A PROPOSITO DI LIBERTA’, DEMOCRAZIA, EGUAGLIANZA. di Gim Cassano del 10 aprile 2018

10 aprile 2018

A PROPOSITO DI LIBERTA’, DEMOCRAZIA, EGUAGLIANZA. di Gim Cassano del 10 aprile 2018

Dopo un lunghissimo silenzio, del quale mi sento colpevole e scuso, sento il dovere di esprimere qualche opinione su quanto va avvenendo.

E vorrei partire proprio da quando mi ero reso conto della sostanziale impossibilità (ma forse non inutilità) di tenere in piedi iniziative come quella di “21 Giugno”. Non si trattava solo della antica questione di una Sinistra litigiosa, nella quale ognuno era fermamente determinato a coltivare il proprio orticello asfittico, senza rendersi conto che nel frattempo il clima generale (non solo quello italiano) li stava disseccando tutti.

Si trattava invece di una ragione più di fondo, forse allora non ben chiara, ma che oggi mi appare evidente: ed è quella del progressivo venir meno della capacità della Sinistra di esprimere contenuti e metodi di lotta politica adeguati alla nuova realtà del Paese, avendo dimenticato che la lotta politica va costruita prima di tutto nella società.

Venuti meno alle forze di sinistra i tradizionali riferimenti contadini e delle grosse concentrazioni operaie, sia per effetto dei mutamenti della struttura produttiva, che per la percezione da parte di questi di una grande distanza dai comportamenti e metodi delle forze che si definivano di sinistra; non avendo saputo queste interpretare e dar voce a nuove forme di disagio sociale che non coincidono più con le antiche divisioni di classe, interessando masse di precari non sindacalizzati, giovani diplomati e laureati, lower middle-class impoverita, anziani; sono così venute meno, nel Nord laico ed in quello bianco, nel Centro-Nord rosso, nel Sud altalenante, le condizioni del radicamento sociale della Sinistra.

Il tutto è stato accelerato ed aggravato dai due equivoci che hanno caratterizzato la politica italiana degli ultimi 25 anni: quello che il partito berlusconiano potesse svolgere le funzioni di un moderno partito liberal-conservatore; e, fatto ancor più grave ancora per la storia che ci riguarda, quello che un partito sorto dagli eredi del partito conservatore per eccellenza e dagli eredi del maggiore e più combattivo partito comunista d’occidente potesse trovare la propria unità nello svolgere le funzioni di un moderno partito socialista, anziché in quella di un riformismo rinunciatario. Non a torto, l’alternanza al governo tra i due blocchi non è mai stata percepita come tale e come portatrice di mutamenti di indirizzo reali.

Si è visto come la realtà sia stata ben diversa dai proclami, e come la destra abbia prosperato, aggravandolo, sul degrado morale della Repubblica, e come essa non abbia mai superato i riferimenti a matrici che sono, nelle sue varie componenti, quella postfascista, quella del populismo xenofobo, quella di un populismo tecnocratico, tuttora in essa presenti.

E come il Partito Democratico, tenuto insieme dalle necessità elettorali, si sia adeguato ad un’agenda politica dettata dalla destra anche quando esso fu al governo, addivenendo con questa ad intese dettate dall’intenzione di circoscrivere la rappresentanza popolare ed il potere politico all’uno o all’altro dei due blocchi; come abbia dismesso ogni velleità di reale riformismo, dando forma giuridica alla precarizzazione ed alla marginalità del lavoro già emerse dalla crisi economica degli ultimi anni; e come abbia rinunziato ad un qualsivoglia ruolo attivo in Europa.

La sguaiataggine renziana ha fatto il resto, limitando discussione e democrazia interna al cerchio magico dei propri fedeli.

Non c’è quindi da stupirsi se il Partito Democratico, dismessa ogni capacità e velleità di reale riformismo, sia stato visto come una delle espressioni dell’establishment tecnocratico, anche dal proprio tradizionale elettorato, che difatti lo ha abbandonato in massa, per volgersi, in assenza di reali alternative, ai populismi della Lega al Nord e dei 5 Stelle al Sud.

 

In maniera non molto dissimile, nello scorso ventennio l’Europa ha visto il degrado ed il declino delle forze socialiste e progressiste, la virtuale scomparsa dei liberali, sostituiti (ma solo nelle concezioni economiche) dall’acquiescenza dei governi a visioni liberiste e tecnocratiche, il rafforzarsi delle oligarchie, il progredire delle diseguaglianze, il declino della vita democratica, insieme all’emergere del populismo xenofobo e nazionalista.

Questo, anzi, è diventato forza dominante nella gran parte dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e di quelli emersi dalla disgregazione dell’URSS e della Jugoslavia, governati da forze di destra dichiaratamente ispirate al nazionalismo etnico ed alle concezioni autoritarie che ne segnarono il carattere negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale.

