ATTENTI AI POGROM IN FORMATO XXI SECOLO di LUCA CEFISI, da mondOperaio di Gennaio-Febbraio 2008
05 marzo 2008
Un omicidio efferato, e inusuale in una grande città comunque giustamente considerata a basso rischio come Roma, quello della signora Reggiani, aggredita da un cittadino rumeno, un disperato che campava di espedienti e viveva in una piccola baraccopoli dalle parti di Tor di Quinto. Una campagna mediatica sconcertante che apre il vaso di Pandora dell’isteria xenofoba e del razzismo diffuso, con ripercussioni a livello europeo non lusinghiere per l’Italia. Un ceto politico spesso subalterno, se non addirittura rassegnato e spaventato, che rinuncia a spiegare alla gente la verità, per accomodarsi nella realtà virtuale di un paese messo a ferro e fuoco da un’invasione di delinquenti immigrati, e che corre a “dare risposte” (menzognere) non ai problemi posti dallo scenario reale del Paese, ma appunto a quelli virtuali, in nome dell’ansia di “sicurezza” dei cittadini: e se l’analisi dei dati e lo studio scientifico dei fenomeni sociali smentisce lo scenario strombazzato ai quattro venti, ci si trincera dietro l’opportunità di rispondere comunque all’insicurezza “percepita” (ritenendo evidentemente ormai inutile interrogarsi sulle cause reali di questa percezione, per spiegarla e correggerla). Quando non si liquida con disprezzo (Rutelli) lo studio dei fenomeni sociali: “basta con la sociologia !”. Per fortuna, la democrazia italiana sa anche emettere anticorpi: non si vuole qui, dunque, emettere il solito lamento sulla fine della politica e la supremazia delle semplificazioni imposte dalla televisione. Si vogliono anzi menzionare qui, oltre a pochi esempi verogognosi o imbarazzanti, anche e soprattutto quelle voci che hanno saputo reagire con lucidità e coraggio alla sbornia razzista e fascista (sì, fascista, di quel fascismo spontaneo, “antropologico”, inconsapevole ma fascistissimo, che emerge dall’inconscio collettivo degli italiani, e che sempre ci riporta alle parole di Gobetti e Rosseli, sul fascismo “autobiografia della Nazione”). Si vogliono anche sostenere le seguenti tesi: primo, che il problema di un fenomeno criminale, connesso ad una frangia di immigrazione clandestina e marginale, esiste ma non può diventare ragione di allarme diffuso e di demagogia spicciola, tanto meno di retorica dell’emergenza, per essere utilizzato da reazionari di ogni risma addirittura per mettere in discussione il processo di unità europea e angustiare la vita di milioni di migranti che scelgono (e sceglieranno in futuro) di abitare in Italia; secondo, che il problema del razzismo in doppio petto e della xenofobìa diffusa è, ci si consenta, più spaventoso e inquietante e grave di quello della “sicurezza” (e purtroppo non basta l’arguzia di Amato, che indica la repressione dei reati degli immigrati come precondizione per prevenire il razzismo..magari ! ma il male è più profondo, e prescinde dai comportamenti reali degli immigrati, così come non era un’immaginaria avarizia degli ebrei a provocare l’antisemitismo negli anni 30); terzo, a scanso di equivoci, che nessuno qua intende dire che i reati non vadano puniti, nè che vanno garantiti i vergognosi “posti di lavoro” dei bambini mendicanti o dei disgraziati ai semafori, ma anzi che eliminare questi fenomeni si può e si deve: ma questo può avvenire soltanto con la priorità delle politiche sociali, di qualità urbana, di accoglienza e mediazione interculturale, ovviamente integrate dalla normale, ovvia, ordinaria repressione dei reati, e dire questo non c’entra niente con il “buonismo”, ma piuttosto c’entra con l’efficacia, non essendo possibile risolvere i reati causati dall’emarginazione e dalla povertà estrema con la repressione pura e semplice, anzi questa alla fine risulta un’inutile “faccia feroce” che viene incontro alle ansie di una parte della cittadinanza, ma la prende anche cinicamente in giro; quarto, e ultimo, che abbiamo una grande sfida per il Partito Socialista, una