BIRMANIA: LA RIVOLUZIONE IN UNA SCODELLA! – di Stefano Bettera
23 ottobre 2007
La forza di un gesto apparentemente semplice racchiude in realtà la fermezza dello spirito e della pace interiore capace di vincere ogni violenza e di urlare, contro ogni violenza, la dignità ultima dell’essere uomini prima ancora che monaci.
Un monaco vietnamita, Tich Nath Hanh, candidato da Martin Luther King al Premio Nobel per la Pace e famoso fin dai tempi della guerra con gli americani per le sue posizioni pacifiste, è solito dire: non c’è una via per la pace, la pace è la via. In questo senso il processo di pace non è semplice assenza di conflitto o opposizione al conflitto, ma si costruisce profondamente, dentro di noi, partecipando alla sofferenza degli altri e comprendendo come, in ultima analisi, ogni violenza che colpisce l’altro colpisce prima di tutto noi stessici mettiamo in gioco in prima persona. Comprendere questa visione della pace e, soprattutto, della vita, così profondamente radicata nel pensiero buddista tanto da esserne l’architrave, è un altro modo per comprendere a fondo il senso della protesta birmana, della discesa in campo dei monaci e delle monache in tunica color vermiglio e di quel gesto, tanto semplice e al tempo stesso severo e straziante come una tazza rivoltata. La chiave è la compassione e in quel semplice gesto, ancor più che nell’offerta della vita stessa al fuoco dei carnefici, sta la forza della protesta di questo popolo. L’unicità della rivolta birmana nella partecipazione dei religiosi non è, infatti, solo un problema di libertà e diritti civili, come molta stampa occidentale l’ha riduttivamente rappresentata: scindere l’aspetto spirituale da quello della “lotta” sarebbe non comprendere le vere ragioni di questa situazione, in realtà non nuova nella storia del paese. I monaci, infatti, sono al fianco di chi in Birmania lotta per la libertà ed i diritti civili fin dal 1800. Ciò che oggi spinge un buddista, specialmente un monaco, ad abbracciare ogni forma di protesta non violenta è una scelta ispirata all’ideale del bodhisattva, una figura molto vicina a quelle di certi santi cristiani: questi angeli della compassione dedicano la propria vita alla salvezza degli altri riconoscendo come non vi sia altra alternativa che la profonda compartecipazione alla sofferenza altrui, sia sul piano spirituale che umano. Se per un buddista il primo compito è proprio porre fine alla sofferenza è chiaro come non vi sia una via per la pace ma è la pace stessa ad essere la via: ed è altrettanto chiaro come in quel gesto della tazza rovesciata, in quel fermo “no” pacato e sereno, ma altrettanto irremovibile, ci sia tutta la sostanza della spirtutalità di questi monaci e del loro essere partecipi alla sofferenza di un popolo. Non avrebbero potuto che fare così. Non sono scesi in campo, in campo ci sono sempre stati. Semplicemente lo hanno dichiarato con voce forte. Rovesciare la tazza, per dei monaci che vivono di elemosine è un gesto estremo e deciso non di rifiuto ma di testimonianza attiva di partecipazione. Non è un semplice opporsi alla violenza del regime, ma farne comprendere, in fondo, la totale inutilità. In questo modo i monaci hanno messo il regime dei militari di fronte ad una scelta: prendersi la responsabilità chiara di voler essere dei carnefici e con la loro rinuncia hanno abbracciato idealmente la soppressione di un popolo, della sua libertà, della sua vita. In realtà l’opposizione dei monaci al potere è una storia che ha radici antiche: la giunta militare oggi raffigura come erede spirituale della monarchia precoloniale. Ma, allora, il sovrano e la comunità dei monaci agivano in profonda sintonia. Già a quel tempo infatti il clero birmano, pur vivendo in povertà e obbedienza, non se ne stava, come succede ancora oggi, chiusi nei monasteri meditando sul carattere effimero di tutte le cose. Fin da allora i monaci escono ogni giorno per la questua, parlano e discutono abitualmente con la gente e, se comprendono che la via monastica non fa per loro hanno la possibilità di ritrarsi dalla loro decisione vocazionale. Inoltre, fatto assolutamente unico