ANNIVERSARI. L'11 APRILE DEL 1987 PRIMO LEVI SI TOLSE LA VITA di Antonio Landolfi

31 agosto 2004

ANNIVERSARI. L'11 APRILE DEL 1987 PRIMO LEVI SI TOLSE LA VITA di Antonio Landolfi

da Il Riformista del 9 aprile 2004 Non c'è quiete tra tempeste antisemite I tormenti mai sopiti dell’autore della «Tregua»: l’odio per gli ebrei è permanente L'11 aprile del 1987 Primo Levi poneva fine alla sua tormentata vicenda umana. Un suicidio terribile. Un atto di disperazione. Un monito. Come aveva scritto un grande narratore, Elias Canetti, «è impossibile eliminare l'orrore della storia». Primo Levi, da ebreo, l'orrore l'aveva descritto e raccontato. L'orrore della persecuzione degli ebrei, del suo popolo, da parte del nazismo. Ma aveva capito che con la fine del nazismo quell'orrore non era cessato. Sopravviveva ai lager che aveva conosciuto e sopravviverà nella storia del nostro tempo. In altre forme, non meno cruente. Continua a sopravvivere. Levi ne aveva piena consapevolezza. Era ebreo, era sionista perché convinto che solo con la creazione di uno stato ebraico il popolo d'Israele avrebbe trovato un riparo per difendersi dall'orrore: come invece non aveva potuto difendersi prima e durante il secondo conflitto mondiale quando aveva dovuto subire l'eccidio infame dell'Olocausto, dopo circa duemila anni di persecuzione in ogni parte del mondo. Ma sentiva che l'orrore era pronto a tornare e per questo aveva deciso di togliersi la vita. Primo era un uomo di scienza, un chimico. Nella sua Torino aveva respirato il clima dell'amore e della libertà, che dagli operai agli intellettuali conduceva alla Resistenza contro il fascismo. La sua scelta non ebbe esitazioni, schierandosi con la lotta della Resistenza, consapevole dei rischi che correva per la religione che professava. Nel '44 venne catturato mentre combatteva nelle fila partigiane e dapprima condotto ed internato a Fossoli. Qui venne individuato, qualche tempo dopo, come ebreo ed inviato al campo di Auschwitz: sopravvisse, tra indicibili sofferenze. Ma moriva ogni giorno con i suoi compagni di prigionia che venivano stroncati dalla ferocia degli aguzzini con la croce uncinata. Quello che più lo feriva non erano le privazioni, la fame, il dolore fisico, la morte che colpiva i tanti e incombeva su tutti. Lo feriva l'ossessione dei torturatori e degli assassini nel tentare di annullare la dignità degli uomini e delle donne, di strappare loro ogni senso d'umanità, di cancellare ogni personalità. E' questo il dolore, l'umiliazione, l'annientamento della persona umana che trasuda da ogni pagina, da ogni parola di Se questo è un uomo, il libro con cui, tornato in patria dopo la sconfitta del nazifascismo descrisse mirabilmente l'inferno di Auschwitz. Se questo è un uomo ha segnato indelebilmente una pietra miliare nella letteratura della Resistenza. Ed anche della letteratura ebraica, perché descrive il tentativo di umiliare e annientare un popolo, la sua esistenza, la sua storia, la sua speranza; un tentativo compiuto orribilmente dalla barbarie nazista e da altre barbarie. Cui il popolo ebraico ha saputo dare, anche grazie alla Resistenza, una risposta forte e civile, tornando padrone del suo destino dopo la bufera del conflitto. La sconfitta del nazismo e del suo razzismo antisemita era però vista da Levi non come la vittoria definitiva sulla barbarie nel suo tentativo di annullare il suo popolo, ma soltanto come un tregua. La Tregua, infatti egli titolò la sua opera successiva, uscita sedici anni dopo Se questo è un uomo, nel 1963. Un nuovo successo che ispirò, dopo la morte di Levi, un grande film di Francesco Rosi. Nel libro si descrive il ritorno alla vita di tutti i giorni degli scampati dai campi di annientamento. Un ritorno difficile per le difficoltà che incontrano, perché il senso della ritrovata libertà non potrà mai essere gioioso, e perché l'esperienza della loro terribile vicenda li segnerà per tutto il resto della loro esistenza. Pochi saranno per loro i momenti di serenità, mentre ogni autentica felicità ormai è preclusa per sempre, la memoria di quel che è avvenuto, dei loro congiunti e compagni scomparsi li accompagnerà per tutto il resto della loro esistenza. Con il passare del tempo, Levi si accorgeva ad ogni passo che la tregua finiva, che l'incubo degli anni giovanili tornava, che la tempesta si profilava all'orizzonte. Il suo desiderio, espresso apertamente nelle poesie di L'osteria di Brema come nei racconti di Vizio di forma e nel romanzo Se non ora quando?, era che la tragedia dell'Olocausto potesse essere sventata e che il popolo ebraico non dovesse ripercorrere la strada delle persecuzioni e del genocidio. Tali sono le sensazioni che trovano in un'opera illuminante La ricerca delle radici, un'antologia personale, come l'autore stesso la definì. L'ultimo capitolo si intitola «Siamo soli». Per Primo Levi gli ebrei erano tornati ad essere soli. La tregua era finita.

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