sfida che riguarda i valori del garantismo, dei diritti civili e della libertà, e soprattutto della giustizia sociale, e che dovremmo cercare di esserne all’altezza. Ripartiamo dal triste caso di Tor di Quinto: un commentatore di solito prudente e paludato come Sergio Romano ha sintetizzato in poche righe quello che c’era da dire: “Esiste un problema di sicurezza e ordine pubblico provocato dall’immigrazione dei romeni in Italia ? Spero che gli italiani abbiano finalmente capito, dopo il grande bagno mediatico degli scorsi giorni, che i rom non sono romeni, che la criminalità dei rom è diffusa ma generalmente non violenta e che il caso di Tor di Quinto è soltanto un’impennata del sismografo sul grafico della criminalità, vale a dire un fenomeno in ultima analisi non diverso dall’omicidio di Perugia o dall’uccisione di otto persone in una scuola finlandese” . In fondo, è tutto lì. Tanto più notevole, se si pensa che il giudizio viene espresso da chi deve per contratto gestire l’eredità della rubrica dei lettori di Indro Montanelli, palestra per eccellenza del qualunquismo del signor Rossi “che non ne può più “ (dei politici, dei ladri, delle tasse, degli immigrati, degli islamici, eccetera eccetera). Come giustamente rileva Romano, una delle conseguenze peggiori del “bagno mediatico” è stata, in un Paese di ferma tradizione europeista come il nostro, la demenziale campagna contro i romeni e la Romanìa. Dopo tanti anni che la fanfara xenofoba suona la marcia del “conflitto di civiltà”, imprecando contro l’immigrazione araba (anzi, “islamica”, come dicono loro), e dopo essersi dedicata per anni agli albanesi, altri alieni extracomunitari, il delitto di Tor di Quinto ha invece fatto esplodere un impensabile “caso rumeno”, alle spese di una nazione popolata da gente di pelle bianca e religione cristiana, e di lingua simile alla nostra. Si vede che non importava: al diavolo il conflitto di civiltà, finalmente c’era uno straniero protagonista di un delitto clamoroso; dopo aver mancato il colpo con il delitto di Novi Ligure (fiaccolata leghista rientrata in extremis dopo la confessione di Erika e Omar), e fallito con il delitto di Erba (il marito tunisino era fuori casa, gli assassini erano lombardi), c’era finalmente l’occasione buona. Con toni da “Dio stramaledica i rumeni”, o accenti paternalistici sull’”arretratezza” del povero popolo rumeno provato da decenni di dittatura comunista (“Faccetta rumena”), si è proclamata una fantastica “emergenza romeni”, si è tuonato contro il criminale errore dell’integrazione delle frontiere con la Romania, voluto da quell’irresponsabile di Prodi, mentre (addirittura!) altri governi della UE avrebbero istituito una moratoria sugli ingressi dei romeni, proprio per tutelarsi dall’invasione di loschi criminali transilvani e carpatici . Il sindaco di centrodestra Moratti, ma anche il presidente di centrosinistra della provincia milanese Penati, Beppe Grillo (logico, no?), e infine persino il commissario europeo Franco Frattini, nella sciagurata intervista al Messagero che gli ha fruttato una critica nel Parlamento Europeo (e Frattini è uno che conosce sicuramente la materia, solo che “politicamente” non si è potuto tirare indietro, e ha dovuto timbrare il cartellino della demagogia) : tanti hanno sollevato la questione della “moratoria”. Ma la moratoria sugli ingressi giustamente lasciata cadere dal governo Prodi nei confronti dei cittadini rumeni e bulgari, dopo l’allargamento della Unione Europea, non c’entra niente con l’arrivo in Italia di un certo numero di cittadini comunitari senza fissa dimora e senza redditi certi, e quindi inevitabilmente destinati a vivere di espedienti, elemosina o peggio. Se nessuna moratoria avrebbe quindi impedito all’assassino di Tor di Quinto di essere dov’era quel giorno, d’altra parte nessuna clausola dei Trattati europei può impedire ad un cittadino comunitario, rumeno, italiano o francese che sia, di viaggiare all'interno dell’Europa. Staimo facendo l’Europa