COLPEVOLI DI PENSARE di Ottaviano Del Turco - 20 APRILE 2004

31 agosto 2004

COLPEVOLI DI PENSARE  di Ottaviano Del Turco - 20 APRILE 2004

- Intervento al convegno organizzato dall’Associazione Nazionale M.O.V.M. Carlo Borsani, “Da Giacomo Matteotti a Giovanni Gentile: riconciliazione? ”- Accomunare gli eventi drammatici delle uccisioni di Giacomo Matteotti e di Giovanni Gentile è tentativo arduo e, forse, neppure storicamente giustificabile. Le differenze sul significato, sui modi, sulle conseguenze dei due eventi sono assai profonde: abissale la disparità degli effetti che produssero e degli scenari in cui si collocarono. Probabilmente l’unico filo che può ricollegarli nella memoria storica è la consapevolezza che il primo assassinio scandì la nascita del regime; il secondo la sua fine. La morte di Giacomo Matteotti segnò materialmente e simbolicamente la fine della libertà e l’inizio della dittatura mussoliniana. Mostrò di che tempra era fatto il riformismo socialista, di cui era a capo questo deputato, che era insieme un uomo d’azione ed un intellettuale, forgiatosi nelle lotte contadine, nell’esperienza amministrativa, nell’attività politica, come dirigente di partito e parlamentare. Matteotti si era formato nella scuola del “socialismo giuridico” di Pietro Ellero, negli studi attenti di Diritto e Procedura Penale, condotte nelle biblioteche e nei numerosi viaggi in tutta Europa per studiare i sistemi giudiziari dei vari paesi. Si tratta di studi corposi che diedero sostanza alla sua opera sulla “Recidiva” (unica nella storia della cultura penalistica nostrana) e ad un folto numero di pubblicazioni, da poco raccolte nei suoi “Scritti giuridici” curati da Giuliano Vassalli. Pagò con la vita i suoi scontri personali con Mussolini: a cominciare da quello poco conosciuto al congresso socialista di Ancona del 1914. Il giovane Matteotti osò contrapporre un ordine del giorno che si opponeva all’espulsione dei massoni dal PSI, contro l’opinione di Mussolini, già famoso capo dei rivoluzionari, che ne chiedeva ed otteneva la cacciata. Curioso destino quello di Matteotti che, esattamente dieci anni dopo, trovava la morte per mano, tra gli altri, di quell’Arrigo Dumini che risultò, inequivocabilmente, membro della massoneria di rito francese, pur essendo fedele mussoliniano. Altro massone era Aldo Finzi, sottosegretario all’Interno di Mussolini, coinvolto anch’egli nella morte di Matteotti quale indiziato di corresponsabilità. Paradossale la sua vicenda perché, emarginato dal regime in quanto sospettato di aver diffuso un memoriale in cui coinvolgeva Mussolini nel delitto Matteotti, quando sopravvennero le leggi razziali nel 1938, (che esoneravano lui ebreo in quanto eroe pluridecorato della Prima Guerra Mondiale e fondatore dei Fasci), ebbe il coraggio di rompere con il fascismo, di rinunciare all’esonero, divenendo partigiano, fino alla morte alle Fosse Ardeatine. Comunque quel che è certo è che Mussolini si assunse, com’è stranoto, “la responsabilità morale del delitto”. E con essa, la responsabilità della fine della libertà in Italia e della restaurazione della dittatura fascista. Se si vuole individuare un’analogia, al di là delle enormi differenze tra la morte di Matteotti e quella di Gentile, si può dire che anche Togliatti si assunse la “responsabilità morale” della morte del filosofo siciliano. Una morte che fu l’occasione di una lecerante divaricazione tra le file dell’antifascismo resistente. (Mentre non vi fu nessuna lacerazione nel blocco fascista per la morte di Matteotti, in quanto tutti serrarono le fila contro l’opposizione: ecco un’altra delle differenze tra i due episodi storici). L’indagine storica sul conflitto che s’accese nell’antifascismo per il delitto Gentile è stata condotta con accuratezza e con acume più che da ogni altro da Sergio Romano. Essa ha posto in evidenza come una settimana dopo la morte del filosofo, avvenuta il 15 aprile 1944, circolasse un manifesto dal titolo “il caso Gentile” che, riportando il testo di un articolo scritto dal comunista Concetto Marchesi (illustre storico della letteratura latina) mesi prima sul giornale clandestino “La Lotta”, concludeva con