CON LA BUSSOLA SOCIALISTA. RELAZIONE DI ENRICO BOSELLI AL V CONGRESSO STRAORDINARIO DELLO SDI - Fiuggi Palaterme,13 aprile 2007

19 aprile 2007

CON LA BUSSOLA SOCIALISTA. RELAZIONE DI ENRICO BOSELLI AL V CONGRESSO STRAORDINARIO DELLO SDI - Fiuggi Palaterme,13 aprile 2007

Siamo tornati a Fiuggi per svolgere il nostro V Congresso nazionale con uno scopo fondamentale: unire le famiglie del socialismo italiano come premessa di una più larga unità di tutte le formazioni riformatrici, basata su un progetto di modernizzazione della nostra società e di affermazione dei principi di libertà, di equità e di laicità. Il nuovo secolo si è praticamente aperto con l’attacco alle due Torri di New York. Il fondamentalismo islamico di marca terroristica è divenuto il nuovo pericolo incombente. La risposta data dall’amministrazione Bush, dopo una fase nella quale sono state coinvolte le Nazioni Unite con l’intervento contro il regime talebano di Kabul, è stata segnata da un forte unilateralismo fino a compiere un errore gravissimo come la guerra in Iraq.
I focolai di tensione non solo non si sono attenuati ma si sono aggravati, a partire dal conflitto tra israeliani e palestinesi. I bombardamenti del Libano, per quanto presentati come una reazione, colpendo obiettivi civili e seminando vittime innocenti, si sono risolti in un netto insuccesso politico e militare. In un mondo islamico, sempre più percorso da un acceso antiamericanismo e da un odioso antisemitismo lo Stato d’Israele è oggi davvero a rischio. Eppure in quella zona martoriata vi sono due popoli, quello israeliano e quello palestinese, che hanno entrambi ragione. Il terrorismo, nonostante si siano usati persino sistemi e mezzi contrari alla civiltà giuridica come la prigione di Guantanamo, non ha piegato la testa.
In Afghanistan, dove noi italiani siamo impegnati con una missione militare assieme ai nostri alleati, lo stato delle cose peggiora di giorno in giorno. Capi tribù, mullah e narcotrafficanti hanno ancora in mano la situazione. Non si è riusciti neppure a prendere un’iniziativa per convertire, da illegali a legali, le coltivazioni di oppio, utilizzandone la produzione su scala mondiale per estendere le terapie del dolore, anche ai paesi più poveri, cercando così di spezzare il rapporto che lega i capi talebani con i contadini coltivatori di papaveri. Questa tensione e confusione dà un quadro della situazione nella quale è potuto avvenire il rapimento del giornalista di “Repubblica” Mastrogiacomo e l’uccisione del suo autista e del suo interprete. Noi abbiamo contrastato la speculazione politica fatta da esponenti dell’opposizione, al limite dello sciacallaggio, su questa vera e propria tragedia. Fini è arrivato persino ad accusare, con un falso clamoroso, il presidente Prodi di aver minacciato Karzai di ritirare la missione militare italiana in Afghanistan se non fossero stati rilasciati i prigionieri richiesti dai talebani. Abbiamo, invece, apprezzato che Berlusconi abbia corretto il tiro e gettato acqua sul fuoco delle polemiche. In questo dramma è stata coinvolta Emergency e il suo principale animatore. Accuse pesanti sono state rivolte da Gino Strada al governo italiano, che si spiegano solo come reazioni di una persona esasperata e costretta ad abbandonare il campo.
In organizzazioni umanitarie si possono sempre annidare quinte colonne, ma da qui a considerare Emergency un centro di spionaggio ce ne corre. È probabile che l’ostilità manifestata dal governo Karzai verso Emergency sia dovuta a posizioni politicamente ambigue, portate avanti dallo stesso Gino Strada. Tuttavia, Gina Portella, una monzese di 37 anni, che all’Ambasciata italiana chiamano con affettuoso rispetto “santa laica”, secondo quanto riferisce da Kabul Lorenzo Cremonesi sul “Corriere della Sera”, ha detto: “A noi interessa solo di curare i nostri pazienti e chiunque bussi alla porta dei 3 ospedali e dei 28 pronto soccorso sparsi nel Paese”. È questa un’opera meritoria ispirata al giuramento di Ippocrate, per cui ogni ferito, ogni malato va curato, che sia talebano o soldato di Kabul, pashtum o tagiko, vittima o persecutore. Per questo motivo noi ci uniamo a tutti coloro che sperano in un ritorno di Emergency in Afghanistan. Poco conta quello che dice politicamente Gino Strada dalle cui posizioni siamo lontanissimi, molto quello che fa per alleviare le sofferenze. È sempre più necessario il ruolo delle Nazioni Unite, contando anche sulla presenza dell’Italia nel Consiglio di Sicurezza.
L’Onu, quello che lo storico militare Paul Kennedy chiama “Il Parlamento dell’uomo”, necessita di profonde riforme. Così la stessa Nato è chiamata ad assolvere nuovi compiti per la pace e la sicurezza dopo la fine della guerra fredda. In questa situazione di crisi si sente sempre più bisogno di Europa. Eppure dal fallimento del processo costituzionale, l’Unione appare incerta, spesso divisa e quindi penalizzata. Non c’è una politica estera comune, né una politica militare. Noi pensiamo ad un’Europa che dialoghi con gli altri paesi del mondo e non si rinchiuda in un fortino, fatto soprattutto di sussidi ingenti all’agricoltura e di insensibilità di fronte ai problemi dei paesi più poveri, a cominciare dall’Africa.
I socialisti europei, sotto la guida di Rasmussen stanno dando un forte contributo alla creazione di una nuova Europa sociale, per riprendere lo slogan dell’ultimo congresso di Oporto del Pse. Non bisogna però fermarsi a contemplare la propria storia e a fare della propria identità un culto. Pietro Nenni ci ha sempre ammonito: “Rinnovarsi o perire”. Nuove sono le sfide che ci attendono, in un’epoca nella quale domina l’incertezza e l’insicurezza. Più che sperare nel progresso, si teme il regresso. L’aria che respiriamo, l’acqua che utilizziamo, l’energia che consumiamo ci appaiono sempre più risorse preziose che possono essere compromesse da uno sviluppo insostenibile. I cambiamenti climatici suonano come un allarme per il maltrattamento che subisce continuamente il nostro pianeta. Modernizzazione ed ecologia non sono antagoniste, ma due facce della stessa medaglia. Senza modernizzazione non si riuscirà mai a creare una società più equa, più libera e più colta. Senza ecologia rischiamo di lasciare in eredità alle generazioni future un mondo invivibile e a continuo rischio di catastrofi naturali. Il biochimico inglese James Lovelock ha osservato: “Siamo aumentati numericamente al punto tale che la nostra presenza sta visibilmente debilitando il pianeta, come se fosse una malattia”. Di fronte a questa constatazione dobbiamo evitare che prevalga il fondamentalismo ecologico che, come tutti gli altri fondamentalismi, ha sfiducia nella scienza e nella tecnologia. L’ecologia non è un ritorno al mito del buon selvaggio, con un regresso a società primitive dove non esista più industria, trasporti e telecomunicazioni. Non si difende l’ambiente senza uno sviluppo sostenibile, come affermò l’ex premier socialdemocratico norvegese Brundtland in vista della conferenza di Rio.