unita, se ve ne foste scordati. Quello che si può limitare, dal punto di vista giuridico, non è l’attraversamento delle frontiere, ma soltanto l’accesso al mercato del lavoro. E’ questa la clausola detta dell’”idraulico polacco”, il proverbiale spauracchio degli anti-europeisti francesi, che paventavano un’invasione di artigiani dell’Est ai danni dei lavoratori nazionali. Per l’economia italiana, con la sua forte domanda di lavoratori rumeni nel settore domestico e nell’edilizia, il ricorso a questa clausola non aveva un interesse speciale . In ogni caso, avrebbe limitato soltanto l’ingresso dei lavoratori migliori, di coloro che seguono rispettosamente la procedura, mentre non avrebbe avuto peso sull’ingresso dei più poveri o dei rom, che, purtroppo, seguono percorsi di marginalità, quasi sempre esclusi dal mercato del lavoro. Sul piano pratico, l’idea che una moratoria sull’ingresso dei lavoratori possa ridurre l’afflusso di persone marginali che tentano l’avventura mostra completa incompetenza sulla reale dinamica dei flussi migratorii, infatti: confonde l’afflusso dei lavoratori regolari con quello degli immigrati irregolari; immagina che si possa fermare la gente alla frontiera, cosa semplicemente impossibile, a meno ovviamente di non tornare blindare la frontiera di Gorizia come ai tempi della guerra fredda (e invece, grazie a dio, quella frontiera sarà eliminata del tutto, questo dicembre), immagina che sia stato l’allargamento ad aver “aperto le frontiere” (invece di irregolari dall’Europa orientale ne sono sempre arrivati, almeno dalla caduta del muro di Berlino), confonde infine rumeni con rom (ammettendo che siano questi ultimi il gruppo che “collettivamente” commette più reati, i rom dell’Est europeo entrano ed escono dalle frontiere italiane e di altri paesi occidentali da almeno vent’anni, per motivi a volte serissimi quali in primo luogo la guerra civile nell’ex-Jugoslavia, e sono cittadini tanto rumeni quanto bosniaci, kossovari, macedoni…). Ancora una precisazione a scanso di equivoci: non si intende con questo dire che non si possa fare niente per limitare la dispersione di cittadini comunitari o extracomunitari a rischio di comportamenti antisociali, ma questo non si otterrà erigendo impossibili reticolati, ma con il controllo ordinario del territorio, e gli interventi sociali, urbanistici, educativi indispensabili. Anche quelli repressivi, certo, ma questi ultimi, essendo per definizione, in uno stato di diritto, non indiscriminati, e non attuabili preventivamente su semplici sospetti, possono funzionare soltanto come garanzia di controllo, ma non toccheranno mai le cause vere del piccolo crimine urbano (borseggi, spaccio..), e della mendicità. Abbiamo introdotto qui il problema più scottante: quello degli zingari immigrati dai Balcani, una minoranza effettivamente così priva di risorse, così isolata, così marginalizzata e marginale, da costituire un problema effettivo. E’ anche la comunità che più subisce razzismo e rifiuto, rifugiandosi a sua volta nella coesione familiare e di clan contro un mondo esterno percepito come estraneo e feroce (non troppo a torto), rendendo arduo e a volte impossibile ogni sforzo non dico di integrazione, ma di semplice dialogo. Il razzismo verso gli zingari è gratis: quello che non si può dire (o che si cerca di tacere) su ebrei, “negri”, “islamici”, passa allegramente quando si parla di zingari. Vengono diffuse le più incredibili leggende metropolitane, a partire da quelle sui rapimenti di bambini . Periodicamente, addirittura, presunti rapimenti di bambini vengono annunciati a lettere cubitali sui giornali, per poi finire in una bolla di sapone dopo pochi giorni (fino, lo scorso agosto, alla scarcerazione di una rom rumena accusata da una folla di bagnanti di voler rapire un bambino, con un’ordinanza del gip che ha parlato di “psicosi collettiva”). Anche vicende di cronaca nera come quella celebre della piccola Denise, assai probabilmente legata a un fosco dramma