CONFERENZA PROGRAMMATICA DEL PSI Roma 27 febbraio - Relazione introduttiva di Roberto Biscardini
08 aprile 2010
Oggi è il giorno della presentazione delle liste per le elezioni regionali del 28 e 29 marzo.
Io sono reduce personalmente da un’impresa difficile insieme Pia Locatelli, quella della raccolta delle firme per la presentazione delle liste del PSI a Milano e in Lombardia. Le abbiamo presentate ovunque, ce l’abbiamo fatta a Milano, a Bergamo e in altre province. Da domani abbiamo così le carte in regola per denunciare una legge fatta apposta per penalizzare le formazioni più piccole. Incongruente perché le firme da raccogliere non sono neppure proporzionali al numero degli elettori. È una legge che si presta ad ogni possibile deformazione delle regole della democrazia. Abbiamo fatto questo lavoro con dignità, senza l’aiuto di nessuno, nemmeno di coloro che per logica politica avrebbe potuto darcelo. Abbiamo misurato le nostre forze e abbiamo dimostrato concretamente la nostra esistenza la dove ci siamo.
D’altra parte la decisione di presentarci con il simbolo del PSI ha fatto scattare la voglia di esserci che non vedevamo da tempo. Utilizzeremo questo lavoro dato come punto di partenza della nostra riorganizzazione.
Scusatemi per questa premessa. E arriviamo alla Conferenza programmatica.
1. Sulla conferenza programmatica
Dopo la “quattro giorni di Vieste” del settembre 2008, con alle spalle le elaborazioni prodotte nell’ultimo anno dalla rivista Mondoperaio ed in particolare quelle del seminario del 9 settembre scorso, ci ritroviamo oggi qui per un appuntamento voluto dalla Segreteria Nazionale dedicato ad una riflessione di natura programmatica.
Come ho già avuto modo di dire, una Conferenza programmatica può avere diversi obiettivi. Può perfezionare e definire il programma della propria azione parlamentare e di governo, ma non è il nostro caso.
Si può fare per andare sui giornali e sulle televisioni, ce lo auguriamo, ma farla solo per questo sarebbe poca cosa.
Noi l’abbiamo organizzata e la facciamo soprattutto per noi.
Per promuovere e orientare la nostra futura azione politica, affinché sia più convinta, efficace e mirata, segno contemporaneamente di continuità e di rilancio.
E la facciamo anche per mettere alla prova la nostra identità.
Non l’identità chiusa nella memoria del passato. Non l’identità di una persecuzione avvenuta anni fa, oggi inservibile e insufficiente a garantire la nostra comunità. Non l’identità come identificazione con un’organizzazione di partito, autoreferenziale o celebrativa di gruppi dirigenti nazionali o locali.
Ma l’identità, come insieme di quel patrimonio culturale e di idee del socialismo che è andato formandosi nel corso dei decenni e che nell’attualità politica del momento è nostro dovere preservare e aggiornare. Per preservare e aggiornare noi stessi e le nostre idee.
L’incontro di oggi è quindi un appuntamento politico importante, anche se limitato nel tempo a disposizione, organizzato non per imbellettare la nostra azione politica o la nostra immagine, ma per qualcosa di molto più significativo.
Da questo punto di vista, la conferenza potrà segnare l’inizio della ripresa politica del PSI come forza che non intende consegnare ad altri la continuità della propria esistenza.
Facciamo il punto.
Nella tradizione, le Conferenze programmatiche sono state un’istituzione tipica della Prima Repubblica. Quella dei partiti e delle grandi organizzazioni collettive, che il crollo di quella Repubblica ha trascinato con sé.
I partiti della Seconda Repubblica, sia quelli che hanno un carattere monotematico, come la Lega o l’IDV, o quelli che aspirano a rappresentare grandi aggregazioni di poteri e di interessi, come il PDL o il PD, di tutto hanno bisogno fuorché di una riflessione complessiva su sé stessi e il mondo che li circonda. E se devono trasmettere messaggi a categorie particolari o alla pubblica opinione in generale, utilizzano strumenti più diretti, puntano su “effetti annuncio”, anche se spesso contraddittori tra loro.
