Alberto Benzoni 2 – 24 gennaio 2022 - SOCIALISTI E COMUNISTI IN ITALIA. PIETRO NENNI, DALLA LIBERAZIONE AL 1953
24 gennaio 2022
Pietro Nenni è stato un punto fermo della nostra storia per
circa cinquant’anni. Dai primi anni venti fino alla scissione, l’ennesima, del
1969. Considerata da quasi tutti noi, me compreso, una liberazione, insieme
psicologica e politica, da un matrimonio che non si era mai consumato. Per lui
l’ennesimo fallimento di un disegno unitario cui aveva dedicato tutta la sua
vita. Da allora in poi, una stanchezza piena di preoccupazioni per la sorte del
suo partito, momentaneamente allietata dalla vittoria, anch’essa
unitaria, nel referendum del 1974 e dalla grande festa per il ritorno
della libertà in Spagna, presenti Felipe Gonzales e Dolores Ibarruri, di cui fu
ospite d’onore.
Il messaggio che ci lascia è quello di un uomo
che si è sempre esposto di persona. E che ha molto sofferto un mondo colmo
pieno di ingiustizie e di pericoli.
E’ il sovversivo dell’ottocento, orfano di
padre, che vede dalle finestre dell’orfanotrofi soldati che sparano contro una
manifestazione di donne: il che lo porterà, nel
Ma è anche l’uomo che dopo lunghe peregrinazioni
politiche abbraccia il socialismo come punto di riferimento definitivo della
causa degli oppressi. Il massimalista che, nel 1923, si oppone alla fusione con
il Pcd’I, in nome della difesa del passato e del futuro del socialismo; ma che
imputa al massimalismo stesso la sua totale passività durante il biennio rosso
che avrebbe aperto la strada alla vittoria del fascismo. E’ e rimarrà, nelle
sue viscere più profonde, partecipe della irriducibile contrapposizione tra
sinistra e destra, lavoro e capitale. Ma, nel contempo, è sin dal principio
consapevole che questo conflitto, per non sfociare in sempre nuove tragedie,
deve essere organizzato e gestito in modo razionale. Da una parte, dando forza
e concretezza, con la politica unitaria tra socialisti e comunisti, alla lotta
contro il nazifascismo e le classi dominanti che lo avevano chiamato a soccorso
a difesa dei propri interessi. E, dall’altra, favorendo, a livello interno e,
soprattutto, internazionale, la formazione di più vaste alleanze intese a
contrastarlo e, insieme, a lottare contro la guerra (il Nostro sarà sempre un
internazionalista attivo; convinto, com’era, che il quadro esterno fosse, come
si diceva allora, “sovra determinante” rispetto a quello interno).
Il suo non è il percorso di un dottrinario. Ma
il frutto dell’esperienza ventennale di un politico; immerso in pieno nelle
vicende drammatiche della prima metà del novecento. E di una persona che,
uscito dal confino di Ponza, è quasi sopraffatta dalle difficoltà che aspettano
il suo partito. Alcune evidenti sin dall’inizio. Altre maturate nel quinquennio
postbellico. Tutte insieme suscettibili di rimettere in discussione la
sopravvivenza stessa della “anomalia socialista” , in Italia a vantaggio
del PSLI di Saragat e del Pci di Togliatti.
E, invece, questa sopravviverà. Fino a rendere
il partito, da relitto pasticcione e subalterno e quindi destinato alla
irrilevanza, come era apparso a molti in quel periodo, di nuovo protagonista
della politica italiana.
Punto di svolta, la morte di Stalin. Con il
senno di poi, apparirà singolare e un tantino equivoco il fatto che sia stato
proprio, a cadavere ancora caldo, il detentore del premio Stalin per la pace
dell’anno prima a percepire e ad annunciare “urbi et orbi” l’inizio della nuova
era della distensione; in Italia “l’ora dei socialisti”.
Nel suo ottimismo, però, non c’era nulla di
falso o di arbitrario. Era semplicemente il ritorno al Nenni del 1946: quello
che, nella sua veste di ministro degli esteri, sognava un’Europa né russa né
americana, auspicando, a livello continentale, una nuova collaborazione tra
socialisti e comunisti. Una convinzione e una strategia di cui era stato, da
sempre, antesignano.
Ma in quell’annuncio c’era qualcosa di più. La
convinzione che, una volta caduto il vincolo esterno (leggi la necessità di
fare fronte e di schierarsi), si aprisse finalmente la strada al protagonismo
socialista; ossia alla possibilità di sviluppare, a tutto campo, la propria
iniziativa politica. “Uniti ma autonomi”; questa era la linea politica di
Lombardi e da Riscossa nel 1948. Tutti a ricordare le invettive di Morandi nei
loro confronti; nessuno a domandarsi perché, dopo la sconfitta di strettissima
misura al congresso di Firenze avessero sciolto la loro corrente, rimanendo nel
partito in attesa di tempi migliori. Per riemergere, a fianco di Nenni come i
protagonisti della nuova stagione autonomista.
Saragat parlò, all’indomani delle elezioni del
1953, di “destino cinico e baro”. In realtà questo destino se l’era costruito
lui stesso. Sacrificando scientemente le ragioni, le speranze e magari anche le
illusioni su cui era nato il suo partito sull’altare di una collaborazione nata
e perpetuata per difendere la democrazia.
Nel caso di Nenni potremmo parlare invece di
eterogenesi dei fini. Perché la politica unitaria, nata da una scelta di campo,
interna e internazionale, oggettivamente errata, si sarebbe tradotta sul
terreno, in una capacità di presenza e di lotta che sarebbe stata preziosa,
allora e negli anni a venire. E nella costruzione di un partito fortemente
strutturato e motivato; e perciò capace di resistere agli attacchi di cui
sarebbe stato oggetto.
In quanto al Nenni massimalista, questo era
morto nel febbraio del 1948 (anche se non se n’era accorto). Fino ad allora il
Fronte Popolare, animato dalla sua grande capacità oratoria, era ancora
competitivo rispetto alla Dc. Ma dopo il colpo di stato di Praga, la scelta
sarebbe diventata quella tra Oriente e Occidente, dittatura e libertà. E non ci
sarebbe più stata partita.
A uccidere la sinistra italiana era stata,
insomma, l’Unione sovietica. Non era certo la prima volta. E non sarebbe stata
l’ultima.