COSÌ FINISCE LA SECONDA REPUBBLICA di PAOLO FRANCHI, da il Corriere della Sera di martedì 22 febbraio 2011

21 marzo 2011

COSÌ FINISCE LA SECONDA REPUBBLICA di PAOLO FRANCHI, da il Corriere della Sera di martedì 22 febbraio 2011

Michele Salvati è stato e resta un convinto sostenitore dell'alternanza. Ma prende atto sul Corriere che «questo bipolarismo sgangherato non funziona». E dichiara di dubitare che «un'alternanza bipolare tra coalizioni eterogenee» sia in grado di venire a capo della crisi italiana. Persino nel caso (tutt'altro che scontato) di un'uscita di scena di Silvio Berlusconi.
Sottoscrivo, ovviamente. Ma penso anche che, se il nostro bipolarismo è stato sin dai suoi primi passi così selvatico e così ostile a misurarsi con spirito bipartisan con le riforme necessarie per il Paese, qualche motivo di fondo deve pur esserci. E che sarebbe bene, magari tra una puntata e l'altra del Ruby-gate, provare a ragionarci su. Cominciando con il chiedersi se il vizio di fondo del bipolarismo all'italiana non sia iscritto già nel suo atto di nascita, nella prima metà degli anni Novanta. Non è il caso di annoiare l'uditorio con storie lontane e in gran parte dimenticate, ma bisognerà pure ricordare che tutto il decennio precedente fu segnato dal confronto (e dallo scontro) sulle più o meno grandi riforme politiche e istituzionali necessarie per sbloccare la democrazia italiana, avviandola finalmente sulla strada dell'alternanza. Il guaio è che non si cavò un ragno dal buco: l'incapacità (o meglio la scarsissima volontà) di procedere a una profonda autoriforma di un sistema che, senza cambiamenti, diventava sempre più simile a un termitaio -è probabilmente la responsabilità più grave dei gruppi dirigenti della cosiddetta Prima Repubblica, una sorta di suicidio politico collettivo. In assenza di una consapevole evoluzione riformatrice, il bipolarismo prese sì corpo, però a tenerlo a battesimo furono i referendum e la rivoluzione giudiziaria. E la creaturina bipolare era ancora in fasce quando Berlusconi provvide, con la sua discesa in campo, a darle l'impronta e a segnarne il destino.
Correva l'anno 1994, i partiti tradizionali, con la parziale eccezione dell'allora Pds e dei Popolari, non c'erano praticamente più. Iniziava allora la lunga stagione delle «coalizioni eterogenee» di cui parla, giustamente peggio che critico, Salvati: di qua Berlusconi e i suoi, di là i nemici di Berlusconi. Ci siamo ancora dentro, e rischiamo di annegare, ma non sappiamo come uscirne, se non invocando da un lato improbabili passi indietro, dall'altro papi (nel senso di pontefici) stranieri. I tentativi di dare un ordine a questo caos, creando per cominciare le condizioni di quella reciproca legittimazione tra le forze in campo senza la quale ogni appello bipartisan rischia di diventare retorico, non sono mancati, dalla Bicamerale di Massimo D'Alema al semi bipartitismo vagheggiato nelle ultime elezioni politiche da Walter Veltroni e guardato con qualche interesse, almeno all'inizio, dallo stesso Cavaliere: storie molto diverse maturate in tempi molto diversi che hanno però in comune un esito decisamente infausto. Tra il '44 e il '48 i padri fondatori della cosiddetta Prima Repubblica hanno fatto la Resistenza e la Costituzione, garantendo in tempi di fortissimi scontri ideologici la convivenza civile tra gli italiani (per fortuna almeno Gianni Morandi se ne ricorda) e gettando le basi della ricostruzione. Tra il '94 e il zou i (presunti) fondatori della Seconda non solo non hanno fondato nulla, ma sono riusciti a fare della politica, come giustamente annota Salvati, una parte (fondamentale) dell'aggravamento dei problemi, non certo della loro soluzione. Quella che stiamo vivendo, si dice, è la fine (tutto sta a vedere quanto lunga e quanto dolorosa) del lungo ciclo politico di Berlusconi e del berlusconismo. Sempre che sia vero, però, non sono soltanto Berlusconi e í1 berlusconismo a tramontare: è l'intera, infinita transizione italiana a finire nel nulla, anche perché sin dall'inizio non aveva una meta condivisa, e non ha saputo (o voluto, o potuto: fa lo stesso) trovarla strada facendo, nonostante il moltiplicarsi dei segnali di allarme. Da una simile situazione è impossibile uscire, annota Salvati, investendo ancora sulle «coalizioni eterogenee» di cui sopra, macchine costruite per cercare di vincere le elezioni, non per governare. Verissimo. Il guaio è che, prima ancora delle coalizioni, «eterogenei» sono i partiti, o i loro simulacri attualmente su piazza, a cominciare dai due più grandi, il Pdl e il Pd, che di eventuali coalizioni «vere» dovrebbero essere il perno. A tenere insieme il primo, un partito proprietario senza raffronti nelle democrazie, continua a provvedere (fino a quando?) Berlusconi. A tenere insieme il secondo, antiberlusconismo a parte, non si sa esattamente chi e che cosa. Entrambi danno l'impressione, o qualcosa di più, di essere sempre alla vigilia nel migliore dei casi di una scomposizione, nel peggiore di un'implosione. Ma, a conti fatti, non si scompongono e non implodono. Resistono come se l'impotenza di ciascuno dei due fosse in qualche modo complementare a: quella dell'altro. Simul stabunt, simili cadent? Forse è eccessivo metterla in questi termini. Ma sicuramente una parte essenziale del problema, si creda ancora o no alla possibilità di un bipolarismo finalmente virtuoso, sta proprio qui.

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