Il PSI, da questo punto di vista, piaccia o non piaccia, conserva ancora alcuni tratti dei partiti di allora. Cioè, è un partito che crede nel valore della politica, crede nella politica come impegno civile per il bene comune, conserva i propri valori, ma li rinnova adeguando le politiche alle esigenze del momento, conserva l’identità come elemento centrale del “vivere politico”.
Per questo l’elaborazione programmatica rimane parte essenziale del suo progetto. Una tappa che affrontiamo con realismo, senza presunzione, ma che non può non partire dall’analisi del rapporto tra identità socialista e Seconda Repubblica.
2. L’identità socialista e la Seconda Repubblica
Il socialismo, il socialismo democratico, quello presente sulla scena europea e mondiale, da sempre, non si identifica con le singole persone, men che meno con la personalizzazione della politica. È insieme un modello e un processo in cui la democrazia politica e la democrazia economica procedano di pari passo, sotto la spinta della collettività sino ad arrivare ad un sistema “universale”: una scuola, una sanità ed un sistema di sicurezza sociale “per tutti”.
Il socialismo è un orizzonte cui tendere, ma il senso del limite è parte integrante della sua mentalità, profondamente laica purché libera.
È un orizzonte che talvolta si può allontanare, in un percorso che vede graduali avanzate ma anche drammatici arretramenti.
L’esatto opposto di ciò che la Seconda Repubblica vorrebbe dalla politica.
Le difficoltà dei socialisti stanno tutte quindi in questa considerazione: nell’organizzazione come nella produzione delle idee, i socialisti sono estranei in modo costitutivo al sistema politico della Seconda Repubblica.
Infatti la sorte dei socialisti dopo la “rivoluzione” di Tangentopoli è nota. Molti di loro sono trasmigrati a destra dove hanno trovato fortuna, nel migliore dei casi come tecnici ed esperti di un “riformismo” non ulteriormente qualificato. Altri sono confluiti nel PD per finire in una sorta di “buco nero”, senza voce e senza visibilità. Noi, invece, all’interno dell’unica comunità socialista organizzata operante a sinistra, siamo costretti ad una lotta per la sopravvivenza, collettiva e individuale, in un ambiente perennemente ostile. Con la contraddizione che ci trasciniamo da quindici anni, di non aver avuto nessun vantaggio reale e nessun riconoscimento per essere stati coerentemente a sinistra. La convivenza con i partiti della stessa coalizione è sempre stata una convivenza sofferta. Anzi, diamo fastidio.
E dal punto di vista dell’idea, quella del socialismo ha avuto la stessa sorte degli uomini, tanto che il maggior partito del centrosinistra, il PD, lo considera sostanzialmente inattuale e non utilizzabile.
Questa crisi – dei socialisti come comunità organizzata e del socialismo come idea – si accompagna alla crisi del modello socialdemocratico su tutti i fronti.
Così registriamo la crisi del welfare universale, con l’erosione della base fiscale, l’estendersi delle misure di sostegno basate sulle “carta della povertà”, sui buoni e sui vouchers, delle clientele e delle raccomandazioni. Così la scuola e sanità pubblica vengono intese sempre più come un elemento del quadro e non come una missione istituzionale. Così, pur con governi di diverso colore, i livelli di disuguaglianza sono in costante crescita.
Nello stesso tempo, noi siamo consapevoli che la crisi del socialismo è interna alla crisi della sinistra. La crisi della sinistra è interna alla crisi del sistema politico. La crisi di questo sistema è interna alla crisi dello Stato e, come dice Rino Formica, è interna alla crisi ideologica della Carta Costituzionale.
Ed è per questo che bisogna partire dalla crisi dello Stato, per prendere il toro per le corna.
Mettendo mano alla crisi della democrazia, che si è indebolita quando è stato posto il rafforzamento del potere personale a fronte di un indebolimento dei partiti.
Quando si è voluto svalutare la politica e il sistema pubblico per valorizzare il privato e la cosiddetta “società civile”. Quando c’è stata una materiale convergenza nel disegno istituzionale ed elettorale da parte dei due maggiori partiti.
3. L’identità socialista e il movimento per la Terza Repubblica
La Seconda Repubblica è stata ed è la nemica principale della causa socialista e della democrazia in tutte le sue manifestazioni.
Lo è nella sua costituzione materiale, tanto più robusta e tanto più forte quanto più quella formale è debole e contraddittoria. Lo è soprattutto negli schieramenti che vi si contrappongono al suo interno, occupando tutto il campo e blindando le regole del gioco.
