art.1, e le condivido».
«Falcone e Montanari capiranno che non c’è apertura se ci si prende a pernacchie. Dicono ’passiamo ai contenuti’: bene, al Brancaccio in mezzo a qualche follia ho sentito cose interessanti, si possono sviluppare. Ma è strumentale dire che non sappiamo cosa pensa Pisapia dei voucher: ha espresso solidarietà alla Cgil».
RESTA QUELLA PROPOSTA indecente di primarie con il Pd, quella relazione pericolosa con Renzi. Che anche D’Alema notoriamente non condivide.
«Consideriamolo un eccesso di generosità destinato a fallire, anzi già fallito visto che Renzi – ma che disinvoltura è quella di chi passa in un’ora dall’alleanza con Berlusconi a quella con Pisapia? – gli ha proposto un pugno di posti. Ci fa piacere pensare che era una proposta così implausibile da essere stata fatta apposta per essere rifiutata».
IN OGNI CASO PER D’ALEMA questa proposta non c’è più, respinta dallo stesso Renzi. Quindi, i ’civici’ sono a un bivio: «Abbiamo un disperato bisogno di lavorare su quello che ci unisce, e non lasciarci affliggere dalla malattia mortale della sinistra ovvero l’entusiasmo per ciò che divide. Dobbiamo sentirne il dovere».
TUTTO MOLTO BELLO, ma qualcosa non torna. Per il Fatto lei ha detto che Pisapia è un «cog..one».
«Non è vero, non l’ho mai detto. Non mi dilungo perché la mia saggistica sul giornalismo italiano è già vasta». E poi, «sono diventato buono, so che i giornalisti hanno nostalgia del D’Alema cattivo ma invece, vede, ho ascoltato quelle calunnie sul Kosovo e sono rimasto seduto. In altri tempi mi sarei alzato e me ne sarei andato. A proposito, andrò a piazza Santi Apostoli il primo luglio, lo considero un mio dovere di militante».
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