BREVE SCRITTO SULLA LA POVERTÀ di Alberto Angeli

02 giugno 2019

BREVE SCRITTO SULLA LA POVERTÀ di Alberto Angeli

Il pensiero  o la corrente appartenente alla cosiddetta “arte sociologica” che considera la povertà una “ mera qualità”, per usare una espressione di  Heidegger, alla cura della quale ci si rivolge come attendere ad un esercizio di sinecura compassionevole, ignora il dolore profondo del povero e chi dalla povertà è posseduto. “Cosa significa ‘povero’? In che cosa consiste l’essenza della povertà?” è la domanda che sempre Martin Heidegger  pose in una conferenza del 27 giugno 1945. Nella presente post-modernità  non si è pervenuti a dare a questa condizione sociale una risposta: “Un terribile immiserimento si sta diffondendo. L’esercito dei poveri continua a crescere. Eppure l’essenza della povertà si cela”,

 

La domanda sulla povertà è, per questo inesplorato domandare, riconducibile all’accezione del termine “povertà”; per questo si deve ritenere che l’unica domanda interessante è “quando si è poveri?”, e continuare nelle domande analoghe del tipo “quanti sono i poveri?”, “chi è più povero?”.  La domanda del domandare che coniuga quelle fin qui formulate può porsi in questi termini:  cos’è dunque essere povero? Nel nostro tempo, per esempio, viene in mente immediatamente la povertà di chi si avventura con il gommone nelle acque del Mediterraneo e sfida le tempeste e quando riesce a raggiungere la terra è sfinito, bruciato dal sole, malato. Privo di ogni cognizione culturale, linguistica  e dei costumi ( anche religiosi )del paese raggiunto, la sua povertà diviene nudità. Quest’essere è quindi sottoposto ad  una estrema tensione fisica, corporea  e intellettuale. Ed è sotto il peso di questa tensione, alla quale si associa una mendicata richiesta di vita, di un sostegno che lo tragga dalla condizione disperata in cui si trova…, ecco, qui si scatena una forza costruttiva assolutamente decisiva. È questo «lo spazio» in cui dobbiamo cercare per comprendere cos’è la povertà.

 

Non è quindi una semplificazione semantica se consideriamo la povertà una riduzione alla nudità, da cui è necessario partire per comprendere che si tratta di una tensione di vita, un desiderio, una richiesta di conoscenza, un’apertura che si rivolge al prossimo. Non si colga questo assunto come un paradosso logico, poiché quando si parla di povertà e se ne amplifica il concetto oltre il limite lessicale, dobbiamo cercare di recuperarne il significato e l’intrinsecità della potenza sociale che essa trasmette. E questo modo di procedere nell’analisi non ci porta al ritrovamento di un concetto, ma alla identificazione di una forza: questo ci fa intendere come la povertà sia, da questo punto di vista, tanto miseria assoluta quanto una forza.

 

Nel Simposio la povertà è introdotta come una mendicante che chiede l’elemosina fuori dalla porta della sala in cui si tiene la festa organizzata  per la nascita di Afrodite. Il racconto prosegue in modo imprevisto mostrando i meriti di Povertà e la sua specifica importanza per gli uomini. Dal racconto del Simposio si apprende dunque che Povertà ha avuto un ruolo centrale per gli uomini, anche se nella forma descrittiva di un pensiero della povertà radicalmente diverso da quello oggi vigente. Questo richiamo al presente suscita quindi un comune sentire che pertiene ad un diverso percorso rispetto alla domanda posta fin dall’inizio: se è possibile ripensare la povertà in modo adeguato ai tempi, quindi fuori dagli schemi metafisici per deconcettualizzare  la povertà ed affrontarla in termini di un pensiero materialista. Questa strada ci riporta quindi a scoprire che, quando si arriva alla nudità, non ci si trova di fronte a una inattività, ma si è sempre di fronte a un momento creativo che riposa sul pensiero  di maestri della ragione e dell’ethos che vanno da Democrito a Epicuro da  Lucrezio a Bruno, da Spinoza a Nietzsche, da Leopardi a Deleuze e a Hölderlin, fino a giungere all’immaginifica figura della ginestra leopardiana che è, appunto, segno di attività, mai semplicemente una  differenza.