familiare, non ci hanno risparmiato mesi e mesi di implausibili “indagini” dietro a bambine rom vagamente somiglianti alla piccola scomparsa. La situazione dei rom balcanici (che va distinta peraltro da quella dei rom e dei sinti italiani, che fanno parte integrante della comunità nazionale, e che subiscono anch’essi da sempre da sempre pesanti e ingiustificabili discriminazioni) è dunque difficilissima, forse il più complesso dei problemi di integrazione che ci troviamo oggi ad affrontare. E’ anche il problema che viene invece più di tutti descritto in termini sommari, semplificati, banalizzati. Questa spirale tragica di emarginazione e razzismo per un un verso, piccola criminalità di sussistenza e odioso sfruttamento di minori per l’altro, che sfocia in una chiusura reciproca tra le famiglie rom e la comunità circostante, richiederebbe, per essere scardinata, un grande investimento di risorse e competenze, che nessuno sembra aver voglia di fare. Occorre spiegare agli elettori che i loro soldi, quelli delle tasse, dovrebbero andare, in parte non insignificante, a finanziare politiche a favore degli impopolari immigrati rom. Quando a Roma, anni fa, l’amministrazione regionale progettò di costruire abitazioni per i profughi rom dell’ex-Jugoslavia che da anni vivono come possono nella periferia romana, nell’ambito di un progetto di integrazione, Alleanza Nazionale avviò una campagna micidiale contro le “villette ai rom”, suscitando l’ira dei poveri contro i poverissimi, e per di più stranieri. Occorre coraggio e senso di responsabilità politica, e capacità di leadership, per spiegare alla gente che non si tratta di fare regali ai “pigri e disonesti” (ah, dimenticavo, e “sporchi” rom), ma di affrontare per davvero I problemi lasciati incancrenire in quie ghetti immondi che sono i cosiddetti “campi nomadi”. Certo, ci vogliono anche con i fogli di via, quand’è il caso, in applicazione della oggi molto dibattuta direttiva europea sulla libera circolazione, che prevede il riaccompagnamento al paese d’origine del cittadino comunitario, per evitare che “coloro che esercitano il loro diritto di soggiorno diventino un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante”. Viene da ridere: quanto sono costati, i disperati delle baraccopoli, per il lacunoso ed evanescente sistema di assistenza sociale italiano ? Quanto avremmo risparmiato, tutti noi contribuenti, se si fosse speso qualche euro di assistenza sociale, invece che tanti euro di misure di polizia che arrivano inevitabilmente a cose fatte, quando non soltanto per riempire un “rassicurante” servizio di telegiornale ? Per esempio, “nel 2004 la repressione è costata complessivamente 115.467.000 euro, ovvero 320 mila euro al giorno, contro i 29 milioni di euro destinati a integrazione e assistenza” . In effetti, la spesa in repressione può aumentare all’infinito, e il contrasto tra successi limitati e temporanei e l’inevitabile fallimento di lungo periodo potrebbe spingere ad una nevrotica rincorsa verso misure sempre più draconiane. Ma se non ci si indirizzerà verso la rimozione delle cause sociali e storiche della condizione dei rom, non servirà a molto: le ragioni della sopravvivenza di una popolazione analfabeta e disperata, ma anche vitale, eroica a suo modo nel resistere alle avversità, determinata a sopravvivere contro tutto e contro tutti, saranno sempre più forti degli interventi di polizia, a meno certamente di non innalzare l’escalation fino alla deportazione collettiva, all’arresto indiscriminato, o peggio. Non sembri inutilmente retorica quest’ultima osservazione. Sarebbe possibile ragionare della condizione della comunità ebraica in Italia e in Europa senza far riferimento alla storia, e quindi alla Shoah ? Eppure, è dimenticato e rimosso il Porajmos, la Shoah degli zingari, e del tutto dimenticata, con un silenzio che non si può che definire omertoso, l’esistenza di campi di concentramento fascisti, tra il 1938 e il 1943, destinati agli zingari italiani. Gli