COME SCEGLIERE CHI SFIDERA’ LETIZIA MORATTI, di Alessandro Aleotti, da Milania, 7 aprile 2010

30 aprile 2010

COME SCEGLIERE CHI SFIDERA’ LETIZIA MORATTI, di Alessandro Aleotti, da Milania, 7 aprile 2010

Con una foga forse eccessiva, il PD milanese ha messo all’ordine del giorno il tema del candidato sindaco per il 2011. Bene, vale la pena cercare di fornire un contributo a questa riflessione che – ad onor del vero – sembra porsi questioni di fondo con una sincerità sconosciuta nel recente passato. Concentriamoci sul caso milanese (sebbene buona parte di questa analisi potrebbe essere valida anche altrove) partendo dalla cruda verità: il PD (usiamo questa semplificazione per definire il perno dello schieramento che si contrappone al centrodestra) è un partito ormai fortemente indebolito da anni di sconfitte e da un progressivo venir meno dei legami sociali che una volta caratterizzavano i partiti della sinistra milanese.
Partiamo dalla elementare constatazione che, in politica, la forza (cioè il consenso e il conseguente potere) non dipende dalla pura voglia di vincere, ma dall’essere in grado di intraprendere una strategia che conduca alla vittoria. Quindi, nel ragionamento che dovrebbe portare alla conquista di Palazzo Marino è bene che la classe dirigente del PD milanese non pensi che basti “voler vincere” per risolvere la crisi strategica del proprio partito, altrimenti rischia di passare – per usare una metafora calcistica – dal ruolo dell’allenatore a quello del tifoso. Se è infatti vero che Mourinho desidera la vittoria dell’Inter come un qualsiasi tifoso, tuttavia ci sarà pur qualcosa che determina il fatto che il tifoso paga il biglietto per entrare allo stadio, mentre Mourinho si siede in panchina e guadagna 250 mila euro a settimana? Insomma, nel ragionamento di molti dirigenti del PD milanese che antepongono il desiderio di vittoria alla strategia politica, c’è l’incapacità di vedere la sostanziale differenza che separa un allenatore da un tifoso.
Se insisto su questo aspetto così apparentemente scontato è perché l’idea oggi prevalente nel PD, cioè quella di trovare un “campione della società civile” che sfidi la Moratti è figlia proprio di quell’analfabetismo politico che si sostanzia nel puro desiderio di “voler vincere”. Certo, nessuno mette in dubbio che un candidato esterno al PD abbia oggi sulla carta molte più chances di un esponente politico, ma anche qualora arrivasse a vincere, questa diverrebbe una vittoria di una oligarchia di potere, paradossalmente ancora meno rappresentativa e democratica del già poco rappresentativo Partito Democratico.
Se il PD non si sente in grado di incamminarsi su un percorso che sia in grado di rendere forte e credibile un proprio esponente politico e ritiene veramente che la Moratti debba essere sfidata da un esponente “civico”, allora dovrebbe fare una cosa molto semplice: rinunciare al suo sostanziale diritto di indicazione e veto sulla candidatura che si contrapporrà alla Moratti. Uno sfidante civico sarebbe autenticamente rappresentativo, infatti, solo qualora non derivasse da un accordo “a tavolino” tra il PD e i vari kingmakers del potere milanese, bensì se nascesse da uno spontaneismo civico che il PD può determinare e agevolare solo annunciando di voler “saltare un giro” per lasciare libero il campo ad altri soggetti più o meno organizzati. Tuttavia, posto che questa ipotesi è oggi lontanissima dalle intenzioni del PD, ecco che cercare un “campione civico” per vincere, equivale a non capire la differenza tra Mourinho e mio figlio che tifa per l’Inter.
Giunti a questo punto occorre delineare una strada politica che possa rendere credibile, nel marzo del 2011, il fatto che un esponente politico del PD sfidi, con reali possibilità di vittoria, Letizia Moratti (lei sarà il candidato sindaco ed è perfettamente inutile perdere tempo su scenari alternativi). Se si votasse oggi, infatti, è evidente che i vari Penati, Corritore, Majorino, Fiano, Cornelli, Adamo, Martina, Panzeri, etc… non avrebbero alcuna reale possibilità di battere la Moratti e il suo centrodestra. Come abbiamo anzidetto, il PD rappresenta oggi una parte “Piccola” e “Debole” dell’universo politico cittadino e così i circuiti sociali e gli interessi economici (cioè, le realtà che determinano le scelte elettorali) fanno sempre vincere l’altra parte.
Per uscire da questa vicolo cieco io vedo solo due strade che ora passo a descrivere.
La prima strada è più allettante, ma anche più difficile. Si tratterebbe di “dissolvere” la figura del Sindaco e candidare al suo posto una “squadra” in possesso di una idea condivisa di trasformazione della città. Posto che questo non può essere fatto sul piano formale, la dissoluzione del Sindaco significa candidare, non una figura “attiva” che sfidi la Moratti, bensì una figura simbolica che sia funzionale ad un progetto politico di autentica trasformazione della città. Se fossimo in ambito religioso, potremmo indicare un “Gesù bambino” o un “piccolo Buddha” che stia a simbolizzare la Milano di domani. Poiché, però, stiamo parlando di elezioni (cioè di meccanismi vincolati agli adulti) la metafora più adatta potrebbe essere una seniority di garanzia e saggezza, cioè una persona che abbia più di ottanta anni e incarni in sé quei significati di esperienza “alta” che possono permettere di tenere insieme tradizione e innovazione in un processo di trasformazione della città. Ancora una volta, se fossimo in ambito religioso, il Cardinal Martini sarebbe perfetto…