Parliamo dei populisti (a vocazione autoritaria e dispregiatori delle regole) e dei giustizialisti. Parliamo di berlusconismo come idea che le istituzioni, a partire dal Parlamento e da tutti gli altri organi elettivi, insieme alle regole siano un freno al “fare”.
E così il “fare”, utilizzato come emulazione del bene assoluto, è in realtà esautorazione della responsabilità politica.
Basta considerare il caso della Protezione civile, delle authority o dei tanti commissariamenti, versione aggiornata delle vecchie agenzie, forme aggiornate di disgregazione della pubblica amministrazione, mostri giuridici, non soggetti a controllo, manifestazioni diffuse di spappolamento dello Stato, a cui la sinistra ha dato il suo avvallo.
Parliamo quindi dei berlusconiani e degli antiberlusconiani. Ambedue figli legittimi di Tangentopoli. Ambedue in forte contrasto sulle conclusioni da dare alla “rivoluzione dei primi anni novanta”. Gli uni invocano la Repubblica della maggioranza e del leader e gli altri la Repubblica sotto tutela dei giudici. Ma nella sostanza, fin d’allora, convergenti nel contrastare i principi di fondo della democrazia liberale. E senza cultura di governo democratico del paese.
Per noi socialisti non si tratta di essere quindi meno antiberlusconiani di altri, ma di esserlo in modo diverso e più efficace. Anche noi vorremmo mandare a casa Berlusconi, ma il problema è con quali strumenti e su quali proposte.
L’analisi che abbiamo fatto in questi anni adesso deve essere più impietosa.
Più volte abbiamo ripetuto come le promesse che sono state alla base della Seconda Repubblica e del movimento referendario siano state disattese. Non è diventato più forte il rapporto fra eletti ed elettori. La governabilità non è migliorata. Il sistema politico non si è semplificato. Non si è realizzato un equilibrio istituzionale più stabile fra poteri diversi dello Stato. Anzi, l’esatto contrario. I poteri sono andati tutti in conflitto. Il bipolarismo realizzato non è quello maturo delle grandi democrazie occidentali. È sorretto da leggi elettorali “bastarde” senza la forza della politica.
Non esiste più un’istituzione costituzionale credibile. La crisi ha investito anche il sindacato.
E il ceto politico non è meno corrotto di prima. Non c’è finanziamento illegale o irregolare della politica, ma c’è arricchimento individuale di chi si mette in politica.
I partiti forti erano responsabili del finanziamento illecito. E ora, i partiti deboli, sono nelle mani di poteri corrotti, di management senza scrupoli e persino collusi con la mafia per evadere il fisco in grande scala e per riciclare denaro sporco. Il degrado della politica ha raggiunto livelli inimmaginabili.
In questo quadro, lo ripetiamo, ogni possibile ripresa dello spazio socialista, o anche del semplice spazio della cultura liberaldemocratica, deve necessariamente accompagnarsi al superamento della Seconda Repubblica per rimuovere le macerie che ha lasciato sul campo.
Questo processo non sarà né breve né facile. Ma noi ci candidiamo ad essere il partito che avvia il movimento, tutto da costruire, per il passaggio alla Terza Repubblica.
Questo è il punto.
E dentro questo orizzonte collochiamo la nostra proposta programmatica.
Si può fare? Noi crediamo di sì.
Oggi si apre uno spazio in questa direzione più ampio di prima, proprio perché il bipolarismo sta perdendo la sua spinta propulsiva e perché la politica, potremmo dire “purtroppo”, gode di una credibilità assai bassa. È diffuso nei suo confronti un senso di sfiducia larghissimo e l’esigenza di un cambiamento radicale sarà presto sempre più forte.
4. Rifondare lo Stato e riformare l’Italia
Quindi la crisi economica, sociale, istituzionale e morale che il Paese attraversa è per noi tutta dentro la crisi di credibilità dello Stato. È la crisi dello Stato nelle sue diverse articolazioni, delle sue istituzioni e dei suoi poteri. È la crisi di poteri contrapposti, quello esecutivo contro quello legislativo, quello politico contro quello giudiziario e viceversa. Entrambi alle prese da anni in un opera di reciproca gravissima delegittimazione. È la crisi di poteri contrapposti, quello centrale e quello locale.