rispetto ad altre religioni del mondo, è consuetudine che quasi tutti i maschi birmani, a partire dai sette anni, anche solo per poche settimane, si facciano monaci: solo raggiunta l’età dei vent’anni comunque, possono essere ammessi in via definitiva a far parte del clero monastico ottenendo la completa ordinazione. Questo profondo interscambio tra il mondo religioso e la società è un’ulteriore importante elemento che spiega come mai vi sia una così forte identificazione tra i monaci e le sorti del popolo e perché il numero dei religiosi maschi superi le 500 mila unità e settantacinquemila siano le monache su un totale di quarantasette milioni di abitanti. Ecco perché il buddismo in Birmania non è solo uno dei tanti aspetti della cultura ma è intrecciato profondamente con la storia e la vita quotidiana di questo popolo. Benché, comunque, le pagode, i templi buddisti, come quella di Sule, siano il teatro dei recenti scontri, nella sola ex capitale birmana Yangon - già Rangoon - ci sono ben due moschee, una chiesa battista, una sinagoga, un tempio sikh e uno indù, la chiesa dell'Esercito della salvezza, la cattedrale cattolica e quella anglicana. Non è difficile comprendere quindi come tra i primi a condividere la protesta e a correre in soccorso dei monaci ci siano stati soprattutto i religiosi delle molte confessioni presenti nel paese. Come dicevamo, la giunta militare si presenta ed ha tutto l’interessa a dare di sé l’immagine di erede spirituale della monarchia birmana precoloniale in cui il sovrano e la comunità dei monaci agivano in un rapporto di profonda interdipendenza. In tutte le pagode ci sono foto dei generali esposte accanto alle statue di Buddha benedicenti. Gli alti ufficiali amano farsi riprendere mentre pregano, partecipano attivamente alle cerimonie, inaugurano nuove pagode e ne restaurano di antiche. In realtà la “religiosità” dei vertici militari è assolutamente strumentale e altrettanto superficiale, tanto da includere in sé molte pratiche che più hanno a che fare con i culti pre-buddhisti, (tra i quali il diffusissimo culto degli spiriti nat), così utili a non “deludere” tutte le varie superstizioni dell’immaginario popolare. Dopo la fine di quello che è stato storicamente conosciuto con il nome di “socialismo birmano”, sostituito dal predominio della burocrazia militare, servivono altri contenuti e liturgie per legittimare e santificare il proprio potere: ecco il ricorso alla retorica buddista trasformata in pensiero unico fino al punto di sostenere che essere birmani equivale a essere buddisti con buona pace dei musulmani e cristiani la cui protesta i militari non hanno esitato a reprimere brutalmente. È importante però dire che questo tentativo di piegare la religiosità popolare ai bisogni del potere dei generali non è un fatto nuovo: i militari tentano infatti di esercitare da sempre un controllo coercitivo sui monaci sottomettendoli alla loro autorità tramite una serie di provvedimenti da parte del Ministero degli affari religiosi, tra cui il divieto di partecipazione a cerimonie non preventivamente autorizzate. Il risultato di decenni di marginalizzazione, restrizioni e sottomissione dei monaci ad una vuota disciplina e ad una cerimonialità totalmente esteriore ha portato a questa dura reazione, assecondando la loro tradizione che li ha sempre visti sensibili alle dinamiche politiche e sociali. In questo clima si inserisce l’opposizione nonviolenta di Aung San Suu Kyi: la leader birmana infatti rivendica la sua collocazione nella tradizione buddista dell'ottocentesco re Mindon, seguita poi da suo padre, uno dei principali esponenti politici birmani, ucciso nel 1947, dopo avere negoziato l'indipendenza della nazione dall'Inghilterra. Paradossalmente la linea rossa della fede buddista dei militari arriva fino al generale Ne Win,che governò come un dittatore la Birmania a partire dal marzo del 1964, anno di fondazione del Partito del Programma Socialista della Birmania e data in cui tutti gli altri partiti furono aboliti dal decreto militare del Consiglio rivoluzionario e fino alle repressioni della giunta militare di questi giorni.