E’ ovvio che questa strada di “dissoluzione” del Sindaco caricherebbe di enorme importanza il lavoro progettuale in capo alla “squadra” che, ovviamente, dovrebbe essere presentata insieme al sindaco. Si tratterebbe di un’ipotesi suggestiva, poiché creerebbe una distinzione “strutturale” con il centrodestra che, invece, è saldamente radicato in un paradigma di personalizzazione verticista e gerarchica (che peraltro non si sta dimostrando particolarmente efficace nei risultati). Mi rendo conto che questa ipotesi non sia facile da comunicare (“come, manca il Sindaco?”) e, soprattutto, imponga un lavoro difficile e necessariamente profondo nella definizione della progettualità da incarnare in una squadra di assessori e classe dirigente collegata. Tuttavia, se questa ipotesi venisse praticata, il PD milanese compirebbe un salto in avanti concettuale di proporzioni inaudite e diverrebbe un laboratorio politico fondamentale per la sinistra di tutto il paese.
Poiché, però, la politica è “l’arte del possibile” dove il “meglio” viene generalmente preferito al “bene”, passo a descrivere una seconda ipotesi più facilmente praticabile, ma anch’essa del tutto compatibile con una strategia compiuta e potenzialmente vincente.
Questa seconda ipotesi si basa sulla convinzione che delle “primarie” autenticamente “aperte” alla città e realmente “non certe” nei risultati, possano determinare, per chi ne uscirà vincitore, la percezione di una promozione a quella “categoria superiore” dove milita Letizia Moratti e, quindi, la piena legittimazione a sfidarla con successo. In questo caso è, però, essenziale credere fino in fondo allo strumento delle primarie che non devono divenire sinonimo di “investitura”, ma di autentica competizione ( quasi darwiniana…) volta a far emergere, fra tanti aspiranti, quella leadership politica a cui si delega il compito di sfidare la Moratti. Quindi, le primarie non possono essere precedute da un eccesso di mediazioni e accordi tra gli aspiranti a questa leadership e – per essere chiari – quasi tutti gli esponenti politici sopracitati (salvo Penati, per ovvi motivi) dovrebbero candidarsi direttamente.
Oltre a questa minimizzazione delle “cordate”, risulta fondamentale che queste primarie non si giochino dentro le sezioni di partito, ma tra i dinamismi sociali della città, in modo tale che ogni candidato sia “obbligato” a saldarsi con pezzi della città e configurare così con chiarezza la propria identità politica e l’idea di città che ha in mente. Questo obiettivo non può essere posto solo “a parole”, ma deve divenire un vero vincolo quantitativo: queste primarie (ovviamente del tutto “trasparenti”) dovrebbero essere considerate valide solo se si recano a votare non meno di 200 mila milanesi, di cui almeno la metà costituita da elettori del comune di Milano.
Qui bisogna soffermarsi per una precisazione: non bisogna temere di parlare alla città nella sua dimensione “reale”, sebbene questa non coincida esattamente con il “mercato elettorale” che sceglierà il Sindaco. Fin troppi danni sta procurando l’identificazione di Milano con il suo semplice perimetro comunale. Rompere coraggiosamente questo assioma significa costruire i presupposti per pensare ad una politica per il futuro della città che non si riduca ad una sbiadita ricopiatura delle tesi del centrodestra. Se il centrosinistra non compie questa riflessione politica, renderà pressoché nulla (o esclusivamente legata alla vecchia logica albertiniana dell’amministratore di condominio) la sua progettualità sulla città.
Tornando al tema di come scegliere lo sfidante di Letizia Moratti, l’ipotesi sopra descritta di primarie fa sì che il candidato sindaco che uscirà vincitore da questo passaggio politico “vero” assumerà una legittimazione tale da renderlo (nel suo partito e nella sua città) uno sfidante credibile, a prescindere dal nome che porta, dall’età anagrafica, dall’aspetto estetico e da tutte le altre effimere dimensioni attraverso cui oggi si pensa di dover scegliere un candidato.
In conclusione, se è vero che la prima ipotesi (la dissoluzione del Sindaco) rappresenta un forte “salto in avanti” politico, la seconda opzione (le primarie “aperte e competitive”) sarebbe praticabile con un semplice atto di buon senso e volontà politica. Non vorrei apparire presuntuoso, ma fuori da questi scenari mi pare rimanga solo la coazione a ripetere di uno sconfittismo politico che ha come unica consolazione le carriere personali (che cominciano come consigliere di opposizione e via via arrivano fino a Roma) del ceto dirigente del PD milanese.
L’ultima avvertenza è metodologica: la politica fa pagare caro sia le contraddizioni che le incertezze. Occorre scegliere una strategia e seguirla fino in fondo, non giocare su tutte le ruote nella speranza che da qualche parte esca il nostro numero.

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