 

Per qualificare meglio questa figura della povertà biopolitica ( nel termine in cui scrive Foucault nel saggio nascita della biopolitica ) occorre partire dalla nascita della modernità, ritornare all’«accumulazione originaria», come Marx l’ha descritta [ ancora dal Grundrisse - il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione]. E’ in questo tempo che avviene la trasformazione dell’individuo naturale che vive nella comunità e ai confini del sociale con i suoi simili, quando non  è assoggettato, schiavizzato, ridotto a nudità, dai rapporti produttivi. Ecco che, ridotto alla povertà estrema, il proletario chiede lavoro, diritti, giustizia e la libertà dal bisogno. Nel persistere di questo stato di privazione la nudità viene messa in produzione; la trasformazione del povero in proletario è così data. Il povero, nella forma antica, non esiste più, è il proletario che assume su di sé l’intera pesantezza della condizione umana, nella sua nudità. Questo povero che, introdotto in un nuovo mondo di ricchezza, viene ridotto a una nuova povertà: è la povertà del mettersi sul mercato, da cui prende vita una tensione  che trascende il concetto di povero per incorporare quello del proletario sfruttato.

 

Questo essere proletario diviene allora consustanziale al povero che si scopre come miseria assoluta nel mercato, dice Marx nei Grundrisse ( pag. 412-415 ). Miseria assoluta che può mutare condizione, una nudità che ha già una implicita, costitutiva possibilità di essere altro. Qui,  la potenza del pensiero  si spinge a favorire un grado più alto, se si vuole, nella considerazione della povertà. Non c’è più la dialettica chiedere-produrre, c’è semplicemente il fatto di essere lì e di essere preso dentro al meccanismo produttivo. Nel proletario c’è già una potenza qualificata. Allora, procedendo, ci troviamo di fronte a una potenza che non è semplicemente qualificata, ma è addirittura appropriante.

 

Certamente, le figure della povertà non hanno unicità, poichè possono distinguersi in varie forme: c’è la povertà dello schiavo, nell’età antica; c’è la servitù come descritta da Étienne de La Boétie;  c’è la povertà del proletario, dell’età industriale: una miseria assoluta, incardinata dentro un sistema di produzione e di sfruttamento. In questo povero, nel proletario, c’è già una potenza qualificata. Proseguendo nel tempo, ci troviamo di fronte a una potenza che non è più semplicemente qualificata, consapevole, ma è addirittura appropriante. Ecco, allora, che raggiunta questa statura, la consapevolezza e la sofferenza di essere poveri, probabilmente, diventa ancora più grande, perché più alta è la capacità di arricchimento. Di nuovo, questa statura deve comprendersi come biopolitica del povero che si muove con la storia, poichè senza storia non vi è biopolitica, nonostante non sia infrequente cogliere tentativi, nell’orizzonte del presente, che ne disconoscono la fondatezza, magari muovendosi in una direzione in cui determinismo e casualità della storia sono assunti come parametri validativi. Mentre, assumendo come fondata la linea storica, da essa ricaviamo che si è poveri principalmente nella relazione con gli altri e che la povertà diviene isolamento e alienazione. Questo status, nella società contemporanea, rende la povertà una sofferenza interiore da cui originano pulsioni di inappagamento sociale per il fatto che il povero si sente condizionato nella sua libertà ed escluso o limitato nella partecipazione alla vita politica.

 

E’ quindi fuori dubbio che la povertà vissuta nell’ambito di un ordinamento schiavista  è tanto diversa se vissuta all’interno di  un sistema industriale; ma essere poveri in un sistema industriale è totalmente diverso dall’esserlo in un ordine postindustriale e globalizzato in cui le qualità biopolitiche  subiscono profondi cambiamenti fino a trasformare il significato della povertà che, spesso, si trasforma in miseria e quindi in una forma di isolamento e nudità dell’individuo totale e assoluta.  E’ d’altro canto in questa post-diversità che la povertà modifica la sua forma e la sua natura  e ciò avviene perché il modo di produzione (quindi della riproduzione, scrive Marx ) e del consumismo nel quale viviamo, si trasforma e diviene essenzialmente immateriale, cognitivo, relazionale.

