BAD GODESBERG, PD E IDENTITA' di Alberto Ferrari da Avanti On Line del 13 Febbraio 2017
10 settembre 2019
Il risultato del referendum costituzionale ha lasciato non pochi problemi all’interno del Partito Democratico. Soprattutto, essendosi particolarmente indebolita la leadership di Renzi, il “correntismo” interno è tornato a muoversi in maniera disordinata e con sussulti tellurici. Tanto da far temere anche una deflagrazione del partito, che non riesce (e non è mai riuscito) a trovare un baricentro stabile.
A tal proposito, e comprensibilmente, qualche giorno fa, in un’intervista all’Huffingtonpost, il ministro Orlando ha parlato della necessità di una sorta “Bad Godesberg” per il PD, prioritaria addirittura rispetto al congresso del partito.
Il richiamo al congresso della SPD tedesca del 1959, fatto da Orlando, è molto evocativo, ma anche indicativo delle condizioni attuali (e forse perduranti) in cui si trova il PD, sempre alla ricerca di una sua chiara identità, pur se in un contesto politico/sociale “liquido”, e difficilmente malleabile con le categorie del ‘900.
Bad Godesberg è stato un passaggio importante per tutta la sinistra socialista e socialdemocratica del tempo, perché in quell’occasione, il principale partito della sinistra democratica continentale, la socialdemocrazia tedesca, ha ufficialmente abbandonato l’ortodossia marxista.
In fondo, l’ortodossia marxista la SPD non l’aveva mai realmente applicata. Il suo è stato sempre un agire riformista; nella sostanza, al di là di quello che c’era scritto nei programmi succedutesi nei vari congressi, il revisionismo di Eduard Bernstein si era ben radicato nel partito già ad inizio ‘900.
A Bad Godesberg si prese atto di ciò, e si passò, anche formalmente, ad un socialismo democratico, con un forte radicamento nell’etica cristiana. E la SPD si dichiarò anche a favore del libero mercato, concependo, così, la proprietà collettiva come “ultima possibilità”, e non come principale obbiettivo politico.
Dal Klassenpartei (partito di classe), si passo al Volkspartei (partito del popolo). Ed il socialismo assunse un volto decisamente più libertario e volontaristico, facendo propri i principi dell’antiautoritarismo. Uscendo dalle secche di un “ufficio” dove si adempivano compiti dogmatici secondo logiche di puro apparato.
Nel programma socialdemocratico, lo stato manteneva un ruolo essenziale in un contesto di economia mista, la quale potesse garantire la ristrutturazione del capitalismo; che, usando le parole di Olaf Palme di qualche anno più tardi, diventava “ufficialmente” una pecora da tosare.
Ruolo dell’individuo, del partito, dello stato e dell’economia di mercato. Questi, con una brutale sintesi, sono alcuni dei punti più importanti della revisione avvenuta a Bad Godesberg. Che non poche critiche, sia inteso, provocò. E non solo in Germania, ma anche in Italia, dove il solo Saragat la salutò con estremo favore. Mentre Nenni e Lombardi ne furono critici (le critiche del PCI le diamo per scontate).
Ma, tornando alle parole di Orlando, si può parlare di “revisione” per quanto riguarda il Partito Democratico? O, forse, più che di una Bad Godesberg tedesca, si accontenterebbero di una Epiny francese, congresso in cui, nel 1971, si arrivò all’unificazione delle varie anime del socialismo d’oltralpe, diviso in tanti rivoli, così come l’attuale Pd “balcanizzato”?
Perché la revisione è applicabile ad una identità che già esiste. Ad un programma, un modello o un progetto. Il Pd ha tutto questo?