Ma lo sviluppo sostenibile non coincide con una società senza crescita economica. Non si difende l’ambiente ma solo alcuni particolarismi locali, contrapponendosi alla costruzione di trasporti su ferro ad alta velocità. Lo si difende, invece, limitando quelli su gomma. Sicurezza ambientale, sicurezza alimentare, sicurezza energetica, difesa del patrimonio naturale e artistico, devono essere ai primi posti nell’agenda dei governi. Tutelare la salute con la prevenzione e con l’educazione per ridurre i rischi di malattia attraverso un sistema sanitario che deve essere più efficiente ma rimanere pubblico; incentivare la pratica sportiva ad ogni età; diffondere la cultura attraverso un potenziamento della scuola e dell’università, favorire l’istruzione permanente. Libri, supporti informatici, spettacoli, devono sempre di più essere alla portata di tutti. Grandi movimenti di persone avvengono dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Si tratta di migrazioni bibliche che trasformano i nostri paesi in società multietniche. Questo flusso si può e si deve regolare, ma non si può bloccare.
Non valgono le misure puramente repressive, come ha tentato di fare la Bossi-Fini, per arrestare un fenomeno destinato a provocare grandi cambiamenti. All’allarme suscitato soprattutto negli strati sociali più deboli va data una risposta che non può limitarsi a un maggiore intervento della polizia. Occorrono invece, politiche di integrazione sociale, culturale e ambientale. Quanto è avvenuto ieri a Milano deve farci riflettere. Non possiamo, e non vogliamo, bloccare l’afflusso di immigrati perché questo nostro paese cresce anche grazie al loro lavoro. C’è un problema di criminalità, vero, insidioso, pericoloso. E quando occorre, la legge deve essere fatta rispettare, anche con la forza. Non possiamo però pensare di ributtarli in mare a cannonate e neppure pretendere che imparino a parlare il ‘padano’. La convivenza senza comprensione reciproca è impossibile.
Lo sviluppo delle comunicazioni sta aprendo una nuova epoca. Se la televisione ha trasformato i cittadini in spettatori, internet può farli tornare ad essere protagonisti. Oggi tutti vogliono essere protagonisti della società spettacolo: l’esperienza di YouTube, il sito dove vengono depositati brevi filmati fatti artigianalmente spesso da chi ne è protagonista, evidenzia un mutamento profondo. Non bisogna cogliere in questi nuovi fenomeni solo gli aspetti deviati, il bullismo, la pura provocazione, ma individuare le novità rappresentate da una diversa ed inedita forma di socializzazione. La diffusione delle nuove tecnologie può essere l’occasione di una grande ridistribuzione del potere. E i primi a comprenderne l’importanza sono i giovani. Non ci si stupisca se queste novità si presentano inizialmente come un gioco, talvolta persino violento. Sono il nuovo modo in cui le nuove generazioni costruiscono barricate nelle strade e nelle piazze virtuali di internet, come i loro predecessori lo facevano nelle grandi città metropolitane e nei grandi campus universitari. Non è vero che non ci sia voglia di partecipare, di essere protagonisti e di spendere risorse per scopi generosi e umanitari. Purtroppo ciò che manca sono proprio i canali di partecipazione reale. E questo fenomeno non riguarda soltanto le nuove generazioni ma tutti, adulti ed anziani. Si vive con un senso di impotenza la vita reale. Si cerca con un senso di onnipotenza una vita virtuale. Il pericolo più grave è costituito dalla diffusione delle droghe pesanti.
Ci si ostina in politiche proibizioniste e in strette repressive, come è avvenuto in Italia con la legge votata dal governo Berlusconi, che aggravano i problemi, compreso l’affollamento delle carceri, e favoriscono solo i narcotrafficanti. Le mafie vivono ormai soprattutto con il commercio clandestino delle droghe. È così anche in Italia. La politica dovrebbe affrontare e risolvere questi problemi, prima di adottare le pur necessarie misure repressive. Mai come oggi la politica è al di sotto delle attese che vengono da tutti i cittadini. Mai la politica è stata così fredda e distaccata rispetto ai bisogni, ai sentimenti e ai drammi della gente. Non ci si illuda di poter soddisfare queste nuove domande individuali con una politica che evochi i sogni, invece che indicare soluzioni concrete: questa sarebbe solo una parodia dei tanti giochi virtuali offerti dal mercato e giocati su una playstation sistemata su un tavolino all’interno della propria casa. È in questo nuovo contesto che irrompe con una forza trascinante un nuovo populismo ben diverso da quello che animava un tempo le folle disorganizzate, le cosiddette “maggioranze silenziose”. L’obiettivo principale, che viene preso di mira dai populisti, è proprio la politica come fondamento della democrazia. Le armi che vengono utilizzate sono tra le più disparate e le più sofisticate. Si fa un grande clamore per gli stipendi e i benefit della classe politica, soprattutto da parte dei grandi gruppi economici. Si dovrebbe invece guardare più in generale allo stato economico delle classi dirigenti.
Negli Stati Uniti nel 1980 un chief esecutive riceveva 82 volte quanto un dipendente normale, adesso il multiplo è pari a 411. In Italia la situazione non è molto differente. “Se non avete uno stipendio di almeno 4 milioni di euro lordi all’anno non siete nei primi 20 dirigenti di società italiane quotate in borsa. Se non guadagnate almeno 2 milioni e mezzo, non riuscite ad entrare nei primi cinquanta, e, con un milione a fatica trovereste posto tra i primi centocinquanta. Nel complesso i top cento di Piazza Affari hanno incassato nel 2006 oltre 343 milioni di euro, in crescita in media del 17% rispetto al dato 2005, circa dieci volte il tasso di inflazione in Italia. Stipendi da urlo, quelli pagati nel 2006 dalle società ai loro amministratori delegati, presidenti, direttori generali”. Queste affermazioni non si trovano in un bollettino dei no-global, ma in un articolo di Gianni Dragoni, pubblicato su “Il sole 24 Ore” che, come è noto, è il giornale della Confindustria. Di fronte a questi stipendi gli emolumenti dei deputati e dei senatori, per non parlare di quelli dei sindaci e degli assessori, non sembrano proprio appartenere al mondo della classe dirigente del nostro Paese. Eppure è vero, la classe politica è, nonostante il divario con la classe dirigente del mondo dell’impresa, privilegiata anzi molto e troppo privilegiata. La maggior parte dei lavoratori dipendenti guadagna tra i mille e i millecinquecento euro al mese. Poi c’è l’esercito di quelli precari che porta a casa in un anno solitamente molto meno. La socialdemocrazia è riuscita al governo a favorire la crescita economica, accompagnandola con la grande conquista di civiltà, rappresentata dallo Stato sociale. Oggi si tratta di affrontare nuove sfide che richiedono una forte innovazione. Il capitalismo globale non va frenato nella sua spinta formidabile alla trasformazione e allo sviluppo. Le privatizzazioni, che sono state fatte anche in Italia, corrispondono alla necessità di uscire da una struttura economica e finanziaria ingessata da burocrazie statali.
