AUTONOMIA DIFFERENZIATA. UN ERRORE CHE CI TRASCINIAMO DA ANNI, ASSOLUTAMENTE INUTILE di Roberto Biscardini per "Il Lavoro" settembre 2023

16 settembre 2023

AUTONOMIA DIFFERENZIATA. UN ERRORE CHE CI TRASCINIAMO DA ANNI, ASSOLUTAMENTE INUTILE di Roberto Biscardini per

Basterebbero le notizie recenti della Corte dei Conti per dimostrare come né il decentramento amministrativo, né le competenze esclusive o concorrenti attribuite alle regioni siano di per sé una garanzia di efficienza e di risparmio nell’erogazione dei servizi. Esempio: le regioni nel 2022 hanno erogato circa 70000 nuovi assistiti over 65 rispetto a 292000 richieste. In regione Lombardia, nonostante i fondi del Pnrr su 187 Case di comunità e 60 ospedali, sarebbero state attivate solo 89 case e 15 ospedali, alcune di queste assolutamente prive di medici di medicina generale. Soldi spesi tutti in conto capitale senza risorse per affrontare la mancanza di medici e personale ospedaliero. Ma lo stesso esame impietoso varrebbe se affrontassimo la questione dei trasporti, della casa, dell’istruzione e formazione professionale e altri settori essenziali per il cittadino. Insomma, basterebbe una analisi attenta di questi dati per dimostrare che della riforma sulla autonomia differenziata se ne può benissimo fare a meno. Ma noi siamo contro la autonomia differenziata anche perché siamo stati sempre contrari ad un uso strumentale e propagandistico sia della “Costituzione più bella del mondo”, come delle modifiche e delle revisioni, che nel corso degli ultimi decenni, sono state apportate alla Costituzione fuori da qualsiasi disegno organico e con ciò pregiudicando la coerenza degli assetti istituzionali. Ecco il punto.
La battaglia contro l’autonomia differenziata potrebbe essere vinta oggi più di ieri a condizione che il centrodestra (Lega compresa) decidesse di togliere a quel “bambinone” di Roberto Calderoli un vecchio giocattolo e se il centro sinistra decidesse con fermezza e serietà di cambiare rotta rispetto a ciò che ha fatto in passato.
Sì, perché piaccia o non piaccia, l’autonomia differenziata è figlia della riforma del Titolo V del 2001, quando il Governo Amato, con il Ministro Bassanini (sempre lui), in un momento di totale ubriacatura e di delirio di onnipotenza, decise di dilatare a dismisura le competenze regionali fino a metterle in conflitto con lo Stato centrale e con il principio della indivisibilità della Repubblica. Con una formulazione (quella dell’art.116 e del federalismo a geometria variabile) secondo la quale sulla base del concetto di “sussidiarietà verticale”, i Comuni, le Città metropolitane, le Province e le Regioni sono stati messi, falsamente, in cima alla piramide, al di sopra dello Stato centrale. E nel “combinato disposto” con l’art. 117 si decise già allora di avviare la procedura per l’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario.
Quando qualcuno si permise di sollevare dubbi, si vide contro l’ostracismo sia del centrodestra sia del centrosinistra, che sosteneva come la riforma fosse giustificata dal fatto che bisognava frenare le spinte secessioniste della Lega, per combatterla sul suo stesso terreno. Ma era falso.
Quella riforma (lo sappia oggi Elly Schlein!) fu proprio voluta dall’allora Ministro Bassanini che già negli anni precedenti aveva preparato il terreno, nel 1997/1998 durante il Governo Prodi, avviando il decentramento amministrativo di funzioni statali alle Regioni nella convinzione che si sarebbe ridotto il peso burocratico dello Stato, pur aumentando i centri di potere e di spesa.
Perché questa premessa? Perché se da un lato è insopportabile sentire oggi tanti esponenti della sinistra, grandi e piccoli, scagliarsi contro una riforma che hanno voluto loro. Dall’altro, perché è un grave errore prendersela (come vedo fare anche a sinistra) con il “popolo del nord”, come se fosse un tutt’uno, senza distinzioni politiche, contro gli interessi del Mezzogiorno e dell’intero Paese. Quando proprio in quel Governo Amato sedevano importanti ministri del sud, come Agazio Loiero, Antonio Maccanico, Vincenzo Bianco, Pecoraro Scanio, Salvatore Cardinale e persino Sergio Mattarella. Messi lì per difendere e rappresentare le popolazioni meridionali.
La verità è un'altra. Dietro il pericolo di un forte aumento delle diseguaglianze tra nord e sud, tra regioni ricche e regioni povere, dovevano essere evidenti già allora i pericoli di una babele istituzionale che avrebbe indebolito ancora di più il Paese e la sua democrazia. Ma allora nessuno, salvo alcuni, se ne preoccupò.
Adesso qualcosa si muove.
La riforma ha avuto una fortunosa battuta di arresto, qualche giorno fa, in seguito alle dimissioni di Giuliano Amato, Franco Bassanini (ancora loro lì dopo ventidue anni), Franco Gallo e Alessandro Pajno dal Comitato nominato con il compito di definire i livelli essenziali di prestazione - Lep da erogare in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.