 

Tutto si ridefinisce riguardo al nuovo contesto, una metamorfosi , un processo fenomenico che opera nel profondo della società e che spinge il cambiamento verso una direzione che supera l’età industriale fin qui conosciuta. Nel processo dei cambiamenti che avvengono dentro una società postindustriale, che si caratterizzano per novità di linguaggio e di comunicazione ( digitalizzazione, big data ),  essere poveri lo si patisce nella sua crudezza non semplicemente per l’assenza di coinvolgimento nella società, ma per l’esclusione che ne subisce il povero e che deriva da un atto razionale specifico, precipuo del cambiamento che la globalizzazione determina nei rapporti produttivi. Un esclusione che si evince provenire dal comando, dalla volontà di estromettere perché al povero non è data possibilità di scegliere, quindi di essere libero e di costruire un sé aperto ad ogni relazione. Tutti debbono filosofare, rileva Aristotele nel Protreptico, perché questo consente di stare dentro ad una forma di relazione comunicativa ed acquisire cognizione della realtà su cui costruire processi di partecipazione, altrimenti ci si isola e non si è compartecipi della filosofia. Mentre in Platone la povertà è mediata dall’amore, “l’amore è sempre povero ed è tutt’altro che bello e delicato….è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada […], sempre accompagnato dal bisogno”, dunque la povertà è pensata in termini apparentemente contraddittori: da un lato è sofferenza, nudità; dall’altro è madre di Eros, amore.  E’ dunque la povertà una tematica che ha attraversato culture e civiltà diverse, che a noi possono risultare sconosciute, nelle quali l’attenzione a questo fenomeno è stata prevalentemente di natura compassionevole, che si identificava con la virtù del filantropo, quindi in una visione di umanità in cui la miseria veniva assunta come un fatto naturale verso cui dimostrare benevolenza, ma senza condivisione del patimento. 

 

Ne risulta quindi che la contraddizione è apparente in quanto è una contraddizione portatrice di significato, poiché alimenta una dialettica dalla quale possiamo ricavarne l’assunto che se non si individuano spazi in cui progettare forme di vita coinvolgenti il senso della comunità non sarà possibile progettare forme di vita nuove e tali da superare la miseria.  Di fronte a questo vuoto il povero deve attivarsi a resistere contro la  metamorfosi che il sistema capitalistico successivo al secolo breve ( citando Eric Hobsbawm ) ha adottato, modificando la sua natura e traslato nel processo produttivo/consumistico la nuova condizione della povertà.  In questa nuova realtà il povero non è il semplice prodotto della violenza economica, ma il dominato dalla totalizzazione del possesso capitalistico del mondo.

 

“Un dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette”. Questo verso di Hölderlin  non sta solo a significare la mendicità dell’esistenza umana, ma l’abito dell’uomo quando riflette, cioè quando è filosofo.

In questo risiede la potenza della povertà, che ritroviamo nelle parole di Negri: “Il povero, nella figura della resistenza e dell’affermazione di singolarità, si apre alla potenza di dar senso al comune”. Dentro la povertà, continua Negri, “ quando la si intenda come espressione di tensione biopolitica, si può costruire comune.  L’usus pauper,  - l’uso dei poveri -senza dubbio, è una fondamentale allusione al comune. In tale prospettiva anche l’abdicatio iuris può diventare significativa: può permettere di rilanciare il progetto comunista dell’estinzione dello Stato e del diritto, proponendolo come costruzione che si fa dal basso. Quest’ultimo mi pare un nodo sul quale insistere. E farlo proprio oggi, perché ci troviamo in una società nella quale il lavoro è diventato precario, dove la povertà è diffusa, e nella quale la proprietà non può più essere considerata motore di produzione della ricchezza ma è piuttosto distruzione della ricchezza comune. Se non si è poveri, non si può filosofare; se non si è poveri e non si distrugge la proprietà, non si può far politica, politica attiva che serva agli altri uomini. (in Comune Rizzoli 2010 )

 

Questa piana rivisitazione della povertà vuole essere un discorso sul presente e al futuro, all’a-venire, per porci di nuovo la domanda, quale speranza in noi stessi di una trasformazione? Quello esaminato è un fenomeno spaventoso, poiché è la realtà della miseria, dell’alienazione, dell’esclusione, della solitudine che determina uno stato di sofferenza  e trasmette una forma di vita carica di esclusioni e rende la povertà una

Inaccettabile negazione dell’essere parte della comunità.  L’idea di povertà è un rifiuto della identità, un dispositivo politico/mercificante contro il quale possiamo lottare per sconfiggerne le cause costruendo uno stato di tensione che trasformi l’idea di povertà in un dispositivo di lotta , un terreno di conflitto. E’ qui, su questo terreno, che la solidarietà può diventare attiva e trasformarsi un una potenza di lotta contro ogni forma di sfruttamento e le diseguaglianze economiche e sociali.

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