Ma, se si vuole evitare che i monopoli privati si sostituiscano a quelli pubblici, occorre un forte impulso alle liberalizzazioni e regole certe sotto il controllo di Autorità indipendenti. Per fortuna le privatizzazioni anche in Italia come nel resto d’Europa non sono più un tabù almeno in larga parte della sinistra. Non vengono più considerate come una politica della destra. Finalmente abbiamo capito che sono un mezzo per accrescere efficienza e concorrenza. Le liberalizzazioni devono però sempre accompagnare le privatizzazioni. Liberalizzare servizi, professioni, mercati vuol dire dare una grande opportunità ai giovani di rompere i recinti delle corporazioni, di entrare nel mercato del lavoro per la porta principale. E questa è una cosa di sinistra. Non si tratta solo di superare gli ordini professionali o di liberalizzare il settore della distribuzione o quello dei taxi, ma di contrastare efficacemente le concentrazioni monopolistiche e i cartelli oligopolistici. Pensiamo solo al settore televisivo dove si cumulano duopolio, conflitto d’interessi e statalismo per comprendere la portata che dovrebbe avere in Italia un profondo processo di liberalizzazioni. In Italia è scoppiato il caso Telecom che rappresenta un esempio di come si sia malgestita una privatizzazione. Sin dall’inizio non ci si è posti il problema di separare la proprietà della rete da quella dei fornitori di servizi ed ora con una riscoperta del problema derivata da ansia per l’intervento di società straniere, se lo si fa come lo si deve fare si rischia di passare per protezionisti. Di fronte alla globalizzazione non si devono contrapporre rigidità. Anzi, occorre rispondere a questi cambiamenti con una maggiore flessibilità a tutti i livelli, non solo sul terreno dei lavori, ma anche su quello delle istituzioni sociali e familiari. A una maggiore flessibilità nel lavoro deve corrispondere una maggiore sicurezza sociale e non il contrario come accade oggi a tanti giovani italiani. È per questo motivo che lo slogan della socialdemocrazia europea è, con un neologismo anglosassone, flexsecurity. Come si sa, noi abbiamo sostenuto il libro bianco di Marco Biagi che è stato un compagno e un amico di cui coltiviamo sempre la memoria. Nella sua visione non c’era solo la flessibilità ma anche la sicurezza. Troppo spesso oggi si invoca una maggiore flessibilità, rimandando ad un’epoca successiva la determinazione di strumenti capaci di contrastare la precarietà. I lavori possono essere flessibili, ma non lo possono essere i redditi. Non è una cosa di poco conto rimanere senza stipendio o senza salario anche per soli tre o quattro mesi all’anno. Noi abbiamo cercato di porre al primo posto l’istruzione, perché consideriamo il raggiungimento delle pari opportunità un fattore fondamentale di equità sociale. Le nostre sollecitazioni sono spesso cadute nel vuoto, nonostante sia stata l’Europa con l’agenda di Lisbona, tanto osannata quanto poco praticata, a fissare innovazione, ricerca e formazione come obiettivi fondamentali. Non c’è problema nella nostra epoca che non sia riconducibile alla scienza. Eppure proprio in questa fase contro la scienza si erigono sempre di più fondamentalismi religiosi di varia natura. Ci si è opposti in Italia alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Ci si è opposti alla fecondazione assistita. Si guarda con sospetto ai progressi della medicina. Si contrasta persino l’uso della pillola abortiva, come se la donna avesse bisogno della sofferenza per accorgersi del dramma che sta vivendo nel proprio corpo. La flessibilità riguarda anche i rapporti tra le persone. Non si può più imporre un modello rigido e prestabilito di relazioni tra gli individui. In un convegno alla Camera dei deputati un gruppo di studio denominato “Vision” ha presentato ad aprile dello scorso anno una interessante ricerca sulla “Famiglia del futuro”. In questo lavoro di indagine si osserva: “La famiglia si sta evolvendo, ne stanno mutando le forme, anche in maniera radicale e drammatica, ma non sta scomparendo. Non muore la famiglia. Anzi, ne aumentano la popolarità e la domanda. Così come aumenta il bisogno di stabilità, di sicurezza, di identità che facciano da contrappeso ad una società sempre più veloce e sempre meno governata. È viva, quindi, la famiglia e, tuttavia, se ne moltiplicano le forme e se ne diversificano i modelli. Le sue configurazioni diventano numerose. Tanto numerose, in realtà, quanti sono gli individui, anzi le relazioni possibili tra di essi in una società a rete”.
Di fronte a queste trasformazioni profonde la Chiesa cattolica si attesta rigidamente su un modello di famiglia tradizionale che non può andare bene per tutti. E ne è la dimostrazione più evidente quella che vede cattolici praticanti e devoti divorziare, affrontare convivenze di fatto, talvolta far parte di coppie omosessuali. Dalle gerarchie cattoliche vengono sempre più ammonimenti e condanne piuttosto che comprensione e solidarietà. Per ritrovare il valore del messaggio cristiano, bisogna guardare ai tanti parroci e ai tanti preti che sono vicini nelle periferie urbane o nei comuni rurali a chi è emarginato, a chi soffre, a chi vive il dramma di una separazione e vuole farsi una nuova vita, a chi si droga per disperazione. È in queste realtà che si capisce quanto sia simile il messaggio cristiano e quello socialista. È una realtà lontana da privilegi, dall’8 per mille distribuito con un meccanismo truffaldino, dalle ancora persistenti esenzioni dell’Ici per le attività commerciali della Chiesa, dalla difesa ad oltranza di un Concordato che va superato come regolatore dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa nelle moderne democrazie liberali. Missionari e volontariato portano ovunque il messaggio cristiano, mentre il Papa filosofo interpreta sempre più il ruolo di fustigatore dei costumi. La laicità non si contrappone alla fede religiosa. Laico, credente o non credente, è il contrario di fondamentalista. Una grande forza di progresso non può che avere a fondamento una visione laica e riformista. Di ciò prendono sempre più consapevolezza non solo esponenti politici ma larga parte del mondo intellettuale. Significativo è l’appello del “Riformista”, diretto da Paolo Franchi, nel quale si afferma nettamente: “I diritti civili, segnano l’epoca, parlano dell’accoglienza e delle società multietniche, del bisogno essenziale dei diritti, doveri, responsabilità, di rispetto e quindi di laicità”.
