CORBYN, IL PERCHE’ DI UNA SCONFITTA di Alberto Benzoni del 16 dicembre 2019

16 dicembre 2019

CORBYN, IL PERCHE’ DI UNA SCONFITTA di Alberto Benzoni del 16 dicembre 2019

Alla domanda sul perché avessero perso, i dirigenti laburisti hanno risposto senza girarci intorno ma in modo assolutamente opposto. Il che fa intravedere una spaccatura profonda e tale da mettere a rischio il futuro stesso del movimento. Alcuni hanno messo sotto accusa Corbyn per il suo atteggiamento sulla Brexit ma anche e soprattutto per la sua politica e per la sua stessa personalità. Altri hanno puntato il dito sulla Brexit e cioè sul contesto in cui si è svolta la campagna elettorale; l’unico elemento, a loro dire, suscettibile di giustificare il fatto che un leader, in grado di coinvolgere, per quello che era ed è, centinaia di migliaia di nuovi iscritti e, successivamente, di portare il suo consenso elettorale su livelli appena appena inferiori a quelli del primo Blair, sia stato, a due anni da quella data, nettamente sconfitto.
Personalmente, considero Corbyn un fratello; o più esattamente una persona per cui provo un’empatia esistenziale. Rimane, però, il fatto che la sua sconfitta era segnata in partenza; a partire da un contesto che, se due anni fa era orientato, in buona parte, a suo favore, oggi gli era completamente ostile.
Parliamo della assoluta centralità del tema della Brexit. Di una proposta, corretta di per sé ma oramai fuori tempo. Dell’atteggiamento dell’establishment e dei media. E , infine, e forse soprattutto, di un antagonista del tutto diverso da quello tradizionale.
“Get Brexit done”, liberamente tradotto; “abbiamo fatto una scelta; portiamola a termine”. Questo lo slogan con cui Boris Johnson ha costruito e stravinto la sua campagna elettorale, radendo al suolo le roccaforti operaie da sempre laburiste. A riprova del fatto che, al dunque, la questione dell’identità o, se preferite, dell’appartenenza nazionale prevale sempre, dico sempre, su quella di classe.
Su questo tema i laburisti partivano svantaggiati anche per un altro motivo. I conservatori si sono presentati al voto avendo praticamente cacciato dal governo e dalle liste i sostenitori del “remain”. Ma perché avevano messo in conto e considerato sostenibile il rischio di perdere anche i loro voti. Primo perché se lo potevano permettere, data l’entità delle loro maggioranze in tutta l’”Inghilterra profonda” dei sobborghi, dei piccoli centri e delle grandi campagne; e a fronte del guadagno certo derivante dalla mancata presentazione delle liste di Farage. Anche l’elettorato di Corbyn era composto, in maggioranza, da sostenitori della Brexit; ma, a differenza di Johnson, per vincere aveva assoluto bisogno di mantenere quello europeista. E, a ricordarglielo, c’era nella direzione e in Parlamento, un nutritissimo gruppo di persone pronte a fargli la pelle se se ne fosse dimenticato.
Da qui la sua proposta non solo equilibrista ma anche equilibrata: prendere atto del fatto compiuto ma per negoziare un nuovo accordo più sociale nei suoi contenuti e più europeo nei suoi rapporto; per sottoporlo ad un nuovo referendum. Proposta corretta. Ma fuori tempo massimo. E che, per diventare realistica, avrebbe dovuto avere il consenso del parlamento uscente e, soprattutto, degli oppositori di Johnson durante la campagna elettorale.
Due obbiettivi mancati. Perché la Camera dei Comuni ha sì continuamente bocciato le proposte del governo sulla Brexit e sulla stessa gestione del negoziato; ma, contestualmente, ha bocciato tutte le proposte alternative nate in Parlamento. E, soprattutto, perché la classe dirigente liberal-liberista, dalla City, ai partiti, ai media, ha fatto di tutto per impedire quell’intesa, anche tattica, suscettibile di sconfiggere Johnson (sarebbe bastato l’invito a un voto tattico sul candidato che, in un determinato collegio, era il meglio piazzato per battere quello dei tories).
Per capire il perché di tutto questo basta aver letto l’Economist, il suo organo di riferimento. Prima della campagna elettorale, fari puntati sul Premier, sul suo dilettantismo sbruffone, sul suo disprezzo per le regole e sulla oggettiva pericolosità della sua strategia. Ma, nel corso del film, la sua figura appare sempre più sfocata; per essere sostituita da quella di Corbyn, in una campagna d’odio francamente senza precedenti contro il Nostro e i suoi compagni: incompetenti, tiranni, stalinisti, filo terroristi, stupidi, antisemiti, fanatici, rovinosi per l’economia e per la società e, chissà, magari anche pedofili.
Finchè si è ragionato, tutto il discorso della rivista avrebbe dovuto portare ad una indicazione di voto a favore di tutti i partiti ostili alla Brexit dura e a Johnson e, quindi, alle loro intese magari solo tattiche; ma davanti al drappo rosso sono saltati i nervi e si è offuscato il cervello, con l’invito a dare il voto ai liberaldemocratici, così da far vincere i conservatori senza pagare dazio.
Ciò detto per dovere di cronaca, l’elemento nuovo e, questo sì, decisivo è stato la reinvenzione del conservatorismo inglese. Qui siamo molto lontani sia dai Macmillan del primo ventennio postbellico, tutori del welfare e della decolonizzazione e mediatori nati in omaggio allo spirito dei tempi. Ma anche dal revanscismo ringhioso alla Thatcher come dalle strette alla spesa pubblica dei governi più recenti. Qui il candidato premier e i suoi più stretti collaboratori dedicano tutto il loro tempo a visitare le terre care a Ken Loach promettendo una Brexit muscolare e, insieme, protezionistico, oltre a spese pubbliche, servizi e tutele di ogni genere (ivi compreso l’omaggio caloroso al National Health Service).
Di fronte a un avversario del genere, la sinistra si è sinora dimostrata impotente. Sia nel modello incarnato dal Pd; sia in quello, opposto, di Corbyn. Questa la triste verità. Questa, ahimè, la catastrofe storica; che richiede silenzio e riflessione e non capri espiatori e risse scomposte.

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