È la crisi profonda dei partiti soprattutto, come abbiamo già detto, che oggi non ci sono più e che per la Costituzione del ’47 avrebbero dovuto rappresentare la trama dello Stato e i pilastri della democrazia.
È la crisi della Costituzione, che non risponde più al bisogno di cambiamento che la società esprime per lo meno dagli inizi degli anni ‘70, alla quale la politica non ha saputo dare complessivamente una risposta.
Questo profondo stato di debolezza, questo sfilacciamento, queste contraddizioni, mettono in difficoltà la capacità di rinnovare il Paese e di rispondere alle attese riformatrici su molte questioni importanti.
Per questo abbiamo proposto da tempo e riproponiamo il tema della riforma dello Stato e della riforma Costituzionale.
Abbiamo proposto di eleggere un’Assemblea costituente per sottrarre la riforma costituzionale alla logica della “piccola manutenzione” e delle riforme a singhiozzzo, che ci vengono proposte senza successo da qualunque governo e dal Parlamento da almeno trent’anni. Un’Assemblea costituente eletta direttamente dal popolo e preceduta, perché no, come si fece nel ‘46 da un referendum sulla forma di governo e sulla forma di Stato. Coinvolgendo la volontà popolare, ridando fiducia agli italiani, per risvegliare nuove passioni civili e un circuito di partecipazione collettiva ai processi politici.
Da qui il titolo di questa conferenza “Rifondare lo Stato, riformare Italia”.
La conferenza è stata organizzata su due sessioni.
La prima intono all’idea forza, come abbiamo detto della “Crisi dello Stato e delle grandi riforme” indicando tra queste la riforma del sistema politico, la riforma del lavoro e il Reddito di cittadinanza, la riforma della giustizia e il bisogno di vivere in uno stato laico come garanzia di libertà.
La seconda sessione dedicata alle stato delle Regioni, al loro possibile e auspicabile ruolo nazionale, come luoghi della democrazia civica e di trasparenza, come erogatori di welfare universale e capaci di affrontare concretamente problemi nuovi e di straordinaria importanza come quello dell’immigrazione e dell’integrazione dei cittadini stranieri che vivono nel nostro paese.
A fine marzo si vota e i socialisti nei consigli e nelle giunte regionali si candidano, tanti o pochi che siano, per cambiare le regioni dopo quarant’anni dalla loro nascita, comprese le leggi elettorali che regolano l’elezione dei presidenti e dei consigli.
Le regioni nate come soggetti del decentramento amministrativo dello Stato, il giorno in cui si sono trasformate in centri di autonomia politica, sono diventate soggetti in aperta conflittualità con lo Stato centrale. Ciò che nella Prima Repubblica rappresentava il confronto dialettico, verso la ricerca di un potere paritario tra stato centrale e stato regionale, del tutto legittimo, è diventato antagonismo per fare da sé. E diventato puro localismo. Un localismo che vuole separarsi e non si riconosce più nelle regole dettate dal centro. Questo è vero sul piano istituzionale ma anche su quello culturale e persino su quello politico. E persino nei partiti. Lo vediamo tutti i giorni quando nei partiti il legame col centro si fa sempre meno forte e ciascuno è tentato, per interessi diversi, a mettersi in proprio.
Infine una domanda. Può un partito piccolo come il nostro porsi un progetto così ambizioso? Quello di promuovere un movimento per la nascita della Terza Repubblica?
La mia risposta è sì. Perché nella Terza Repubblica ci saranno coloro che l’avranno costruita. E noi, o i socialisti del futuro, è giusto che ci siano.
Dopo tutto un partito piccolo, pur consapevole dei limiti della sua azione politica, deve sentire come assolutamente lecito e doveroso pensare e proporre guardando agli interessi generali del Paese.
La prospettiva politica per i socialisti non è esaurita.
Ricordando a noi stessi che in politica “vivi, se vuoi vivere.
La nostra ragion d’essere, il socialismo e la socialdemocrazia, sempre sintetizzabili nelle parole democrazia, libertà e uguaglianza, ha bisogno ancora di ritrovare una nuova forza riformatrice, larga. Lo faremo a partire dalle nostre capacità. Ricostruendo una squadra di “combattenti coraggiosi”. Con chi ci sta.