CON LA SCUSA DELLA CRISI, TAGLIANO LA DEMOCRAZIA di Roberto Biscardini dall'Avanti! della domenica dell'11 settembre
24 ottobre 2011
Il Presidente Napolitano ha chiesto alla politica di “parlare il linguaggio della verità” perché “sollecita a reagire con coraggio e lungimiranza.” Noi continuiamo a farlo. Anche affrontando temi che potrebbero apparire impopolari. Prendiamo il tema dei costi della politica così come siamo stati costretti a subirlo nell’ultimo mese di agosto.
La riduzione dei parlamentari, l’abolizione delle province e l’accorpamento dei piccoli comuni, sono finiti nel tritacarne della manovra finanziaria, fuori da qualunque minimo disegno di riforma istituzionale, ridotti ad un problema di riduzione del debito.
Modificare l’assetto parlamentare e degli enti locali, significa modificare l’assetto costituzionale, incidere nella storia radicata di un Paese, nella sua cultura. Lo si può fare, anzi si deve, ma non partendo del pur necessario e giustificato bisogno di tagliare spese superflue e spese correnti, eliminare sprechi e privilegi. Non a caso in nessun altro Paese europeo, che ha gli stessi nostri problemi di bilancio e che deve affrontare i problemi della crisi finanziaria, ci si è posti il problema di toccare il sistema istituzionale nella dimensione in cui la questione è stata posta da noi. Vediamo gli elementi più eclatanti.
Veltroni per primo, seguito da altri esponenti politici del centrodestra, Formigoni per esempio, interessati pur da punti di vista diversi a metter in difficoltà un PD già in difficoltà, ha posto il problema del dimezzamento dei parlamentari. Si può avere il coraggio di essere contrari? Sicuramente sì perché bisognerebbe almeno esplicitare l’obiettivo. Se il problema fosse solo quello di ridurre i costi, meglio tagliare gli emolumenti ai parlamentari e non la rappresentanza politica e territoriale di cui il Parlamento è per Costituzione l’espressione. (Alla faccia di coloro che sono per l’intoccabilità della Costituzione, ma a giorni alterni).
Se il problema fosse la riforma del sistema bicamerale, allora più semplicemente, si potrebbe fare subito molto si più. Si abbia il coraggio di proporre una modifica costituzionale di riforma federale dello Stato per sostituire il Senato attuale con un Senato delle Regioni. E alla fine avremmo in sistema di tipo tedesco, tanto caro alla Lega e al centrosinistra fin dalla Bicamerale.
In Germania la Camera è di 681 parlamentari contro i nostri 630 e il Senato di 68 senatori contro i nostri 315. Più di un dimezzamento, ma almeno con un senso logico. Se il problema è invece quello di ridurre la rappresentanza parlamentare a pochissimi partiti, senza bisogno neppure di cambiare la legge elettorale, lo si dica con chiarezza.
E sulle Province, ma che senso aveva tagliarne alcune sulla base dei parametri di popolazione o estensione territoriale? Meglio la vecchia tesi, abolirle tutte, o meglio trasformarle tutte in consorzi di comuni. Peccato che la loro costituzionalizzazione sia avvenuta, anche contro quanto da noi sostenuto in Bicamerale, solo dieci anni fa, nel 2000 con un governo di centrosinistra.
Sull’accorpamento dei comuni sono sempre stato contrario e rimango tale. L’efficienza e la produttività dei grandi comuni, rispetto ai piccoli, non è mai stata dimostrata. Semmai abbiamo riscontri dell’esatto contrario. Fin dalla metà dell’ottocento quando Carlo Cattaneo difendeva l’efficacia dei piccoli comuni lombardi a fronte delle difficoltà di funzionamento dei grandi e popolosi comuni siciliani. Semmai bisognerebbe favorire l’accorpamento delle funzioni, anche con incentivi di bilancio e quindi favorire gli accorpamenti ma su base volontaria. Anche in questo caso valgono esempi eclatanti.
Solo Mussolini impose negli anni ’30 l’accorpamento di circa 2 mila comuni, che immancabilmente dopo la Liberazione, ad eccezione di alcuni casi, ritrovarono tutti la loro vecchia autonomia. E vale il caso di altri Paesi in Europa.
La Francia, a parità di popolazione con l’Italia, ha circa 36 mila comuni, a fronte dei nostri 8 mila, ma nessuno a destra o a sinistra in quel Paese si sognerebbe di mettersi a tagliare comuni per far tornare i conti. Insomma ciò che va valutato con preoccupazione è che, da noi, nell’altalena della manovra finanziaria, nessuna forza politica ha avuto il coraggio di denunciare con chiarezza che il taglio dei parlamentari, delle province o dei comuni (come è già avvenuto in precedenza per assessori o consiglieri comunali) non è ispirato da vere ragioni di bilancio, ma dalla volontà di cavalcare l’onda dell’antipolitica prendendosela con le istituzioni e quindi con la democrazia. Così, invece di costruire una nuova politica, una nuova classe dirigente e un cambio di rotta, denunciando i limiti di un sistema politico ormai logoro e al collasso, l’orizzonte del dibattito è stato spostato, anche dalla stessa politica, su un terreno deviato e persino masochista.
L’ultima versione inserita nella manovra per quanto riguarda i comuni è esemplare di questa stupidità. I piccoli comuni non verranno accorpati, ma i loro consiglieri non percepiranno più alcun emolumento, nemmeno i gettoni di presenza. Nonostante ciò verranno ridotti a cinque, tre di maggioranza e due di opposizione. Domanda: ma perché tagliare il numero dei consiglieri se non costeranno più assolutamente nulla? Per ammazzare anche in quel caso la rappresentanza politica delle forze minori e la rappresentanza delle piccole, ma sacrosante realtà territoriali.
Se vogliamo fare nostra l’esortazione di Napolitano quindi, cerchiamo di ribaltare il tavolo e incominciamo a far emergere nel dibattito la questione dei privilegi veri, quelli che gravano vergognosamente sulle spalle del Paese.
Perché non è un privilegio lo stipendio di Marchionne? O i giornalisti che vogliono l’aumento dell’età pensionabile per gli altri, che hanno stipendi sostenuti dal finanziamento pubblico per l’editoria e che vanno in prepensionamento intorno a 55 anni, non sono in contraddizione? E i privilegi della Chiesa non sono privilegi?