zingari eruopei nei campi di sterminio nazisti vennero privati persino di un nome, essendo catalogati con il triangolo nero genericamente destinato agli “asociali”, non diversamente da come, oggi, si utilizza il termine “nomadi”, quanto mai falso e ingannevole, per giustificare ipocritamente l’assenza di interventi destinati all’alloggio dignitoso e all’integrazione. “Nomadi”, quindi gente strana, che “non vogliono integrarsi”, per dirla con una dichiarazione di Gianfranco Fini. Già, non sono io razzista, sono loro che sono negri (o zingari), come recita la vecchia barzelletta. E tanto basta per lasciar cadere, o sabotare, le politiche di integrazione che sole possono garantire anche la “sicurezza” nel lungo periodo. E’ un vero e proprio giallo il mancato impiego dei fondi europei per l’integrazione sociale destinati all’integrazione della minoranza rom da parte dell’Italia: eppure sono disponibili, poichè da tempo la questione rom è stata individuata come prioritaria a livello comunitario. Come in altri temi, in questi anni l’esempio viene dalla Spagna: la spesa sociale di Madrid per la comunità gitana è molto elevata, e fa parte di un piano di lungo periodo, che non si illude di cancellare in pochi anni il retaggio di secoli. E’ anche il caso di osservare, quindi, che un’ottima ragione per non ritardare, ma anzi accelerare l’ingresso della Romania nella UE è anche quella di mettere Bucarest in condizione di accedere al Fondo sociale europeo e agli altri strumenti comunitari per la coesione sociale. E’ giusto ricordare anche che ci sono, nella società italiana, voci che si sono levate per denunciare questo stato di cose, per esempio l’appello “Triangolo Nero-Nessun popolo è illegale”, promosso da giornalisti e scrittori (Moni Ovadia, Franca Rame, tra i noti, e molti “giovani scrittori” come Brizzi,Vinci e il gruppo dei Wu ming). Probabilmente è a loro che si riferisce Enzo Bettiza , quando ha scritto di “pochi privilegiati che vivono lontanti dai fetori, in superattici ovattati”, in un intervento semplicemente incredibile. In primo luogo per il titolo: “I conti con i rom”. Certo, il titolo l’ha messo la redazione, ma avrebbe mai accettato, Bettiza, per un suo pezzo, un titolo come “I conti con gli ebrei ?”. E che conti vuole fare, Bettiza, con gli zingari? Preoccupato anch’egli, giustamente, come già Romano, dell’assurda confusione diffusa tra romeni e rom, Bettiza si preoccupa di ricordare la nobile storia della Romania, isola neolatina nell’”oceano barbarico”, cita le molte figure che la Romania ha dato alla cultura europea…ne risulta uno stravagante confronto con “la piaga degli zingari”, quasi che occorra dannare i secondi per salvare la reputazione dei primi. Ma soprattutto, dal bilocale di periferia dove, si direbbe, abita per meglio condividere le sofferenze dei poveri, Bettiza invita a comprendere “la zingarofobia diffusa tra i ceti popolari, costretti a vivere a un passo da tuguri a rischio di epidemie, infestati di topi di fogna, privi d’acqua corrente, senza servizi igienici”. Rileggete: non si lamenta che degli esseri umani siano costretti a vivere così, si lamenta che sia insopportabile vivere vicino a chi vive così ! Sono loro, che sono negri. Se avesse picchiato sul tasto dei furti (perchè sì, chi vive in quel modo ruba, anche, c’è da stupirsene ?), sarebbe stato più semplice, più banale, non si sarebbe potuto contraddire. La gente non trova il motorino lasciato sotto casa, e, ovviamente, maledice il ladro. Ma Bettiza va più in là, ben interpretando, in qualche modo, lo spirito dei tempi: la miseria è offensiva, intollerabile, non nel senso che offende la dignità di chi la subisce, ma di chi vi assiste. Sono miserabili, e devono anche chiederci scusa. Abbiamo avuto testimoni di grande sensibilità, da Pasolini a Gavino Ledda, che hanno raccontato la vita violenta dei baraccati italiani nelle periferie degli anni 60 (in luoghi che che sono a volte gli stessi dove ora sorgono i “campi nomadi”), che hanno descritto