È questa la direzione nella quale noi ci muoviamo. La laicità come libertà è contrapposta alla violenza. Noi vogliamo esprimere, senza se e senza ma, la nostra solidarietà nei confronti del Cardinale Bagnasco che è stato investito da odiose e macabre minacce. Il confronto è il sale della democrazia, mentre la violenza ne è la tomba. La nostra società ha sempre più bisogno di libertà, di responsabilità e di sicurezza. I giovani, incerti sul proprio futuro, sono restii a crearsi una propria famiglia e restano a lungo a casa dei genitori, ed i genitori sono per molti giovani l’unico ammortizzatore sociale contro la precarietà. Si sta sempre più sviluppando una gigantesca rivoluzione demografica. Si allunga l’attesa di vita e ciò accade in misura maggiore per le donne. Migliora la qualità della vita con la possibilità di essere produttivi oltre i 70 anni. Non si riesce a fare una riforma delle pensioni che, ad esclusione dei lavori manuali, innalzi l’età pensionistica e parifichi gradualmente nel campo previdenziale, come ha proposto Emma Bonino, la condizione della donna a quella dell’uomo. E non si tratta di abbassare l’incidenza della spesa sociale sul Pil, ma di ridistribuirla a favore dei giovani precari e degli anziani non autosufficienti.
Si contrasta lo scalone pensionistico, introdotto troppo bruscamente dal governo Berlusconi, senza però accettare di trasformarlo in tanti gradini. La verità ?Mancano i riformisti, contano poco i socialisti. Immediatamente dopo il collasso del sistema politico noi ci siamo posti come problema essenziale il mantenimento in Italia di una forza socialista autonomamente organizzata. Erano in molti a pensare che nel futuro per trovare il socialismo italiano bisognasse andare nelle biblioteche e negli archivi storici. Il tracollo elettorale, che avevamo subito, faceva pensare a tutti che il socialismo italiano come formazione politica minoritaria, non sarebbe riuscito a sopravvivere. Tutto congiurava contro di noi. Avevamo di fronte un’opinione nettamente ostile che ci addebitava tutti i mali della cosiddetta prima Repubblica, senza riconoscerci alcun merito per le pur importanti conquiste politiche sociali e civili che grazie a noi si erano realizzate. Eravamo circondati dalla diffidenza, se non dall’ostilità di amici e alleati. Fummo considerati, nella nostra pervicace determinazione a mantenere la nostra collocazione storica e politica, una sorta di ospiti imbarazzanti nella stessa sinistra italiana che noi abbiamo contribuito a creare sin dall’Ottocento. Questa formazione politica socialista, che oggi è qui a fare il proprio congresso, è una risorsa preziosa per tutta la sinistra italiana. Senza di noi, nella sinistra mancherebbe un protagonista fondamentale che richiama oggi tutti ad un atteggiamento rigoroso sul piano dei principi e dei valori. Noi abbiamo sempre avuto come scopo quello di creare una larga unità di tutti i riformisti: da quelli socialisti a quelli liberali riformatori, agli ambientalisti non fondamentalisti e ai cristiano democratici di sinistra. Fin dall’inizio abbiamo lavorato, per superare un panorama fatto da una Quercia contornata da cespugli, come efficacemente descrisse la situazione un noto editorialista del “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia.
Ci battemmo perché si creasse l’Ulivo come seconda gamba del centro sinistra, in modo da avere un centro sinistra più equilibrato e più credibile. Nel corso di questi lunghi tredici anni abbiamo sviluppato un insieme di alleanze politiche ed elettorali, da quelle con liberali riformatori, come erano “Alleanza democratica” il Patto Segni e il gruppo di Dini. Abbiamo costruito una lista elettorale con i Verdi e, infine, abbiamo dato vita ad un’intesa con i radicali con la nascita della Rosa nel Pugno. Tutte queste nostre alleanze si sono mosse in uno spazio riformista. Non siamo riusciti, però, a costruire una nuova forza politica, mettendo insieme tutti coloro con i quali abbiamo contratto intese elettorali. Abbiamo visto nell’Ulivo la possibilità di realizzare una grande forza riformista, laica e democratica, attraverso un vero big bang che mettesse insieme riformisti e diversi riformismi. Ci siamo trovati, invece, di fronte a un vero e proprio cambiamento della natura del progetto che anche noi avevamo condiviso. Tutto ciò è avvenuto, come si sa, quando Rutelli ha aderito all’appello del Cardinale Ruini, allora presidente della Cei, per l’astensione al referendum sulla fecondazione assistita e sulla libertà della ricerca. Questa scelta ha trasformato la Margherita da prototipo dell’Ulivo a partito confessionale. Non si è trattato di un incidente di percorso di poco conto che può essere facilmente superato. Non si possono mettere insieme la sinistra riformista con i cattolici integralisti che saranno protagonisti di una manifestazione clericale di massa, mai vista nella storia d’Italia, come sarà quella del Family Day il 12 maggio.
