ALTRO CHE IMU E TASSE, SONO GLI OSPEDALI IL VERO TEMA DA DIBATTERE di Alberto Benzoni dall'Avanti! della Domenica del 10 febbraio 2013
07 marzo 2013
A Roma, in un grande ospedale, un occhio che sanguina viene bendato per più giorni successivi, con la stessa garza. Sempre a Roma, in una scuola materna pubblica, niente recita di Natale. A Napoli, blocco del trasporto pubblico per un’intera mattinata. Tre eventi, di portata diversa, ma di identica qualità - viene negato un diritto o, se preferite, una aspettativa fondamentale - e con identica motivazione- mancano i soldi. A causa dei tagli alla spesa pubblica, attuati dai diversi governi e, in particolare, dal governo Monti. Una reazione volutamente sopra le righe, a scopo provocatorio? O, invece, la segnalazione di un dato oggettivo? Probabilmente, l’una e l’altra cosa. In ogni caso, l’indice di una situazione che, comunque la si consideri, è vicina al punto di rottura. Il che equivale a dire che è politicamente impensabile, oltre che socialmente disastroso, procedere oltre sulla via dei tagli lineari. E però allo stesso modo, non si può pensare, nei termini attuali, all’ulteriore aggravio della pressione fiscale. Sarebbe stato dunque auspicabile che ai due temi fosse stato riservato uguale spazio nel corso della campagna elettorale. E non solo come strumenti alternativi in una politica del contenimento del debito, ma anche nei loro riflessi sul contesto economico sociale o, detto più brutalmente, per stabilire chi debba sopportare maggiormente i costi della crisi. Meno tasse, meno Stato, meno spese sociali, oppure più tasse e mantenimento del ruolo dello Stato a sostegno di un sistema di “welfare”. Uno scontro che i vecchi nostalgici potrebbero definire come “scontro di classe”, ma che si è svolto, nell’anno di grazia 2012, nel simbolo della modernità capitalista, gli Stati Uniti e, una volta tanto, con la vittoria dei buoni. E invece in Italia, nulla di tutto questo. In Italia, almeno sinora, si è parlato solo di tasse, mentre, in tema di spesa pubblica c’è un assordante silenzio. O, peggio ancora, un coro generale a favore della sua diminuzione, accompagnato peraltro da una vergognosa genericità sugli “sprechi” da colpire. Un aspetto, quest’ultimo, su cui torneremo in conclusione. Perché quello che ci preme sottolineare subito è che l’urlo come il silenzio sono il riflesso di una campagna elettorale in cui il Cavaliere ha svolto sino in fondo il suo compito mentre la sinistra di governo non è andata oltre il minimo sindacale. Berlusconi ha urlato, rivolgendosi, con menzogne spudorate quanto efficaci, alla pancia del suo elettorato: proprietari, benestanti, tartassati tendenzialmente evasori, populisti che vedono nello stato, nelle sue strutture, nelle sue regole, un’intrusione intollerabile nei propri interessi e nella propria vita. Ed ha promesso, come Maroni, il paese di Bengodi di un fisco e di uno Stato limitati, modello Tea party, degli altri, quelli che sarebbero stati colpiti dal taglio consistente di spese e di strutture, non c’era da preoccuparsi, tanto non avevano mai votato per lui. Comprensibile avere , su questa linea, il silenzio-assenso di Grillo, dopo tutto, per il comico genovese come per molti altri, la contestazione del Cavaliere come persona pubblica e privata non si estende automaticamente alla sua reincarnazione populista. Anzi. Il bello, anzi, il brutto è che anche la sinistra sembra partecipare al coro anti-spesa, anche se, nel concreto, le misure proposte sembrano anche qui, ispirate al minimo sindacale, diciamo la solita solfa sul dimezzamento dei parlamentari e sull’abolizione delle province. Mentre ci si guarda bene dall’esprimersi sul piano della Cgil che pecca, certo di ottimismo sfrenato per quanto riguardo il reperimento delle risorse necessarie, ma che ha almeno il merito di porre il problema del concorso dello Stato nel rilancio dell’economia. Perché questo silenzio? Diciamo subito che le sirene liberiste - così spesso denunciate dalla sinistra parolaia - non c’entrano, tanto più che il Pd ha accuratamente cancellato dalle liste tutti gli esponenti di questa tendenza. C’entrano, invece, e come, difficoltà, insieme tattiche e di elaborazione politica. In parole povere, non è semplice apparire i paladini della spesa e, ancor più, della validità dell’intervento dello Stato quando l’immaginario collettivo, da vent’anni a questa parte, si basa sulla contestazione dell’una e dell’altra. E quando, in campagna elettorale, l’angoscia per le troppe tasse sembra fare premio su quella per la mancanza di servizi. Per altro verso, una difesa efficace della spesa sociale presuppone due passaggi importanti ben lontani dall’essere stati realizzati. Il primo è un accordo europeo per l’allentamento dei vincoli di bilancio, fino a consentire quei metodi curativi di tipo keynesiano, oggi ai margini della legalità. Il secondo è l’avvio di un disegno di riforma dello Stato, senza il quale qualsiasi dibattito sulla spesa pubblica rischia di dividere i partigiani dell’acqua sporca esistente e quelli che sono disposti a gettare via anche il bambino.
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