ABOLIRE LE PROVINCE, PUNTO E BASTA - di Carlo Tognoli

20 gennaio 2008

ABOLIRE LE PROVINCE, PUNTO E BASTA - di Carlo Tognoli

L’ente ‘Provincia’ è stato in discussione sin dalla sua istituzione, avvenuta, dopo l’unità d’Italia, con la legge del 1865 che estendeva l’istituto, già presente nello Stato sardo-piemontese. Le nuove province solo raramente coincidevano con gli ordinamenti territoriali degli Stati preesistenti, ma erano realtà solo sul piano giuridico. La provincia veniva considerata un’entità artificiale, per di più in bilico tra lo ‘status’ di ente territoriale e quello di circoscrizione amministrativa periferica dello Stato. Insomma, un confine per un area funzionale al decentramento, senza una vera rappresentazione della realtà socio economica e priva di autonomia propria.

Anche nei decenni successivi questo ente fu oggetto di critiche aspre.
Emilio Caldara (sindaco di Milano dal 1914 al 1920) quando era segretario dell’Associazione nazionale dei comuni, nei primi anni del XX secolo, considerava le province “enti buoni solo per i manicomi e per le strade” che avrebbero potuto essere facilmente sostituiti ‘da consorzi tra comuni e da aziende consorziali’. Questa opinione era ampiamente diffusa.

Nei primi anni del governo fascista l’esistenza delle province fu di nuovo in forse. Soprattutto in occasione del periodo, dal 1923 al 1928, in cui furono varate diverse riforme della legge comunale e provinciale. A salvare la vita delle province fu soprattutto il loro essere un antidoto rispetto all’istituto regionale, ipotizzato da Luigi Sturzo.

Nel secondo dopoguerra il maggior sostenitore della soppressione delle province è stato il Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, in questo coerente con le indicazioni originarie della costituente. La Commisione dei ‘settantacinque’, infatti, aveva proposto un testo molto chiaro e semplice, che avrebbe risolto la ‘vexata quaestio’: “La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni. Le Province sono circoscrizioni amministrative di decentramento statale e regionale”.
Le cose andarono diversamente e l’art.114 ricomprese le Province cui si sono aggiunte, dopo la modifica costituzionale del 2001, le Città metropolitane.
Riproporre oggi la soppressione delle province non significa fare un’altra battaglia contro i ‘mulini a vento’, ma porre una questione reale. Vuol dire affrontare concretamente il problema della riduzione della spesa pubblica.

Se il costo delle Province è pari a 17 miliardi di Euro (fonte Il Sole 24 Ore) non bisogna illudersi di azzerare questa uscita, ma si può ipotizzare che l’eliminazione degli emolumenti degli eletti, l’alienazione di beni immobili non più necessari per servizi già svolti da altre amministrazioni pubbliche, nonché l’abbattimento conseguente della spesa delle gestioni ivi comprese - produrrebbe un risparmio significativo. Il personale potrebbe essere assegnato alle altre amministrazioni tenuto conto del buon livello professionale esistente. Per contro, cadrebbero le migliaia di consulenze cui le Province hanno fatto ricorso in questi anni.
Le attuali competenze delle amministrazioni provinciali sarebbero svolte dalle Regioni e dai Comuni. Gli strumenti operativi, ove ritenuti utili per coordinare gli interventi ad una dimensione subregionale, potrebbero essere creati dalle Regioni senza spesa alcuna.
Tra l’altro per realizzare progetti infrastrutturali complessi si può ricorrere agli Accordi di Programma che hanno ben funzionato laddove sono stati utilizzati correttamente. Vedasi il ‘passante ferroviario’ di Milano (tempi lunghi, ma per ragioni finanziarie) o il nuovo polo fieristico milanese.
Soppressione delle Province dunque come atto riformatore, senza eccezioni.

Personalmente, ma non è un’opinione solo mia, sono contrario anche alla ‘Città metropolitana’ come livello istituzionale sostitutivo della Provincia. L’inserimento di questa entità territoriale nella costituzione rischia di creare ulteriore confusione e arriva tardi, quando in altri Paesi europei questo dibattito è superato da decenni.

Vai all'Archivio