COSSIGA di Luciano Cafagna da Mondoperaio n.9 Settembre 2010
14 ottobre 2010
Sono state centinaia le testimonianze che si sono affollate in occasione della morte di Francesco Cossiga. C’è da chiedersene il perché. L’uomo non può essere considerato un grande eroe, né positivo né negativo, della storia nazionale. Ma vi è indubbiamente qualcosa di singolare nella sua presenza in un momento di svolta della nostra vicenda recente. In questa Cossiga ha certamente avuto uno strano e particolarissimo protagonismo, caratterizzato da un succedersi d’incarichi di prima linea senza precedenti nella storia repubblicana: fu quasi senza interruzioni – dopo il drammatico episodio del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro – presidente del Consiglio, presidente del Senato e presidente della Repubblica. Cossiga fu, in effetti, uno degli ultimi esponenti della lunga catena della classe politica democristiana nella storia della Repubblica, forse l’ultimo se si considera l’età anagrafica. I meriti di Cossiga non sono certamente da porre in prima linea, eppure la sua carriera fu comunque la più ricca. E questo suscita un certo stupore. Quasi non si comprende, ad esempio, come sia stata possibile la “tripletta” dei suoi successivi incarichi alla testa del governo, poi della Camera Alta e infine alla presidenza della Repubblica. La spiegazione di questa strepitosa ascensione sta certamente più nella crisi dei tempi, che non in una eccezionalità dei meriti del personaggio: lui stesso ebbe a insinuare – in un dialogo con Bruno Vespa- che queste nomine dipendessero proprio dal suo non essere un personaggio di prima fila. Al tempo stesso appare difficile legare il grande interesse sul suo nome in occasione della scomparsa alla importanza stessa degli incarichi rivestiti. In questo interesse c’è qualcosa di speciale: è stato quasi come se ciascuno di coloro che intervenivano a parlarne avesse avuto con lui un suo proprio rapporto particolarissimo. E in effetti egli non risparmiava a qualsiasi interlocutore la testimonianza di un’intimità esistente da sempre e quasi addirittura esclusiva. Cossiga apparteneva insomma a quel genere di persone che tendono a dare all’interlocutore l’immediata sensazione di un rapporto unico e privilegiato. C’è probabilmente quindi una relazione fra questo suo calore comunicativo e la quantità di testimonianze che lo hanno accompagnato dopo la sua fine. Ma sarebbe un grave errore perdere di vista il fatto, questo sì storicamente rilevante, della singolare coincidenza che la sua presenza al vertice dello Stato ebbe con la svolta storica del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, che coincise temporalmente con gli ultimi due anni del suo settennato al Quirinale, nei quali emerse la figura, quasi folle, del “picconatore”. Non è semplice coincidenza che nel frattempo venissero maturando nel mondo e in Italia le conseguenze della storica caduta del Muro di Berlino. Cossiga prese coscienza rapidamente dei mutamenti che quell’evento comportava nelle coordinate geopolitiche della nostra storia. Qualunque dubbio o riserva si voglia avere sul suo modo di reagire agli eventi, si deve riconoscere che non solo ebbe la giusta percezione della portata di quell’evento, ma che si preoccupò d’influire su un adeguamento della situazione politica italiana a quel nuovo stato di cose. Sta forse qui il punto più interessante e delicato della presenza politica di Francesco Cossiga nella storia italiana, dopo la terribile e luttuosa responsabilità assunta da lui, come ministro dell’Interno nel 1978, nella circostanza del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro. Egli percepì infatti senza riserve, dopo la caduta del muro di Berlino, che stavano venendo meno le condizioni che avevano determinato per decenni la conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti, e cercò, sia pure con la ruvidezza che gli era propria, di far capire a coloro che guidavano il partito comunista tutta la portata del mutamento che da quell’evento derivava nel rapporto con la questione del socialismo. Per i comunisti italiani infatti, non si trattava soltanto di ridefinire il proprio rapporto con la democrazia liberale, ma anche, e forse soprattutto, dell’adesione a una versione democratica, occidentale, europea di socialismo. Ad Occhetto, che di quel partito in ambiguo e imbarazzato mutamento era il capo e che reagì in modo irritato, Cossiga diede senza pietà dello “zombie”: lo “zombie” c’era, ma l’imputazione, a voler essere giusti, non riguardava una persona, ma l’intero partito, che si era lasciato cogliere di sorpresa da un cambiamento larghissimamente annunciato dalla storia. Cossiga in quella circostanza non poté esercitare alcuna funzione di traghettatore da una fase storica a un’altra, funzione cui probabilmente aspirava. Si trovò inoltre in una difficoltà, praticamente simmetrica, con Bettino Craxi, col quale pure aveva avuto sino a quel momento una buona sintonia: Craxi avrebbe potuto essere il vero vincitore di quella vicenda storica e invece ne fu, per molti aspetti paradossalmente, la vittima più drammaticamente sacrificata. Il socialismo, la socialdemocrazia, il laburismo, che avrebbero dovuto essere il naturale luogo di sbocco “europeo” della vicenda per tanti versi positivamente ambigua del partito comunista di Gramsci e di Togliatti, furono invece, in modo drastico, storicamente espulsi dal futuro dell’Italia, per fare posto alla semplice promozione strategica del vecchio berlingueriano “compromesso storico”: insomma, non la socialdemocratizzazione dei comunisti, ma una reinvenzione completa di una sinistra per metà ex comunista e per metà ex democristiana. Anni dopo, nel ’98, Francesco Cossiga tentò di dare un seguito alla sua iniziativa precedente, facendosi promotore del primo governo avente a capo un ex comunista, il governo di Massimo D’Alema. Cossiga era ormai fuori del binario e tuttavia l’azione riuscì, ma il senso non era più lo stesso: i tempi e le condizioni erano irrevocabilmente cambiati. Fu il suo ultimo gesto politico rilevante. Ormai altri erano i protagonisti della scena politica italiana: non erano migliori dei precedenti e forse è anche questo il motivo implicito della vastità e intensità delle attenzioni che ha suscitato, nell’agosto del 2010, la scomparsa di questo politico di altri tempi.
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