Alberto Benzoni 3 – 25 gennaio 2022 - RICCARDO LOMBARDI, LA SOLITUDINE DI UN RIFORMATORE
25 gennaio 2022
Se l’avesse voluto, il
nostro Riccardo avrebbe potuto essere un grande ministro; e magari anche amministratore.
Un grande scienziato pratico. O, magari, un grande giornalista. Aveva letto, e
aveva assimilato tutto quello che, nel suo universo, c’era da leggere o da
assimilare.
Era anche uno che
aveva il dono di guardare lontano. Fino a capire, prima di tutti, quello che
molti di noi non avrebbero capito mai. E cioè che il legame, per non dire la
dipendenza strategica del Pci rispetto all’Unione sovietica gli avrebbe, al
dunque, pregiudicato la possibilità di essere il protagonista del cambiamento
nel nostro paese, fosse esso di natura rivoluzionaria o, a maggior ragione, di
segno riformatore.
E capì anche, di
conseguenza, una cosa che i suoi compagni avrebbero capito, ma solo fino a un
certo punto. Vale a dire il ruolo centrale dello stato nel garantire coerenza
e, quindi, possibilità di realizzazione ai grandi processi di trasformazione in
atto dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi.
Grazie a questo suo
ottimismo della ragione è stato anche punto di riferimento delle speranze e dell’impegno
concreto di un’intera generazione politica. Quella dei “cinquantottini”,
raccontati da Vittorio Emiliani, mentalmente e esistenzialmente liberi dalle
chiusure ideologiche, dalle angosce e dai vincoli di appartenenza di un lungo
dopoguerra e pronti, quindi, a operare per costruire un cambiamento che appariva
alla nostra portata.
E lo è stato anche per
la dimensione etica del suo messaggio. In cui ogni scelta acquisiva la sua
dignità perché sempre, in qualche misura, alternativa. A testimonianza della
serietà e della dignità della politica e del conflitto.
Era anche un
grandissimo educatore. Fino a credere nella politica come pedagogia. Convinto,
com’era, che anche le sconfitte (come quella che subì nel 1963-64), se
correttamente interpretate, contenevano in sé il germe di future vittorie.
Non era, però, un
politico politicante; o, per dir meglio, un professionista del ramo. Così,
presentava i suoi progetti per quello che erano; senza additivi o coloranti e
senza involucri tali da non fare percepire l’amarezza della pillola. Così non
si preoccupava di creare, intorno a loro, la più vasta area di consenso possibile.
Anni dopo, si sarebbe
anche rivelato anche un pessimo capo corrente. Ma non era questa la sua dimensione.
Perché il suo mondo era quello dei partecipi a un progetto: dei Codignola e dei
Leon, dei Giolitti e dei Santi. Gli altri, quelli che sarebbero venuti dopo,
l’avrebbero poi garbatamente accompagnato all’uscita.
Un grande, comunque.
Come era grande il suo progetto. E come grandi, anzi irreparabili, le
conseguenze del suo fallimento.
Per la verità, il
quadro di partenza sembrava estremamente favorevole. I governi centristi erano
arrivati al capolinea: e le varianti cui avevano dato luogo, da quella di
Pella, a quella Scelba-Saragat a quella impazzita di Tambroni, erano tutte
finite in un vicolo cieco.
C’era il boom
economico, con la relativa disponibilità di risorse.
C’era la voglia, tutta
concreta, di cambiamento delle nuove generazioni.
C’era un vasto arco di
forze, provenienti dagli orizzonti più diversi (i liberali del Mondo, diventati
radicali ma non ancora trasformati in pannelliani; i repubblicani di La Malfa;
la sinistra sociale della Dc, assieme a quella di Vanoni e Saraceno, allora con
il supporto attivo di Fanfani; e, infine, gli ultimi eredi della grande stagione
dei servitori dello stato, da Sinigaglia a Menichella, che nati nell’Italietta,
avevano attraversato il ventennio fascista senza rinunciare né alla loro
dignità né ai loro principi) ma, almeno apparentemente, disposti a vedere nel
Psi un punto di riferimento importante per la realizzazione dei loro disegni.
Pure nel momento decisivo
- il triennio 1962-1964 - il Nostro rimase sostanzialmente solo. Così da trasformare
la vittoria iniziale (la nazionalizzazione dell’energia elettrica, peraltro
pagata amaramente; il
pagamento degli
indennizzi alle società avrebbero aperto la strada ad avventure speculative,
ancora una volta marchio di fabbrica dei “capitani coraggiosi”) in una
sconfitta strategica.
Una sconfitta con
molte cause. Il fattore tempo; leggi il mutamento della congiuntura. La
divisione del campo riformatore tra i molti che volevano una semplice
razionalizzazione del sistema e i pochissimi che puntavano alla sua
trasformazione. La sconfitta di Fanfani e la vittoria di Moro. E, in
prospettiva la più grave di tutte, la totale assenza, nel momento decisivo, di
qualsiasi supporto da parte della sinistra di opposizione.
E qui vale la pena di ricordare agli immemori il clima di quei giorni. Nel campo della destra, un panico, un isterismo, pienamente riflessi sulle colonne dei grandi giornali di opinione come negli ambienti confindustriali, di gran lunga maggiore, credetemi, a quello che accompagnò il possibile ingresso del Pci nell’area di governo.
Dall’altra, invece, un
silenzio distratto. Comprensibile e magari anche giustificabile per coloro che vedevano
nella fabbrica il luogo decisivo nello scontro tra destra e sinistra.
Comprensibile, ma molto meno giustificabile nel Pci del tutto disinteressato ai
problemi dello stato; ma più che pronto, invece, a cavalcare un
rivendicazionismo in cui potere ascrivere a se stesso i risultati raggiunti e a
colpa dei socialisti la loro insufficienza.
Un isolamento cui si
accompagnò, intorno a percorsi del tutto diversi, quello di Nenni. Partito, nel
1956, verso una prospettiva, quella del centro-sinistra, da costruire da
costruire con il massimo di unità possibile tra le forze di sinistra. Per
arrivare, invece, nel corso degli anni sessanta, con l’accentuazione esasperata
delle divisioni.
Da allora in poi, e nel corso di
oltre dieci anni, i nostri compagni avrebbero avuto un ruolo determinante nella
crescita della democrazia e dei diritti nel nostro paese. Mentre altri ne
avrebbero raccolto i frutti. Ma solo momentaneamente. Perché, da allora in poi
sarebbe cominciata una lunga e interminabile discesa.