E’ un problema dibattuto ormai da anni, che ancora non ha trovato alcuna soluzione. E che si trascina, infondo, dalla svolta occhettiana, che ha dato il maggior apporto quantitativo al PD attuale. Perché, se dal discorso della Bolognina, si “decise di non scegliere” con nettezza un alveolo (il socialismo) in cui identificarsi, con l’approdo al Partito democratico le lassità identitarie sono rimaste le stesse. Anzi, si sono acuite in un contesto in cui è tutta la socialdemocrazia europea a soffrire un cambiamento socio-economico epocale; trovandosi, così, “disarmata” di fronte alle sfide che la globalizzazione ha portato.
Oggi, non esiste un socialismo di stampo europeo con caratteri marcati. Esistono dei partiti socialisti alla perenne ricerca di soluzioni il più possibili accettabili e compatibili con la loro storia e il loro nome. Alle prese con problemi internazionali, che vorrebbero risolvere ancora in un’ottica di stato-nazione. Alla ricerca di una bussola che, fino ad ora, il neocapitalismo gli ha abilmente nascosto e “scombussolato”.
Ma, nonostante i vistosi problemi della sinistra britannica, francese, spagnola e tedesca, per il PD la situazione è ancora più complessa. E potrebbe portarlo ad una crisi irreversibile. Perché, i partiti socialisti sopra citati hanno comunque una loro identità forte, e che gli consente cadute e risalite, come è avvenuto nella storia. Revisioni comprese. O ritorni ad idee e programmi “old fashion”.
Sono partiti radicati, con una storia di oltre un secolo, che un peso ce l’ha, anche come motore/base per un cambiamento. Si pensi, ad esempio, alla decisione di Blair di togliere dallo statuto del Labour la famosa “clausola 4”; la quale impegnava la sinistra britannica a raggiungere l’obiettivo del controllo dello Stato sui mezzi di produzione e di distribuzione. Obbiettivo di per sé già abbandonato, o forse mai veramente perseguito fino in fondo, effettivamente da tempo. Ma, di certo, una decisione di grande impatto. Di revisione ideologica, si potrebbe dire. Ma che non ha impedito, a distanza di anni, di rivedere un Corbyn alla guida dei laburisti.
Al PD tutto questo manca, e potrebbe essere un problema grave.
La nascita del Partito Democratico si fa, in un certo senso, coincidere con il discorso del Lingotto pronunciato da Veltroni. Ma, più che un’idea di partito, ne uscì un programma elettorale.
In esso faceva troppo spesso capolino il rifermento al berlusconismo, come contraltare per la fisionomia e l’identità di un partito che nasceva. C’era l’indicazione di un programma di governo, condivisibile o meno che sia, non la costruzione di un partito.
Ed anche la “vocazione maggioritaria” sembra riguardare più aspetti “elettoralistici”, che ideali. Trovando il suo conforto più nella tipologia della legge elettorale, che nell’identità del partito.
Veltroni parlò di “riformismo”, ma quasi più come un “contenitore”, che un “contenuto” (socialista/socialdemocratico).
Un partito non si fa dall’oggi al domani, questo è chiaro, soprattutto quando le condizioni politiche, sociali ed economiche sono così complesse come quelle attuali. Tanto da rendere ogni programma sempre incerto. E questo vale anche per il Partito Democratico (che qualcuno avrebbe voluto già della Nazione).
Emanuele Macaluso, in un suo libro, riportaquesto antefatto: “Tanti anni fa Gerardo Chiaromonte partecipò a un congresso dell’Spd. Al suo ritorno gli chiesi notizie sui lavori. Gerardo mi rispose che quel che più d’ogni altra cosa l’aveva colpito era l’addobbo della sala in cui si svolgeva il congresso. Tanti drappi rossi con tante foto: Marx ed Engels, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Kautsky, Bernstein e altri. Un partito che da tempo aveva fatto la grande svolta di Bad Godesberg non cancellava il suo passato e il suo a volte drammatico cammino”.
Il problema di (una) identità si pone con grande urgenza. Altrimenti, caduto “l’uomo forte” di turno, si rischia ogni volta la tabula rasa.
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