Ed ancora, un percorso simile è oggi evidente negli Stati Uniti, dove la schizofrenia di Trump mescola il più assoluto liberismo e l’esaltazione delle diseguaglianze all’interno con il protezionismo e l’avventurismo all’esterno, in un mix nazional-popolare che tende a disattivare gli anticorpi non istituzionali che hanno consentito agli USA, per gran parte della loro storia, di preservare la democrazia pur in presenza dei fortissimi poteri del Presidente.

 

Tornando all’Italia ed alle forze che si sono collocate alla sinistra del PD, i consueti esperimenti elettorali, privi dell’idea di fondo di una Sinistra unita, larga, alternativa, e capace di parlare in termini comprensibili al Paese più che ai propri adepti, hanno avuto gli esiti che, al di là di intenzioni e meriti, sono sotto gli occhi di tutti: oggi, in Italia, non esiste più una sinistra, e l’autodefinirsi del Partito Democratico come centrosinistra è una pura finzione autoconsolatoria ed autoassolvente.

Così, dopo ogni sconfitta, ci si ritrova a registrare per l’ennesima volta “la più grave sconfitta

della Sinistra nella storia della Repubblica”, ed a riconsolarsi con l’affermazione che la consapevolezza di dover “ripartire da zero” sarebbe già un buon inizio.

Altri affermano che manca un leader, una figura, o anche un gruppo, di riferimento che possa fungere da centro di attrazione per un’ipotetica ripartenza.

Francamente, mi sembrano falsi problemi.

Ritengo che invece da troppo tempo, si sia quanto meno affievolita la capacità complessiva della Sinistra, nelle sue diverse componenti, di interpretare il tempo in cui viviamo. E, di conseguenza, la capacità di contrapporsi adeguatamente, in maniera comprensibile e convincente, alla cultura tecnocratica che, oggi come ieri, è l’ideologia dei ceti dominanti.

 

E’ mancata la capacità di interpretare le trasformazioni che hanno caratterizzato il passaggio alla fase postindustriale e di dare quindi, sia sul piano della cultura politica, che su quello dell’organizzazione delle forze e dei movimenti, risposte adeguate a contrastarne gli effetti in termini di illibertà, di crisi della democrazia, di crescenti diseguaglianze.

Pur non essendo messe in discussione, almeno in via di principio, le libertà individuali, i fondamenti di una società aperta sono svuotati, in nome della libertà economica dei pochi, dalle crescenti insicurezze e precarietà dei più, che vanificano libertà di scelte, di comportamenti, mobilità sociale, facendo venir meno l’illusione liberale della parità delle condizioni di partenza.

La piramide sociale si allarga alla base e si restringe al vertice, e viene a costituire un monte sulle cui pendici è sempre più difficile salire e sempre più facile scivolar giù, ma sul cui vertice, per chi già vi sia, è facile permanere.

L’impotenza dei più nei confronti delle concentrazioni di potere economico e politico che monopolizzano senza alcun sostanziale controllo informazioni, conoscenze, e decisioni che la presunzione di libertà di mercato colloca nella sfera del diritto privato, pur avendo rilevanza pubblica e generale, intacca anche le libertà sociali e le premesse della democrazia.

Si arriva così a quel funzionamento monco della democrazia che Crouch ha battezzato postdemocrazia e, come è avvenuto in Italia, quando regole e forme istituzionali esistenti confliggano troppo apertamente con le necessità delle oligarchie tecnocratiche, all’esplicito mutamento di queste.

 

Premesso che nessuna società umana potrà mai essere né perfettamente libera né perfettamente egualitaria (e che, oltre che confliggere tra loro, nessuna di queste condizioni è auspicabile), e premesso che la democrazia perfetta è un’utopia, quello che differenzia una società aperta da una società chiusa è la presenza o meno di processi dinamici e conflittuali tali da sostenere, rafforzare ed estendere libertà, democrazia, eguaglianza. 

Lo sviluppo dei concetti di libertà, democrazia, eguaglianza, che aveva accompagnato l’evoluzione delle società occidentali nei circa 200 anni seguiti all’avvio della Rivoluzione Industriale, si è invece da qualche decennio invertito, per dar luogo ad una società che tende ad essere progressivamente meno libera, meno democratica, più classista, più rassegnata alla subalternità. E, in una spirale che si autoalimenta, tutto ciò è insieme causa ed effetto delle diseguaglianze crescenti che dalla sfera economica si trasferiscono a quella sociale e dei diritti fondamentali.

 

A ciò si sono accompagnate trasformazioni dell’organizzazione produttiva del capitalismo e delle strutture politiche che hanno indebolito lr capacità di difesa e di autoorganizzazione del lavoro ed incrementato quelle di un capitale che, da industriale, è diventato finanziario e speculativo, quando non del tutto virtuale ed alchemico: swaps, derivati, derivati di derivati, bitcoins, sono la pietra filosofale del XXI° secolo.