Il Partito democratico che noi vorremmo non deve necessariamente coincidere con la socialdemocrazia europea. Abbiamo sempre detto che non consideravamo pregiudiziale un’adesione del Partito democratico al Pse, poiché ritenevamo che qualsiasi forza progressista emerga nell’Europa occidentale, non possa che avere prima o poi, un riferimento con la socialdemocrazia europea. Pensavamo, però, che potesse essere un’esperienza più avanzata delle socialdemocrazie europee tradizionali. Invece ci troviamo di fronte ad una formazione che è molto più arretrata delle più tradizionali esperienze socialdemocratiche europee. Non si è guardato, come tanti auspicavano, oltre Oceano verso i democratici americani ma, con uno sguardo molto più corto, oltre Tevere per costruire un partito basato su un compromesso con il Vaticano. Con i Ds noi abbiamo avuto rapporti alterni, segnati da fasi costruttive, come è avvenuto con la segreteria Veltroni e con il primo periodo di quella Fassino, e da fasi polemiche, come oggi accade. Da parte dei Ds non è mai venuto meno il desiderio di vedere definitivamente chiusa la nostra esperienza socialista autonomamente organizzata. Oggi, però, dopo tante accuse ai socialisti e allo stesso Craxi, ci troviamo di fronte a un vero e proprio rovesciamento di posizioni. Siamo arrivati al punto che Fassino mette nel Pantheon del nuovo Partito democratico tutti i principali leader socialisti, compreso lo stesso Craxi. Noi dovremmo essere soddisfatti da questo ripensamento. Si potrebbe osservare: meglio tardi che mai. Tuttavia ci lascia molto perplessi che si possano mettere tra gli antesignani del Partito democratico leader politici che in vita si sono combattuti apertamente ed aspramente. Non abbiamo bisogno, né abbiamo mai chiesto riabilitazioni di stile post-sovietico perché siamo stati proprio noi, con la nostra determinazione, a consentire che la storia socialista non fosse definitivamente chiusa negli archivi. E di questo, care compagne e cari compagni dobbiamo sentirci orgogliosi. Siamo stati tra i primi a riflettere sugli errori che abbiamo commesso. Non abbiamo affatto negato di aver sottovalutato non solo il valore politico, ma anche quello morale del finanziamento illegale e irregolare alla politica e ai partiti, con tutte le conseguenti degenerazioni negli apparati dello Stato, nel mondo dell’economia e della finanza pubblica e privata. Non abbiamo neppure evitato di fare una riflessione critica sull’incapacità che avemmo nel comprendere la svolta dell’Ottantanove, che avrebbe dovuto comportare la fine dell’alleanza con la Dc e l’avvio della costituzione di un nuovo partito socialdemocratico con la maggioranza dell’ex Pci. Noi, a differenza di altri, non interpretiamo la nostra storia con criteri artificiosi ed agiografici. Sappiamo bene che si possono compiere errori ed il modo migliore per ripararli è quello di riconoscerli apertamente.
Detto questo i socialisti nella storia della Repubblica – e quando parlo dei socialisti parlo sia di quelli di Nenni sia quelli di Saragat – hanno svolto un ruolo fondamentale. Non voglio ripercorrere tutte le tappe delle nostre battaglie politiche e civili. Senza i socialisti l’Italia non avrebbe potuto avere uno Stato sociale, pur con tutte le sue attuali inefficienze. Senza i socialisti e senza i radicali, senza Pannella e senza Fortuna, non avremmo avuto la legge sul divorzio né quella sull’aborto. Senza la spinta modernizzatrice di Craxi l’Italia sarebbe diventata il fanalino di coda in Europa. Ora molti di questi meriti ci vengono riconosciuti. Tuttavia ci sembra che lo scopo sia ancora una volta non quello di valorizzare, ma di svuotare di significato la nostra presenza autonoma e organizzata. Ci si appropria di tanti bei nomi del socialismo italiano solo per dirci che ormai noi saremmo, se non dannosi, inutili. Ora, è bene chiarire che ciascuno ha la sua storia. Luciano Violante in un suo recente libro-intervista ha detto con un velato tono polemico: “La pretesa, di noi che veniamo dal Pci, non può essere quella di autoarruolarci nel socialismo italiano. Non possiamo vestire panni che non ci competono, né possiamo continuare ad affrontare il tema costruendo un ideale galleria dei ritratti di famiglia, come se le famiglie non fossero state due.
Ed infine , per capire di che pasta è fatto l’uomo, ha aggiunto: “La nostra pretesa, di noi che veniamo dal Pci, deve esser quella di difendere con fermezza e onestà individuale, il patrimonio ideale e politico del Partito comunista italiano. Gli errori li abbiamo fatti noi come li hanno fatto gli altri partiti”. Si potrebbe commentare con una semplice esclamazione: “Viva la sincerità!”. Noi, al contrario di quanto ci viene solitamente attribuito, non abbiamo mai pensato che la storia del Partito comunista italiano fosse catalogabile con quella di una pura e semplice forza totalitaria che avesse come scopo quello di rovesciare le nostre istituzioni democratiche. Sappiamo bene che c’era un’ambiguità di fondo nell’adesione dei comunisti alla democrazia liberale, per lungo tempo descritta come una democrazia borghese. Sappiamo bene che anche il Psi ha avuto nella sua storia alcuni anni bui di stalinismo, quando toccò a Saragat rappresentare in Italia il socialismo democratico. Abbiamo, segnalato tutti i passi e tutte le evoluzioni che il Partito comunista ha fatto nel corso della storia d’Italia. Non abbiamo mai pensato che Togliatti fosse la stessa cosa di Berlinguer e che la condanna dell’invasione della Cecoslovacchia fosse un puro atteggiamento tattico. Abbiamo sempre riconosciuto con onestà intellettuale che il Partito comunista italiano ha avuto una sua autonomia, pur conservando un rapporto politico con l’Urss, e ha saputo raccogliere istanze di giustizia sociale largamente diffuse nel nostro Paese. Se non avessimo dato questo giudizio, non avremmo mai intessuto rapporti speciali con il Pci e con dirigenti e militanti comunisti nel mondo sindacale della Cgil e in quello delle amministrazioni locali e regionali. Noi siamo stati e siamo in linea di principio favorevoli all’unità di tutti i riformisti. Questo obiettivo è anzi connaturato al nostro Dna socialista. Giuliano Amato mi ha rimproverato perché avrei abbandonato l’idea di costruire una grande forza di progresso. Mi ha ammonito che il posto dei socialisti è nel Partito democratico che stanno creando Fassino e Rutelli.
Ho sempre evitato le polemiche con Amato e ho sempre cercato di mantenere un atteggiamento di amicizia e di reciproca comprensione. Francamente sono rimasto stupito dalle sue parole. Non riesco proprio a capire come possa indicare la rotta da seguire ai socialisti italiani chi, come Giuliano, ha sempre concepito la sua presenza politica come un battitore libero. E come tutti i battitori liberi porterà con sé nel Partito democratico la sua storia personale, ma non l’eredità ideale e politica dei socialisti italiani. Il Partito democratico che noi vorremmo ha poco da spartire con un compromesso di potere tra i Ds e la Margherita. Questo non è il progetto che elaborarono Prodi e Parisi, ma un compromesso storico bonsai – come ha osservato Ugo Intini – tra la tradizione dei cattolici democratici e quella dei comunisti. Non è vero quindi che noi avremmo operato un cambiamento a 180 gradi. Non è vero che noi saremmo contro un qualsiasi tipo di Partito democratico. Non è vero che saremmo andati a zig zag alla ricerca della nostra pura sopravvivenza. Noi non siamo affatto un partito inventato, costruito sul protagonismo di un leader politico o nato da un’invenzione di maghi della pubblicità o creato come una costola tolta da una grande impresa italiana. Noi, piccoli o grandi che possiamo essere, affondiamo le radici nella storia dell’Italia. Sappiamo cosa rappresentiamo, quali idee vogliamo sostenere e teniamo conto della forza relativa che abbiamo.