l’espressione infausta: “La giustizia del popolo ha emesso la sua sentenza: morte”. La firma del Comitato di Liberazione Toscano apposta, osserva Romano, era indebita perché il documento non era stato mai, né approvato, né discusso da quel Comitato. Per esaminare l’atto arbitrario del Pci, era stato subito convocato il comitato, nel quale Enzo Enrico Agnoletti, rappresentante di Giustizia e Libertà protestò vivacemente, e presentò un ordine del giorno che venne approvato da tutti i partiti tranne che dal Pci. In esso si diceva che “Gentile non aveva commesso quei delitti per i quali possono essere emesse condanne popolari... non era né una spia né un delatore, si era sempre adoperato per aiutare gli antifascisti riconoscendo inoltre che “l’influenza culturale da lui esercitata non era contraria alla libertà”. Tristano Codignola, all’epoca azionista poi socialista, ribadiva in un lungo e bellissimo articolo su “La Libertà”, organo clandestino di “Giustizia e Libertà”, le ragioni dell’ordine del giorno di Agnoletti, riconoscendo in Gentile “il migliore pensiero filosofico italiano” insieme con meriti nel rinnovamento dell’istruzione pubblica con la legge che recava il suo nome, oltre che il suo indiscutibile spirito di tolleranza nei confronti degli intellettuali antifascisti nel corso del ventennio. Da parte sua Togliatti, che non viveva nell’Italia sottoposta ai tedeschi e fascisti, bensì in quella già liberata ispirò, poco dopo il delitto, sull’“Unità” di Napoli, una nota in cui il Gentile veniva definito “traditore volgarissimo, bandito politico, camorrista, corruttore di tutta la vita intellettuale italiana” esaltando l’omicidio. Nella nota non è difficile riconoscere lo stile togliattiano, del tipo di quello che egli aveva dedicato a Filippo Turati in occasione della morte di questi nel 1930, su “Stato Operaio”: analoga è l’accusa di “corruzione”. Nella nota il Pci si assumeva tutte le responsabilità, rivendicandole apertamente ed ufficialmente, della morte di Gentile. Ribadendole subito dopo, Togliatti volle che venisse pubblicata su “Rinascita” (la rivista culturale da lui diretta) il solito articolo di Marchesi, tra l’altro in una versione chiosata, alterata ed aggravata da Li Causi, facendolo precedere da una nota di suo pugno intitolata significativamente “Sentenza di morte”. Una sentenza eseguita dai “patrioti italiani”, le cui motivazioni erano state scritte preventivamente da Marchesi nella versione Li Causi. In realtà la nota rappresentava un’indicazione politica di cui la morte di Gentile costituiva l’occasione per posizionare fin dall’inizio il Pci nello scontro che s’apriva nell’antifascismo militante sul terreno di problemi della libertà e sul problema dell’intolleranza e dell’uso della violenza. Infatti Togliatti ne aveva per tutti, a cominciare per chi aveva un’idea diversa sulla morte del filosofo, come Angnoletti e Codignola e l’aveva esternata con i modi con cui aveva potuto. Nella nota egli attaccava “chi riesce a prendere il tono untuoso di chi, facendo il necrologio di una canaglia, dissimula il suo pensiero e la verità col pretesto del rispetto ai morti”. È di lì che si avvia una contrapposizione che attraverserà la sinistra italiana e la stessa democrazia italiana in tutto il corso degli ultimi sessanta anni. Tra l’antifascismo democratico e quello di radice totalitaria; tra la sinistra democratica, rispettosa dei valori di libertà, di tolleranza, e quella cosiddetta antagonista, incapace di rappresentare i principi si cui si fonda il sentire democratico ed il valore del dialogo e della non violenza. Soprattutto il dissenso profondo sul rispetto degli ideali altrui che Togliatti dileggiava nella nota citata. Che trovavano invece un assertore lucido e coraggioso nel Giacomo Matteotti che sfidava la violenza con l’affermazione “uccidete pure me, ma l’idea che è in me non l’ucciderete mai”. All’opposto di quel gappista, che partecipando all’assassinio di Gentile gridava che non intendeva uccidere l’uomo, ma le idee. In tutti quei due casi, chi uccideva intendeva uccidere soprattutto le idee di Matteotti e le idee di Giovanni Gentile.

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