lo sfruttamento feroce dei bambini da parte di “padri padroni”. Nessuno pensò di togliere i figli ai pastori sardi, trent’anni fa, nessuno pensò che le borgate romane dovessero essere abbattute con le ruspe. Si fecero dibattiti, si presentarono piani d’intervento. Cos’è successo, cos’è cambiato, quanto feroci sono i tempi in cui viviamo, perchè dal suo superattico, certo legittimamente guadagnato, uno scrittore non indegno come Bettiza, che pure ha qualche confidenza con i temi dell’esilio e della guerra etnica del ventesimo secolo, invece di prestare la sua penna al dramma odierno, quello degli zingari bosniaci che non possono tornare in Bosnia perchè le loro case sono state occupate a mano armata (sì, le loro case, abbiam già detto che quella del nomadismo è una balla), degli zingari serbi che si sono rifiutati in massa di arruolarsi nell’esercito di Milosevic, e se ne sono andati per non partecipare alla guerra etnica dei loro civilissimi vicini, degli zingari kossovari cacciati a calci in nome di un Kossovo etnicamente puro, se ne esca invece arricciando il naso, che, perbacco, questi zingari fanno davvero un po’ schifo ? Chi vive vicino alle baraccopoli (a Roma, “villaggi della solidarietà”, baraccopoli sempre, solo un po’ spazzolate) soffre, evidentemente, il fatto che molti degli abitanti di quelle baracche vivono (anche) di furti. E’ naturale che la reazione di tanta gente sia di chiedere che quelle baracche scompaiano. E’ gravissimo che una famiglia di operai o piccoli impiegati si veda sottrarre uno scooter, che costa tre o quattro stipendi e serve per andare a lavorare. Anche se pur ci sono dei giusti, in quelle baracche (l’omicida di Tor di Quinto è stato denunciato da una donna romena che viveva nella baracca vicina) . Discutiamo allora prima il problema generale, quello della criminalità degli extracomunitari, e della “sicurezza”, e poi affrontiamo il discorso delle nostre periferie. La criminalità in Italia, com’è noto, ha cominciato a declinare, in concomitanza con la crescita dell’immgirazione. Il picco record dei reati, nel 1991, 2.647.000, è stato seguito da una discesa. Mentre l’immigrazione saliva, i crimini scendevano a 2.173.000 nel 1994, sono saliti poi un poco e poi sono ancora discesi, nel 2001, a 2 milioni 163mila, infine sono tornati a salire, e nel 2005 e 2006 hanno superato il dato massimo del 1991, fino a 2 milioni e 700mila. Un segnale grave, questo recente, ma che deve essere analizzato anche qualitativamente . Cominciamo allora con il dire che il crimine più grave, l’omicidio, è sempre più raro: 621 casi nel 2006, contro i 1918 del 1991. Anche sulla tanto discussa “microcriminalità”, c’è da dire che risultano in discesa scippi e furti negli appartamenti, nonchè i furti d’auto. Salgono quelli dei motorini, e salgono le rapine, salgono altri tipi di furto. Le cose non vanno bene, ma di qui a parlare di un’Italia messa a ferro e fuoco, ce ne corre. Che l’Italia sia un paese più insicuro di venti anni fa, è falso. E’ anzi più sicuro. Rimane meno sicuro per le donne: la violenza maschile è un fenomeno dirompente. Lo stupro della donna bianca è nella hit parade della paranoia dei razzisti di ogni tempo, ma soltanto pochi sono gli stupri commessi da stranieri, e persino da sconosciuti in generale. Le violenze sulle donne avvengono in famiglia, o sul luogo di lavoro. Gli immigrati regolari che risultano aver commesso un reato sono il 5-6%, esattamente la percentuale di immigrati residenti sulla popolazione italiana. Insomma, un immigrato può delinquere come un italiano, nè più nè meno. Il dato della criminalità degli extracomunitari diventa sbilanciato, nelle cifre, se carichiamo i dati degli irregolari e dei clandestini: allora, e solo allora, il fenomeno della criminalità straniera prende consistenza. C’è da dire che sarebbe meglio che venissero eliminati al più presto i reati “creati” dalla “Bossi-Fini”: sarebbe bene cioè depurare queste statistiche dal reato di clandestinità recidiva, che