È in questa situazione che riemerge con vigore la questione socialista. Non siamo stati noi, che proveniamo dalle file del Psi e del Psdi, a risollevare il problema costituito dalla mancanza di una grande socialdemocrazia in Italia. Sono stati soprattutto altri che hanno vissuto con sofferenza il percorso dell’Ulivo, o perché erano contrari in linea di principio a questa ipotesi, o perché ne sono stati delusi. Tutto potevamo fare fuorché disinteressarci o essere indifferenti al riemergere della questione socialista. È per noi assolutamente conseguente aprire un dialogo con tutti coloro che si pongono questo problema, da Emanuele Macaluso, a Lanfranco Turci, a Giuseppe Caldarola fino alla sinistra dei Ds, a Mussi, Angius, Salvi e Zani. Non lo facciamo con il desiderio di fomentare scissioni, ma con l’aspirazione di far sì che la sinistra italiana non vada incontro ad un naufragio di valori e di principi. Noi non pensiamo di doverci rinchiudere in uno spazio socialista che raccolga solo coloro che sono stati iscritti, militanti o elettori del Psi e del Psdi. Questa sarebbe davvero una prospettiva di corto respiro. Non pensiamo neppure che ci si possa limitare a costruire un partito socialista più largo e con maggiori consensi dello Sdi, aprendosi a tutti coloro che vogliono avere come riferimento solo la socialdemocrazia europea. Siamo del parere che, bisogna partire da un partito socialista più forte ma per allargare il confronto, le convergenze, le alleanze e le intese con tutte quelle forze liberali e riformatrici, radicali, ambientaliste non fondamentaliste, che non si ritrovano nel Partito democratico come si sta costruendo. Prima di ogni altra cosa mi rivolgo ai tutti quei compagni con cui abbiamo condiviso una lunga e appassionata militanza nel Psi e nel Psdi a cominciare da chi è oggi qui con noi Gianni De Michelis e il suo Nuovo psi, Bobo Craxi e Saverio Zavettieri con il loro movimento, Rino Formica e tanti altri. Che saluto e che ringrazio Voglio parlare a tutti coloro con cui abbiamo diviso ideali, aspirazioni e anche delusioni e amarezze. A questi nostri compagni io dico oggi con forza che è finito il tempo dei risentimenti. Basta con le divisioni. Basta con le recriminazioni. Questa nostra lunga diaspora deve finire.
E’ arrivato il tempo dell’unità, ripeto U – N - I - T – A’ Oggi abbiamo questa possibilità nelle nostre mani e non dobbiamo farcela sfuggire. Noi già con i radicali avremmo costituito volentieri con la Rosa nel Pugno una nuova forza politica. Tutti sanno che abbiamo creduto in questo progetto. Ci abbiamo messo passione, entusiasmo. Lo abbiamo fatto senza risparmiarci, perché quelle idee hanno segnato profondamente il dibattito politico, hanno fatto discutere tutto il centrosinistra che prima era su questi temi balbettante e silenzioso. Non c’è tema sollevato nella campagna elettorale dalla Rosa nel Pugno, a cominciare dalla laicità dello stato, che non sia diventato un punto dell’agenda politica di governo Però, purtroppo, non tutto è andato come avremmo desiderato Le differenze nel modo di fare politica hanno prevalso sulle convergenze. Non siamo qui per chiudere la Rosa nel Pugno ma per aprire un cantiere più grande. Non c’è contrasto con quello che abbiamo fatto ma continuità. Oggi la Rosa nel Pugno continua a vivere come gruppo parlamentare, con la sua presenza al Governo con il ministro Emma Bonino, con il viceministro Ugo Intini, e altri compagni E abbiamo tante battaglie da fare ancora assieme: da quelle sulla laicità e sui diritti civili all’ultima, quella per una moratoria della pena di morte alle Nazioni Unite. Del resto procedere con la bussola socialista, cercare di costruire un partito socialista di ispirazione europea, criticare il Partito democratico così come si va profilando, può essere fatto meglio e con maggiore forza se tutta l’area progressista e riformista, che avversa l’incontro fra Ds e Margherita, si potrà ritrovare insieme.
Ci viene domandato ripetutamente se la nostra contrarietà al Partito democratico è di principio e, quindi, non potrà mai essere rimossa. Noi rispondiamo che abbiamo ben chiaro il partito che vogliamo costruire: una formazione libera e laica, pronta a battersi per ampliare i diritti civili e per modernizzare il nostro costume; una forza riformista che rivendichi come conquiste importanti la legge del divorzio e quella sulla legalizzazione dell’aborto, invece di sprofondare nell’imbarazzo ogni qualvolta sono sollevati questi temi. Noi vorremmo che non ci fosse reticenza nel portare avanti le unioni di fatto, anche quando riguardano coppie omosessuali. Il nuovo presidente del partito socialdemocratico svedese, Mona Sahlin, nell’elenco delle libertà da difendere ha messo quella di fare l’amore con persone dello stesso sesso, citando una coppia di donne felicemente presenti nella sala congressuale. Eppure nel partito socialdemocratico svedese non mancano certo i cristiani, anche se non sono di osservanza cattolica. Il partito che noi vorremmo dovrebbe essere a favore delle garanzie e dei diritti. Non dovrebbe assecondare derive giustizialiste, dovrebbe battersi per introdurre la separazione delle carriere tra giudice terzo e pubblico ministero, come avviene in quasi tutte le democrazie occidentali, abbreviare i tempi dei processi con una riduzione a due dei gradi di giudizio, ampliare il campo e il numero dei giudici di pace per smaltire processi che sono destinati inesorabilmente alla prescrizione o per amministrare bene e con tempi rapidi una giustizia civile, sempre più coincidente con una giustizia incivile, lentissima e spesso inconcludente. Dovrebbe battersi per riformare il Consiglio Superiore della Magistratura con l’intento di contrastare la politicizzazione dei giudici che spesso non hanno la tessera in tasca, ma l’hanno segretamente nascosta nel cuore. Noi siamo per un partito che faccia della scuola pubblica un suo cardine centrale, rifiutando di incentivare finanziariamente come prescrive la nostra Costituzione le scuole private. Non si ha una buona formazione culturale se si organizza il nostro sistema di istruzione sulla base di tante scuole confessionali. Noi siamo per porre la ricerca scientifica come aspetto fondamentale della crescita civile ed economica, al quale assicurare piena libertà al di fuori degli occhiuti sguardi di tanti santi uffizi e al quale siano date consistenti risorse. Il partito che noi vorremmo dovrebbe porre, e non a parole, in primo piano la questione meridionale. Abbiamo ricordato ieri al Senato Giacomo Mancini, che per il Mezzogiorno e per la Calabria si è sempre battuto, sostenendo politiche attive nel campo delle infrastrutture e dell’innovazione. E voglio ringraziare per l’iniziativa il presidente del Senato e quello della Camera che sono qui con noi stasera. È la strada da seguire anche oggi. Il Sud ha bisogno di sicurezza contro la grande e piccola criminalità. Noi alla lotta alla mafia, come socialisti, abbiamo dato un grande contributo: ricordo solo tra i tanti il sacrificio del nostro compagno Salvatore Carnevale. Sarà possibile mai costruire un Partito democratico come noi lo vorremmo? Certo è che la costruzione politica, messa ora in cantiere, appare artificiale: non attrae né convince. Non crediamo che arrivi ad un livello così basso di percentuale, come viene dato da un recente sondaggio, ma dubitiamo che possa volare alto. Ciò che si sta costruendo piace a Rutelli e a Fassino ma piace molto meno a Veltroni e a Parisi, che pure dell’Ulivo sono stati protagonisti, e provoca reazioni critiche in dirigenti laici della Margherita come Willer Bordon.