Il lavoro è legato alle persone, ai luoghi della loro vita, alle loro tradizioni ed esperienze; il capitale è anonimo, capace, quasi senza vincoli, di trasferirsi ove sia ritenuto opportuno.

I fenomeni di globalizzazione e delocalizzazione, pur non rappresentando un’invenzione del finire del secolo scorso (basti ricordare la struttura economico-finanziaria dell’Impero Britannico) hanno assunto oggi dimensioni e rapidità sconosciute nell’età industriale, determinando un nuovo colonialismo che si fonda non più sul controllo militare e politico, ma sui rapporti economici e sui cross-rates tra lavoro, materie prime, prodotti industriali, finanza. Gli slums del XXI° secolo si sono trasferiti dalle periferie delle città dell’occidente industrializzato alle megalopoli cinesi ed orientali, alle maquiladoras messicane, ai complessi minerari del Terzo Mondo.

Di fronte a questo, non solo le organizzazioni sindacali, ma anche gli stati, sono sostanzialmente impotenti. E le poche istituzioni sovranazionali esistenti sono più espressione delle oligarchie tecnocratiche che delle volontà politiche espresse dai Parlamenti, creando, come avviene in Europa, barriere sovranazionali a protezione dell’establishment finanziario.

Così, gli effetti della crisi economica dell’ultimo decennio non hanno fatto che aggravare questa situazione, in Italia e nel resto del mondo. Il peso della crisi non è stato condiviso, ma è stato pagato principalmente da chi già in partenza meno aveva e meno contava, sia che si tratti di gruppi sociali, che di interi Paesi. E, pur se si vanno ad osservare quei Paesi che da poco sono usciti da condizioni coloniali di secolare povertà e sottosviluppo e che sono in testa agli indici di crescita del PIL, si osserva che il più delle volte il loro sviluppo si accompagna al monopolio del potere e delle risorse da parte di nuove oligarchie, al dilagare di disparità sociali ed economiche, di carenza di libertà e di diritti, di democrazia simulata se non formalmente impedita che hanno pochi precedenti e determinano le condizioni per cui l’outsourcing internazionale trovi la sua convenienza.

 

Ho accennato sommariamente ad alcuni aspetti del nuovo capitalismo, che lo rendono profondamente diverso dai modelli coi quali le forze di sinistra erano abituate a fare i conti, fiduciose che la base operaia non sarebbe mai venuta meno. Così non è stato, ed oggi manca un pensiero culturale e politico in grado di interpretare questi fenomeni e di darvi spiegazioni comprensibili e traducibili in lotta politica.

Checchè si dica delle ideologie e della loro morte, occorre oggi costruire un pensiero che, tenendo criticamente conto della modernità, sia in grado di contrapporsi all’ideologia dominante, più che mai viva ed operante nei suoi caratteri tecnocratici, illiberali ma ammantati di liberismo di convenienza, antidemocratici.

La questione se la spirale reciproca tra fenomeni distinti sul piano della scienza politica e dell’analisi sociologica, ma riconducibili tutti ad una comune origine storica ed economica, quali il contrarsi dei margini di libertà effettiva per i più, il degrado giuridico e fattuale del funzionamento della democrazia, il progressivo approfondirsi delle diseguaglianze economiche e sociali, sia da considerare come un elemento strutturale ed ineliminabile della società postindustriale, o ne rappresenti una degenerazione, forse correggibile con azioni politiche opportune, rappresenta il punto nodale del ragionamento che una sinistra moderna dovrebbe fare.

 

Ove si concluda per la seconda tesi, per la quale personalmente propendo, occorre però aver chiaro come la spirale non possa esser interrotta o corretta per via di un riformismo subordinato a logiche tecnocratiche, né con la messianica fiducia in un futuro migliore.

Non si tratta di andare alla ricerca di aspiranti leader, né di abborracciare ennesimi e perdenti tentativi politici, quanto di tener vivi confronti e collegamenti culturali, discussione ed approfondimento complessivo su quanto va avvenendo in Italia, in Europa, nel mondo, evitando di ritirarsi nei confini di un pensiero puramente teorico o nella ricerca di una nuova escatologia della sinistra, e cercando di tenere i piedi nelle realtà concrete.

E sarebbe utile, a partire da queste, accompagnare e seguire quanto avviene nella politica e nei brandelli sparsi della sinistra, sviluppando ove possibile i collegamenti con movimenti ed iniziative politiche, organizzative, culturali, conformi a queste valutazioni.

Ovviamente, non credo vi siano ricette pronte, e men che mai io ne ho.

Arrivati a questo punto, ritengo che al “Network per il Soialismo Europeo” vada riconosciuta la capacità ed merito di aver tenuto vive discussioni e rapporti che vanno nel senso che sopra è stato indicato, e che questa esperienza vada il più possibile condivisa ed allargata.

 

 

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