ABROGARE IL DIVORZIO TRA TESORO E BANKIT. ORA SE NE ACCORGONO ANCHE I LIBERALI di Francesco Bochicchio

22 gennaio 2017

ABROGARE IL DIVORZIO TRA TESORO E BANKIT. ORA SE NE ACCORGONO ANCHE I LIBERALI di Francesco Bochicchio

Guido Salerno Aletta, economista molto acuto, liberale moderato e non entusiasta né del  liberismo né  della globalizzazione né, in via ulteriore, dell’”austerity”, su Milano Finanza (testata specializzata nella finanza, e molto equilibrata, anche se certamente non di sinistra e sempre sbilanciata a favore ieri di Berlusconi, poi di Renzi ed a favore della riforma costituzionale, ma sempre di grande sapienza ed in grado di capire le tendenze economiche ed anche di esprimersi, sulle grandi dinamiche economiche, con oggettività, con particolare riferimento ai profili principali, oggettività “a priori” non scontata in chi per campare deve avvalersi di sponsorizzazioni e pubblicità degli operatori economici), ha finalmente compreso l’assurdità del divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro (ora dell’Economia). Il divorzio fu disposto a suo tempo (correva l’anno 1981) da Andreatta, Ministro, e da Ciampi, Governatore, in modo da abolire l’obbligo di Banca d’Italia di sottoscrivere i titoli del debito pubblico: ciò sia al fine  di non far gravare sul sistema bancario il peso del debito pubblico sia di costringere lo Stato, così non più sicuro di collocare i propri titoli,  a ridurre la spesa pubblica (la filosofia era la stessa della riduzione dalle tasse di Reagan, come fissata plasticamente da un Ministro dello stesso Reagan, “Occorre affamare la bestia”). Ebbene, il risultato è stato affatto opposto, e, non  a caso,  il debito pubblico allora al 60% del Pil, ora è arrivato al 140% , con la spesa pubblica che dal campo sociale si è pian piano spostata agli interessi sul debito pubblico, e, per completare l’opera, con un meravigliosa (si fa per dire) ciliegina sulla torta, rappresentata dalla circostanza che le banche internazionali di affari, sottoscrivendo o comunque collocando i titoli pubblici, governano le aste pubbliche e così lo stesso debito pubblico (propinando anche al Ministero dell’Economia derivati rovinosi, i cui contratti sono tenuti segreti e non vengono tuttora resi pubblici). Che a ripensarci siano ora i liberali, almeno i più rigorosi e disincantati e meno imbevuti di ideologia,, mentre allora furono proprio questi i veri protagonisti della separazione, è un segno positivo formidabile: da parte liberale, nella componente migliore, ci si è rassegnati alla necessità di cambiare marcia, visto il fallimento dello stesso liberalismo (non solo del liberismo). Lo Stato deve riprendere il possesso del proprio debito pubblico e deve all’uopo disporre di tutti i meccanismi possibili, e la banca centrale con il sistema bancario è all’uopo essenziale. Che poi il debito pubblico così diventa ingovernabile è un falso argomento: all’esatto contrario, è nel momento in cui ci si è rimessi alle libere tendenze del mercato finanziario che lo stesso è diventato ingovernabile. Per inciso, non è che non ci si debba porre il problema del controllo della spesa pubblica, ma solo compatibilmente con quanto sarà appena detto. Ripreso il controllo pieno da parte dello Stato, da un lato la spesa pubblica deve diventare nuovamente sociale e dall’altro occorre controllare la finanza vietandone ogni deviazione speculativa ed ogni capacità di dominare l’economia e lo Stato. Il controllo della finanza e la ripresa di una spesa pubblica qualificata ed efficiente rispondono alla versione più autentica del pensiero di Keynes, secondo l’interpretazione di sinistra di Minsky. Ma un mero “keynesismo”, anche nella versione autentica e di sinistra,  non è assolutamente sufficiente. Non sono sufficienti correttivi al mercato, anche inseriti in una logica organica quale quella appena vista.  Occorre un radicale spostamento del baricentro: non è solo un cambiamento di prospettiva, ma è proprio un intervento ortopedico sui contenuti che modifichi profondamente il sistema in via intermedia tra il capitalismo ed il socialismo, secondo un’ottica di socialdemocrazia estremamente avanzata. Secondo lo schema Keynes/Minsky una spesa pubblica qualificata sarebbe servita ad un rilancio dell’economia insieme ad un controllo rigoroso della finanza impedendole sbocchi speculativi. La spesa pubblica è aumentata senza rilanciare l’economia ma in modo strumentale rispetto alle esigenze della finanza speculativa e come da questa imposto. Lo Stato è stato privato di libertà di manovra in modo da renderlo inoffensivo e privo di efficacia a favore delle imprese. Ma queste non sono quelle produttive bensì quelle finanziarie. Il vero è che il mercato è dominato dalle imprese, ed addirittura da quelle meno produttive e più abusive. Lo schema Keynes/Minsky è stato addirittura rovesciato dal capitale. Allora, solo la mano pubblica può correggere le disfunzioni del mercato e creare equilibrio tra le imprese ma solo se si pone in termini attivi e da attore e solo se se si pone in termini antagonistici rispetto al grande capitale. In definitiva, efficienza economica dello Stato e grande finanza sono in termini antagonistici tra di loro. La riforma della finanza è ora uno dei punti attacco al grande capitale. Risparmio e grande capitale non sono tra di loro componibili. L’incarico che il cliente conferisce all’intermediario per investire le proprie disponibilità finanziarie al meglio sembra presupporre un armonia di fini, invece del tutto fittizia: l’esplosione di tale contraddizione è il punto di partenza per un intervento autoritativo sul capitale. La sinistra ha sempre considerato tutela del risparmio e tutela del lavoro non compatibili e pertanto risparmio e lavoro in posizione tra di loro antagonistica. Marx non ha mai considerato il risparmio in termini diversi dalla rendita e Keynes pose in termini plastici l’incompatibilità, evidenziando che l’inflazione è preferibile alla disoccupazione, in quanto ila voro merita più tutela del risparmio. L’alleanza tra risparmio e lavoro è il vero punto decisivo di una strategia che sposti il baricentro delle scelte fondamentali di politica economica dalla finanza alla programmazione economica pubblica: alleanza non interclassista ma in un’ottica di aggregazione di classe da parte del lavoro, che aspiri al ruolo di protagonista.

 

 

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