Non ci si deve, quindi, stupire che di fronte all’ingrossamento delle file dell’esercito dei delusi si riscopra il valore della socialdemocrazia europea. Noi ci proponiamo certo di raccogliere insieme tutte le famiglie socialiste disperse, come il nuovo Psi di Gianni de Michelis e i Socialisti di Bobo Craxi, ma siamo pronti al confronto con tutti coloro che vogliono mantenere come riferimento la socialdemocrazia europea. Non pensiamo affatto che questo dialogo debba essere ristretto solo a coloro che provengono dalla storia del movimento operaio italiano. Avendo ben chiara la nostra direzione di marcia, riteniamo che si possa avere una convergenza di tutte quelle forze riformiste, liberali, radicali e laiche che non si ritrovano nel Partito democratico. La nostra è un’argomentazione assolutamente chiara che non si presta ad equivoci. Il nostro Congresso straordinario è chiamato ad esprimersi senza riserve su questa piattaforma politica. Noi non facciamo dipendere da questo atteggiamento sul Partito democratico il nostro comportamento nei confronti del governo Prodi, che continuerà ad avere il nostro pieno appoggio. Non ci nascondiamo però i limiti che ha questa esperienza politica. Non ne addebitiamo le colpe al Presidente del Consiglio. Quella del centro sinistra è una coalizione eterogenea, nella quale contano eccessivamente le componenti di estrema sinistra, da Rifondazione comunista ai Comunisti italiani e, non poche volte, anche dai Verdi. Sappiamo bene che il tallone d’Achille del Governo Prodi è rappresentato dalla ristretta maggioranza su cui può contare al Senato. Tuttavia pensiamo che si sarebbe potuto fare di più. Non ci ha convinto durante la Finanziaria il persistente rifiuto a destinare nuove risorse all’innovazione, alla ricerca e alla scuola, come se si trattasse di temi del tutto marginali e secondari. Noi abbiamo sostenuto l’opera di risanamento che è stata avviata dal Governo Prodi e dal ministro dell’Economia Padoa Schioppa, nella convinzione che, se non si risistemano i conti pubblici, sul nostro bilancio peseranno sempre, e tanto, gli interessi del debito. Non abbiamo mai visto una contrapposizione tra risanamento e sviluppo, che sono le due facce di una stessa medaglia. Oggi ci troviamo di fronte ad un extragettito sul quale vi è stato un vero e proprio assalto alla diligenza. Noi abbiamo condiviso con gli altri gruppi dell’Ulivo che una parte di queste risorse andasse destinata all’abolizione dell’Ici sulla prima casa e su un sostegno ai ceti più indigenti per fronteggiare affitti crescenti. Siamo altresì del parere che parte di queste risorse debbano essere destinate alla ricerca e alla scuola. Consideriamo queste scelte strategiche, perché vanno incontro in modo selettivo ad una riduzione della pressione fiscale e d’altro canto aprono ad un orizzonte di sviluppo fondato sull’innovazione.
Non ci siamo schierati con coloro che volevano praticare la politica della lesina nei confronti del contratto degli statali e in particolare di quello degli insegnanti. Sappiamo bene quanto sia difficile andare avanti con stipendi comunque modesti. Tuttavia, avremmo preferito più coraggio nel premiare il merito ed incentivare l’efficienza della Pubblica Amministrazione. Siamo tra i più convinti sostenitori che si debba continuare a diminuire la pressione fiscale sulle imprese e unificare la tassazione sulla rendita, introducendo anche una aliquota fissa per gli affitti, come misura per far emergere il nero che esiste in questo settore. Tuttavia, questa operazione complessiva va fatta con la nuova Finanziaria per il 2008. Il governo sta vivendo una fase assai difficile perché il cambiamento della legge elettorale è diventata una vera e propria emergenza nazionale. Clemente Mastella ha addirittura minacciato una crisi di governo se non si eviterà il referendum. Le assicurazioni date dal ministro Chiti per una rapida approvazione di una nuova legge elettorale non corrispondono alle intenzioni dei Ds e della Margherita, che vogliono cogliere questa occasione per spazzare via i partiti minori e rimanere da soli padroni del campo.