Ma soprattutto perché, con circa vent’anni di ritardo, la sinistra scende in campo contro un provvedimento che alla Lega e a Calderoli sono stati serviti su un piatto d’argento, quando in quel maledetto 2001 si era persa l’idea che la Repubblica fosse unica e indivisibile. Anche per il nord e non solo per il sud. E per tutti coloro che credono che la crescita complessiva del Paese passa necessariamente da una crescita ancora più accelerata del sud rispetto al nord.
E qui sta il paradosso. Se Calderoli non ha alcuna ragione da vender rispetto alla Costituzione del ’47, potrebbe averla per le modifiche del 2001. E non solo. Può ricordare che lo stesso Gentiloni, nel febbraio 2018, a tre giorni dalle elezioni politiche e dopo i referendum consultivi di Lombardia e Veneto, firmò una prima intesa con Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Quindi anche con Stefano Bonaccini, oggi presidente del Pd. Allora convinto sostenitore dell’autonomia differenziata.
Ma perché organizzare una manifestazione a Napoli? Per stare sul terreno facile delle differenze tra nord e sud? Un errore. Perché se l’autonomia differenziata è un pericolo e un obbrobrio istituzionale lo è in eguale misura al sud come al nord. Lo è per l’intero paese. Lo è sul piano istituzionale e per i conflitti che potrebbe determinare. Probabilmente, il PD si è riunito a Napoli, perché è ancora troppo difficile esporsi al nord. Non a caso, in occasione dei referendum consultivi indetti dalla Lombardia e dal Veneto nel 2017, il centrosinistra e il Pd in particolare schierò tutti i suoi consiglieri e tutte le sue strutture a difesa dell’autonomia differenziata. Nonostante fosse chiaro che il referendum era una “truffa”. Che l’appello generico per ottenere una competenza diretta in tutte le 23 materie previste dall’art. 117, fosse impensabile. E che fosse una balla gigantesca quella di ottenere immediatamente dallo Stato, in ragione del cosiddetto “residuo fiscale” una somma equivalente alla differenza tra tasse pagate dai cittadini e somme ricevute per sostenere la spesa pubblica regionale (circa 54 miliardi di euro). Principio per altro, insieme ad altri, assolutamente incostituzionale.
Basta ricordare per tutti Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, che di lì a poco fu candidato dal centrosinistra alla presidenza della Regione. In quella occasione scese in campo, e con il motto “Lombardia autonoma in un modo o in un altro” trascinò con sé tutto il Pd, nazionale e europeo. Ma anche il Psi di Nencini si dichiarò per l’astensione, forse in considerazione del fatto che anche la Toscana si era mossa in favore dell’autonomia differenziata, come l’Emilia.
La posizione ufficiale del Pd in Lombardia era così sintetizzata:
“Contrarietà all'indizione del referendum, ma non all'oggetto del quesito. Libertà di voto tra favorevole e astensione.”
Contrari erano solo i militanti socialisti e di Rifondazione, ed in particolare quelli di “Socialisti in Movimento”, che hanno fatto campagna elettorale,
in modo organizzato, spiegando come il progetto fosse negativo per tutto il paese ed anche per il nord. Si costituirono in un vero e proprio Comitato socialista. Con parole d’ordine valide allora come oggi.
“Il quesito referendario è un autentico inganno!
Si lascia intendere all’elettore del nord come del sud che più “attribuzioni” si chiedono, più risorse si otterranno. Si lascia intendere che con l’autonomia i lombardi potranno spendere sul proprio territorio decine di miliardi di euro in più, che oggi prenderebbero la strada di Roma.”
Ma non si disse e non si dice che l’autonomia “speciale” si attribuisce (secondo quanto previsto dall’art. 119) a spese proprie. Tradotto vuol dire che l’ente regione intenzionato a valorizzare la sua enunciata “specialità” è quasi obbligato a ricorrere “all’autonomia impositiva”.
Quindi dietro il bandierone di Calderoli si nascondono molti pericoli, molti dei quali, come dicevamo, istituzionali. L’elenco delle competenze che dovrebbe passare dallo Stato alle regioni è così ampio da pregiudicare alcune importanti politiche nazionali necessariamente unitarie. E ciò è già di per sé incostituzionale. Inoltre, la procedura sottrae al Parlamento il potere di intervenire sulle intese tra governo e singole regioni, mettendolo in una posizione subordinata.
Vuole il centrosinistra ripartire con il piede giusto? La vera questione, che ci trasciniamo dalla riforma del Titolo V del 2001, è la mancanza di una discussione vera sul regionalismo e sulla sua crisi. E una discussione chiara sulla forma di Stato. Mezzo Stato unitario e mezzo federale è un ibrido e un lusso che non possiamo permetterci. Se ci impegnassimo a rivedere la riforma del Titolo V di Amato-Bassanini sarebbe già un buon inizio.

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