era prima un’infrazione amminsitrativa, e in quanto reato ha prodotto migliaia di arresti e di processi che hanno appesantito il lavoro di polizia e magistratura, inutilmente. Ma insomma, è vero, chi è fuori dal gioco, ai margini, è a rischio di diventare un criminale. Ci scuserà Rutelli, ma qui ci vuole un po’ di sociologia. L’Italia, paese relativamente sicuro, sarebbe ancora più sicuro senza i clandestini. La soluzione è ridurne il numero. Questo si può fare cercando di metter loro il sale sulla coda uno per uno: si spendono molti soldi, e non funziona. Offrendo vie di regolarizzazione e di integrazione, invece, possiamo sperare e far sperare in un futuro migliore. Scommettendo sull’istinto naturale di ciascuno a migliorare le proprie condizioni di vita, studiando le motivazioni all’illegalità, prevenendo, offrendo alternative. Perchè, rom od eschimesi, tutti gli esseri umani colgono un’opportunità, se gli viene offerta. Se sono messi in grado di comprenderla. Se hanno una chance, vera, non teorica (“Gli zingari non vogliono lavorare”, e lì iniziano e finiscono le politiche di integrazione nella gran parte delle regioni e delle città). Come ha detto, con sincerità, il ministro delle politiche sociali Ferrero, “occuparsi dei rom fa perdere voti”. Da Firenze ai comuni della Padania profonda, passa l’idea della punizione collettiva. Nel capoluogo toscano, casi di lavavetri aggressivi e prepotenti hanno ispirato una delibera comunale che punisce tutti i poveracci che si appostano a un semaforo. Evidentemente, quello di lavavetri non è un lavoro da tutelare: ma è il principio del colpire tutti, senza distinguere caso per caso, che è inquietante. Colpire i “lavavetri”, invece che Tizio che ha fatto questa cosa proibita il giorno tale all’ora tale (e per Tizio ci sono già i carabinieri). Non si può non ricordare Brecht: han cominciato coi lavavetri…Nei comuni padani, l’ultima trovata è quella di proibire la residenza agli stranieri senza un reddito minimo. E’ una bolla di sapone, perchè se sei poverissimo, sai che ti frega della residenza. Ma Facite ‘a faccia feroce. Al capitolo “dispetti” appartiene poi l’altra trovata, quella di proibire il matrimonio agli extracomunitari irregolari: per gusto di angustiare l’esistenza anche ai loro coniugi italiani, e impedire a questi stranieri una vita normale, alla faccia dei valori della famiglia che tanto stanno a cuore a leghisti e loro alleati (anche per impedire i matrimoni di comodo, ci sono già i carabinieri). Altrove, si cerca di proibire l’accattonaggio con la scusa della sicurezza stradale: multare i mendicanti è la nuova frontiera della società ben ordinata Padania style. La xenofobìa e il razzismo sono veleni che ci portiamo dentro, e che si attivano anche per stimoli minimi. Il rapporto Censis 2000 rilevava come l’80,4% degli italiani percepisse come numericamente eccessiva la presenza degli immigrati, l’88,1% chiedeva al governo di limitare più strettamente i flussi di ingresso, il 74,7% per cento vedeva una correlazione tra immigrazione e criminalità: eppure era un anno in cui i reati, come abbiamo visto sopra, stavano scendendo, e gli immigrati erano soltanto il 2,6% della popolazione. In verità, i sentimenti di paura verso gli immigrati accompagnano da sempre la storia del fenomeno migratorio in Italia. Gli immigrati sono il capro espiatorio delle paure collettive. Si diceva delle periferie: per Ilvo Diamanti , “Non è un caso che la “crescita della criminalità” sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall’effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. (…) Una umanità che perde l’abitudine alle relazioni; e il “controllo” sul territorio. Il Nord “padano” e “pedemontano”, da parte sua, questa strada l’ha già intrapresa da tempo. E’ divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d’Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci.” Che scelte devono fare gli amministratori socialisti ? Amministratori e amministratrici che, essendo di