Non si capirebbe, infatti, perché all’improvviso Ds e Margherita hanno ritirato fuori la proposta di una legge maggioritaria a doppio turno, che non trova consenso né negli altri partiti del centro sinistra né in quelli dell’opposizione. In queste condizioni, come ha osservato Roberto Villetti dopo il suo incontro di ieri con Prodi e con Chiti, difficilmente si potrà fare una nuova legge elettorale e probabilmente si andrà al referendum, mentre Ds e Margherita lavorano, consapevolmente o inconsapevolmente, per una crisi di governo. Noi abbiamo ripetuto più volte che, adottando il modello del sindaco d’Italia o quello delle Regioni con i dovuti adeguamenti a livello nazionale, si potrebbe garantire rappresentatività, governabilità e bipolarismo. Su queste basi si potrebbe trovare quella larga convergenza politica e parlamentare necessaria per cambiare le regole del gioco. Noi siamo convinti che non si possa concludere la lunga transizione italiana e si possa arrivare ad un panorama politico di tipo europeo attraverso la sola strada dell’ingegneria elettorale. Questa è una profonda illusione, se non l’espressione di una vocazione intimamente autoritaria. Noi saremo pure un nano, per riprendere la descrizione colorita fatta da un politologo di fama come Giovanni Sartori, ma un nano diverso dagli altri perché cammina appoggiato sulla spalla di un gigante, rappresentato dalla storia più che secolare del socialismo italiano. Se fossimo eliminati dalla scena parlamentare con la lama di una ghigliottina elettorale, si determinerebbe un impoverimento di tutta politica italiana. Non ci nascondiamo, però, la crisi dei partiti che è assai grave. Non ignoriamo il carattere oligarchico delle classi dirigenti italiane, fenomeno questo che non riguarda solo i vertici dei partiti ma coinvolge tutte le élite nel nostro Paese. Non neghiamo, quindi, la validità di tante osservazioni critiche che sono venute al sistema dei partiti prima da Mario Segni e poi da Arturo Parisi, tanto referendari convinti quanto altrettanto convinti democratici. Ma il problema non si risolve con partiti deboli, anemici, snervati, disorganizzati, privi di finanziamenti pubblici e alla mercè dell’interessi delle lobbies economiche e finanziarie. Questo tipo di partiti non esiste in Europa, dove le democrazie sono solitamente forti e stabili. I partiti italiani non possono certo pensare di ritornare a prima del collasso della prima Repubblica con apparati pesanti, funzionari a tempo pieno e con una forte vocazione ad occupare tutti gli spazi dell’economia e della società civile. Questo modello, come ricordò a suo tempo Luciano Cafagna, non si riallaccia ai partiti europei ma al partito fascista che durante il ventennio fece tutt’uno con lo Stato e con l’economia. Quale che sia il partito che si vuole costruire, socialdemocratico o democratico, è chiaro che dovrà essere fortemente innovativo e aperto. Noi pensiamo che si debba costruire in Italia una formazione politica che non ricalchi schemi tradizionali e burocratici. Noi proponiamo un partito aperto nel quale possano contare, attraverso primarie e referendum, elettrici ed elettori. Questa è, innanzitutto, una sfida che riguarda lo Sdi che deve avviare una fase di profondo rinnovamento. Noi è vero, ci siamo troppo chiusi in noi stessi. Ciò accade sempre in una comunità che avverte il pericolo di una sua disgregazione. Non voglio dire che le nostre difficoltà siano giunte al termine. Non parlo solo delle pressioni amichevoli o meno amichevoli che ci vengono rivolte per aderire, volenti o nolenti ad una formazione di cui non condividiamo valori e orientamenti. È all’orizzonte una prova referendaria che viene agitata come una sorta di minaccia nei confronti delle formazioni minori.
Noi ci rendiamo ben conto che l’attuale legge elettorale non funziona. È sufficiente guardare al fatto che al Senato il centro sinistra può contare solo su una ristretta maggioranza. Siamo stati, del resto, colpiti noi stessi persino dalla sua malaccorta applicazione che ci ha visto esclusi come socialisti e radicali dall’essere presenti al Senato. Noi siamo del parere che si possa arrivare ad una semplificazione soprattutto attraverso processi politici. Del resto non bisogna nascondersi dietro un dito: ciò che più rende difficile la governabilità non è tanto, o comunque soltanto, la frammentazione ma soprattutto il peso eccessivo che ha l’estrema sinistra in Italia con ben due partiti dichiaratamente comunisti. Non ci opponiamo certo a una riforma della nostra Costituzione, che dalla fine degli anni Settanta sollecitiamo, ma siamo contrari a farne un alibi per non combinare nulla sulla modifica della legge elettorale. Anzi, questa incertezza sulla futura legge elettorale deve metterci in guardia. Ecco perché, rivolgendomi a tutto il Congresso, non mi sento di dire che si è finalmente chiuso il periodo in cui abbiamo dovuto affrontare le maggiori difficoltà. Nuove prove ci attendono a distanza di poco tempo. Si voterà presto in importanti centri come Genova e Palermo, e in tanti altri piccoli e medi Comuni e Province. In questa occasione avremo tra gli altri candidati a sindaco nella città di Carrara, il compagno Zubbani, e a Olbia, il compagno Degortes, e candidato a presidente della provincia di Vercelli, il compagno Carcò. Non si tratta di candidature concordate a tavolino, ma di affermazioni raggiunte attraverso le primarie con il coinvolgimento di elettrici e di elettori del centro sinistra. E anche questo è il segno di una ripresa del nostro partito. Noi ci presenteremo come Sdi con il nostro simbolo, costruendo liste aperte a contributi di tutti i socialisti, di laici, di radicali e di liberali riformatori. Sono certo, come sempre è avvenuto che si comprenderà l’importanza della posta in gioco in una consultazione che vedrà coinvolti circa dodici milioni di elettori. Il nostro partito si impegnerà sicuramente con tutte le sue energie per dimostrare ancora una volta la nostra presenza politica diffusa su tutto il territorio nazionale. Noi abbiamo anche per questo bisogno di rinnovarci, di allargare i gruppi dirigenti a livello nazionale e a livello locale, di avere un maggiore equilibrio fra le generazioni che sono alla guida del partito, promuovendo l’impegno di giovani dirigenti cresciuti in questi anni e soprattutto di avere una presenza crescente delle donne e delle giovani donne nei nostri organismi di direzione politica. So di toccare un punto dolente. Ogni volta si fanno proclami sulla condizione di parità tra uomini e donne nel partito per poi dimenticarsene subito dopo. Questa volta dal nostro congresso deve venire una direttiva precisa che valga ad ogni livello a cominciare da quello nazionale. Sono io il primo a rendermi conto che non si può fare in nessun campo tutto e subito. Tuttavia oggi abbiamo a disposizione nuove risorse che devono essere pienamente impegnate nella gestione e nella direzione del Partito.
Care compagne e cari compagni non abbiamo affatto esaurito il nostro ruolo. Abbiamo ancora tanto da fare. Il nostro socialismo liberale è di grande attualità in Italia e in Europa. Come SDI abbiamo avuto alleanze politiche e progetti comuni con tutti i riformisti italiani, dai cristiano democratici di sinistra ai liberali riformatori, agli ambientalisti e ai radicali, ma non abbiamo mai perso la bussola del socialismo europeo ed internazionale. I socialisti hanno avuto un grande ruolo nella storia di questo paese. L’Italia è cresciuta grazie anche alle idee e alle lotte dei socialisti nella società e al governo e continuerà a crescere se noi sapremo e vorremo ancora mettere al servizio del paese i nostri progetti e la nostra passione. Più libertà, più sviluppo, perché vogliamo un’Italia più laica e più giusta. Questo Congresso fa parte di una storia bellissima che non si è mai interrotta e che continua. Siamo venuti qui per scrivere una nuova pagina Per noi socialisti c’è ancora tanto da fare e lo faremo tutti assieme E lo faremo uniti

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