Alberto Benzoni 1 – 23 gennaio 2022 - SOCIALISTI E COMUNISTI IN ITALIA. IL CONGRESSO DI LIVORNO

23 gennaio 2022

Alberto Benzoni 1 – 23 gennaio 2022 - SOCIALISTI E COMUNISTI IN ITALIA. IL CONGRESSO DI LIVORNO

Il Congresso di Livorno si svolge in quel breve cono d’ombra in cui l’ondata rivoluzionaria è ormai in pieno riflusso e la controrivoluzione fascista ha appena celebrato, con i fatti di Palazzo d’Accursio, i suoi primi fasti. Questo, in un quadro in cui la strategia riformista, venuta meno con la guerra di Libia, non è comunque più all’ordine del giorno.
Di conseguenza, il Congresso non fa bilanci né discute sulle prospettive. La frazione comunista accusa certo, com’era ovvio, la maggioranza massimalista, di non avere colto le “possibilità rivoluzionarie” esistenti nel paese. Ma si guarda bene dal sostenere che queste prospettive continuino oggettivamente a esistere. Basta e avanza, a dimostrare la necessità della scissione, l’assunto che, per fare la rivoluzione, occorreva avere un partito rivoluzionario. E che i socialisti, di qualsiasi tendenza essi fossero, non solo non erano in grado di esserlo ma erano il principale ostacolo alla sua formazione.
Né bastava, a redimerli, il fatto che il Psi  avesse, primo tra i suoi  confratelli europei, aderito nel 1919 alla terza Internazionale. E che si fosse opposto unanimemente all’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale. Per la loro redenzione era necessario, infatti, accettare in blocco le condizioni stabilite a Mosca;  tutte centrate sulla necessità di costruire un partito in ogni suo aspetto opposto al modello nato con la Seconda internazionale; anzi politicamente contrapposto a quest’ultimo. I congressi del partito francese, così come quello dei socialisti indipendenti tedeschi le avevano accettate e a larghissima maggioranza. Quello italiano le rifiuta; e, ancora, a larghissima maggioranza. E, a dire no sul tema dirimente dell’espulsione dei riformisti, sono i massimalisti.
Per i commentatori di oggi, una razza estinta, perché simbolo, insieme, di confusionismo  intellettuale e di primitivismo politico. Per i protagonisti di quell’epoca lontana, una sensibilità politica in perfetta consonanza con la base del partito. Diversa, se non opposta, a quella dei riformisti perché convinta dell’impossibilità di qualsiasi compromesso e/o contatto con “lorsignori”; ma anche, in prospettiva, inconciliabile con quella dei comunisti sul tema centrale della natura del processo rivoluzionario, così come sul valore dell’unità, vista come strumento essenziale per l’ emancipazione del proletariato.
Si aggiunga che i socialisti italiani non si ritengono secondi a nessuno nella loro intransigente opposizione alla guerra così come al potere borghese e nella loro totale solidarietà con la Russia rivoluzionaria e con la nuova internazionale. Al punto di non capire le ragioni dell’”ukase” di Mosca e, quindi, di una scissione decisa in partenza.
Il loro “no” è però inficiato in partenza da due fattori oggettivi. All’interno, dalla loro visione della rivoluzione come “divenire” che li ha portati ad accompagnare il “biennio rosso” senza gestirlo e senza dargli una qualsiasi prospettiva. Di fronte a loro, un mondo che la rivoluzione l’ha fatta; e un partito costituito da professionisti della rivoluzione (ma anche, ma questo si vedrà anni e anni dopo, nello spiegare perché questa non andasse  fatta…). E, a livello più generale, dall’incapacità di capire - in un clima dominato dal mito della Grande rivoluzione (in cui quella di ottobre appare il completamento e non l’antitesi di quella di febbraio) - la totale antitesi tra il modello leninista e quello socialdemocratico, in tutte le sue forme.
Tutto ciò premesso, rimane intatto il valore politico del Congresso. In Francia e  in Germania, i socialisti avevano aderito alla guerra; sino a spingersi, in quest’ultimo paese, a chiamare a soccorso del loro governo , le milizie proto naziste  responsabili dell’assassinio di Karl Liebknecht e di Rosa Luxemburg. Così da veder confluire i loro oppositori interni a confluire in massa nel nuovo partito comunista. In un clima di netta contrapposizione tra i due mondi che, ancora in Germania, sarebbe diventato di odio inestinguibile.
In Italia, invece, il socialismo di sinistra, leggi la maggioranza assoluta dei delegati, rimane, assieme ai riformisti, nel vecchio partito; ed è la minoranza comunista a scegliere la scissione.
Ci si dirà che si trattò di un episodio contingente. Tanto è vero che, meno di due anni dopo, i massimalisti si sarebbero separati dai riformisti per confluire nel PCd’I. Dimenticandosi di aggiungere che i comunisti si rifiutarono fino all’ultimo di accoglierli; ponendo all’operazioni ostacoli tali da indurre la grande maggioranza di loro, a rifiutare la fusione.
A guidare la rivolta fu un tale che si chiamava Pietro Nenni. Erede, a pieno titolo della sensibilità massimalista; riveduta e corretta da una sensibilità politica fuori dal comune.
Ma qui comincia una nuova fase del rapporto  tra massimalismo e comunismo. Per il PCd’Ii, poi Pci, fonte di continui fastidi; e, per noi, di grandissime difficoltà.

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