carne anche loro, sono ovviamente tentati di evitare le iniziative che “fanno perdere i voti”. Quello che si vuole qui sostenere è che, sì, certo, è dura andare contro la corrente dell’ansia dilagante. Nè deve vessere sottovalutato il danno sociale ed economico diffuso prodotto dalla “microcriminalità”. Però, accodarsi alla “paranoia securitaria” non è solo un crimine (politico), è anche un errore. E non ci porterà voti. Infatti, questo tema è ormai stato scelto, nel centro-sinistra, dal Partito democratico di Veltroni. Il sindaco di Roma ha deciso di giocarlo con durezza e spregiudicatezza, gridando a gran voce “sicurezza, sicurezza!”. Non ci sarà spazio per ripetere, accodandosi, a voce più flebile, “sicurezza, sicurezza”. Questa è forse una chance provvidenziale, per i socialisti. Siamo liberi di dire cose più complesse, meno facili, ma più vere. Dicendo la verità, dicendo che nessuna politica della sicurezza si può fare venendo meno ai principi dello stato di diritto e ai diritti umani, senza diventare politica di massima insicurezza, parleremmo a un pubblico più ridotto, ma non inesistente, anzi. Dicendo che i crimini dei poveri si combattono meglio riducendo la povertà che arrestando i poveri, diremo una verità che, in questi tempi feroci di regresso ad una morale ottocentesca e vittoriana che divide i poveri in pochi “virtuosi” e molte “canaglie”, risulta addirittura rivoluzionaria. Se ci sono molti cittadini impauriti, ce ne sono anche di disgustati, che non credono ai facili capri espiatori, che richiedono garanzie per tutti, inclusi zingari e senzatetto. Che chiedono, semplicemente, che ognuno sia giudicato come persona, non secondo truci criteri etnici. Che andrebbero forse a cena con un “vu’ cumprà”, ma mai e poi mai con Gentilini, o Boso, o Borghezio. Migliaia di donne l’hanno gridato, nella grande manifestazione spontanea contro la violenza tenutasi a Roma pochi giorni fa. Erano gente, gente comune, non scese dai superattici, e questa storia dei rumeni, guarda un po’, non l’hanno bevuta. Il caso di Tor di Quinto, invece che “rumeno uccide italiana”, per loro era piuttosto “maschio colpisce donna”. Semplificatorio anche così, ma, come dire, un po’ meno approssimativo. Abbiamo avuto il coraggio di farlo ai tempi delle Brigate Rosse, di dirci garantisti quando l’intera Italia veniva atterrita dalla retorica del “partito della fermezza”, e si invocavano le forche e la morte sacrificale di Aldo Moro. Possiamo ritrovare oggi un po’ di quel coraggio. E dire che la retorica della “sicurezza” di oggi è figlia della retorica della “fermezza” di ieri, porta con sè gli stessi virus demagogici e illiberali. E dire, semplicemente, con Tony Blair, “duri con il crimine e le sue cause”. Copiando il laburismo britannico anche nella sua attenzione alla xenofobìa e all’integrazione interrazziale. Affrontandole, queste cause. Che sono anche le stesse cause dell’angoscia e della paura: sono la globalizzazione non governata, la crisi delle comunità locali e della solidarietà civica, la solitudine degli anziani e la violenza sulle donne, la ghettizzazione dei poveri e la fine dell’economìa contadina che spinge i poveri dell’Est e del Sud a inurbarsi alla meno peggio. Il socialismo municipale ha un compito davanti a sè, rendere davvero sicure, cioè vivibili, serene, belle le città. Salvaguardare i valori civici, il tessuto di relazioni, il rispetto e la dignità. E anche la compassione, la cura per i poveri, il rispetto per tutti. In primo luogo per gli elettori: spaventati dai titoli dei telegiornali, ma che si meritano di più di politici opportunisti che ne cavalcano le angosce. Si meritano politici che dicano loro la verità: che l’Italia del Mulino Bianco non non è mai esistita, e non si può quindi richiamarsi ad una tradizione inventata di sana pianta da quattro pubblicitari. Che la globalizzazione e l’integrazione sono il presente e il futuro. E’ un lavoro per i socialisti.
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